Giovedì scorso le sale contrattazioni di tutto il mondo hanno assistito ad un fenomeno sconcertante: l’oro che saliva di 40 dollari all’oncia in una sola giornata, avvicinandosi ai 1.000 dollari all’oncia.
La cosa ha preso in contropiede buona parte dei trader e dei giornalisti economici. Anche perché la domanda di oro fisico per gioielleria, nel secondo trimestre del 2009, è scesa ai minimi da oltre 5 anni. E quindi la spiegazione del rialzo va cercata da qualche altra parte. Ma dove? Qui la fantasia si è scatenata.
Per il Sole 24 ore, «il movimento è nato dai grafici» (ossia dall’analisi tecnica, che avrebbe dato un segnale di acquisto). Per altri, dall’imminente chiusura di un fondo rialzista sul petrolio. Per altri ancora, da rumors di acquisti da parte delle banche centrali. Qualcuno ha ricordato che l’oro sale sempre nel mese di settembre. Qualcun altro, sul blog del Financial Times, ha tratto ispirazione dagli astri: «le recenti tendenze rialziste sono avvenute in anni dispari, le rotture al rialzo si sono verificate in settembre, quando Marte si trova in congiunzione con Saturno». Quest’ultima spiegazione rappresenta un’eloquente conferma del detto di Adorno, per cui «l’astrologia è la metafisica degli imbecilli». Ma in fondo non è molto più irrazionale del titolo del Sole.
In verità le cose sono più semplici. Per mesi si è alimentata l’illusione che il forte rialzo del mercato azionario da marzo fosse il segnale che «anticipava» (secondo i più ottimisti «di 6 mesi») la fine della crisi. È molto più probabile, invece, che si sia trattato solo di un rialzo inserito in una tendenza ribassista di più lungo periodo. Perché la crisi è tutt’altro che finita. Questo dicono i dati sulla disoccupazione Usa (salita al 9,7%, record dal 1983, con ulteriori 216.000 posti di lavoro bruciati ad agosto) e sulla disoccupazione in Europa (9,5%, con 21 milioni di disoccupati). Ma anche i dati sui noli marittimi (con il Baltic Dry Index sceso del 44% da giugno) e quelli sul prodotto interno lordo, che evidenziano un calo dal 4% al 6% in tutti i maggiori paesi industrializzati dell’Occidente.
Non solo: nessuno dei problemi aperti a livello finanziario è stato risolto. La mina dei derivati è ancora lì (lo ha rilevato la Banca Centrale Europea a proposito dei credit default swaps). Le regole contabili internazionali sono state alleggerite. E sul Sole24ore del 2 settembre abbiamo potuto leggere che gli attivi delle banche occidentali a fine 2008 erano pari a 62.000 miliardi di dollari, a fronte di un capitale di appena 3.800 miliardi. Questo equivale a una leva finanziaria di 16,5: di fatto, il portafoglio delle banche è oggi 3 o 4 volte più rischioso di quello degli hedge fund più aggressivi.
Insomma, come ai tempi della «bubble epoque» che credevamo finita nel 2007. Ma con una differenza rilevante. Che nel frattempo, per tamponare la crisi, sono state impegnate risorse pubbliche di enormi proporzioni. Si è calcolato che i soli Stati Uniti abbiano impegnato risorse pari a 3 volte quelle spese per la seconda guerra mondiale e 12 volte di più, in rapporto al pil, di quanto fu speso per combattere la Grande Depressione. L’ovvio risultato è l’esplosione del debito pubblico Usa. Ma in Europa le cose non vanno meglio, con un deficit francese che quest’anno veleggia all’8% e quello inglese addirittura al 12%. Per non parlare del Giappone, da tempo campione mondiale del debito pubblico.
Tutto questo avrà in un prossimo futuro enormi conseguenze per tutti noi (una per tutte: la definitiva distruzione del welfare – almeno in assenza di forti movimenti sociali di contrasto). Ma una conseguenza è già chiara: oggi nel mondo non esiste alcun porto sicuro dal punto di vista valutario. Se il debito pubblico statunitense è una bomba a tempo, nessuna reale alternativa in termini di investimento valutario è oggi all’orizzonte. Per questo motivo molti paesi emergenti, a cominciare dalla Cina, stanno cercando di creare proprie aree valutarie o di regolare i propri scambi facendo a meno delle valute tradizionalmente egemoni. Ma è un processo che richiede tempo. È in questo contesto che l’oro torna ad assumere il ruolo di valuta rifugio, di «moneta mondiale» (Marx). Oggi l’oro – ben lungi dall’essere quel «residuo di tempi barbarici» di cui parlava Keynes – è già «divenuto la terza valuta internazionale di riserva dopo dollaro ed euro, e si avvia rapidamente a diventare la seconda» (Gartman).
La febbre dell’oro è insomma, come ogni altra febbre, un sintomo. Un sintomo dell’attuale disordine valutario. Ma più in generale del fatto che è l’attuale ordine economico mondiale ad essere, sempre più chiaramente, un «barbarous relic».