Le cifre parlano chiaro: i dati ufficiali ci dicono che a luglio del 2008 in Italia su una popolazione di 59.872.932 persone i detenuti erano 55.057 (vedi siti demo.istat.it e giustizia.it), con una percentuale di popolazione incarcerata dello 0,09%. Non è ancora disponibile il dato ufficiale del 2009, ma è certo un aumento della percentuale (questa estate si è giunti a quasi 64.000 detenuti). Il dato statistico è inferiore a quello del 2005 (0,1%), ma superiore a quello di dieci anni or sono (nel 1998: 0,08%).
Nel Paese più libero e democratico del mondo (ancora più ora dopo l’elezione del primo presidente nero) la situazione è peggiore: nel 2008, 2 milioni e 300.000 detenuti su una popolazione di 305.788.568 (percentuale dello 0,74%), 10 anni prima la percentuale era dello 0,46. Calcolando un sicuro aumento nel corrente anno, si è giunti al raddoppio dei detenuti nell’arco di 10 anni (vedi siti census.gov/population e ojp.usdoj.gov/bjs/prisons.htm). Mancano i dati ufficiali sulla composizione di classe dei detenuti, ma è certo che così come negli Usa la stragrande maggioranza è formata da neri e “latinos”, qui da noi è formata da extracomunitari (a Milano San Vittore circa i due terzi).
Le carceri sono insufficienti a contenere tutti e anche il personale di custodia è insufficiente (ad oggi 43.000 agenti di polizia penitenziaria); le conseguenze ricadono solo sui detenuti, con sovraffollamento (64.000 detenuti per 43.000 posti disponibili) e condizioni di sopravvivenza ridotte al minimo (igiene, vitto, ore d’aria, lavoro, eccetera).
Da qui, le proteste di questa estate, così come pure i numerosi suicidi (45 nell’ultimo anno, senza tenere conto di alcuni casi archiviati come incidenti).
Le strutture repressive statali manifestano preoccupazione e corrono ai ripari: ovviamente costruzione di altre carceri, ampliamento di quelle esistenti, ma anche differenziazione all’interno delle stesse. Si vuole evitare la pericolosa commistione di detenuti comuni, italiani e stranieri; detenuti politici, vecchi e nuovi; islamici; singoli ed associati.
È vivo il ricordo, evidentemente, di quanto avvenuto negli anni 70. Scriveva il compagno avvocato Giambattista Lazagna nel 1974: “avanguardie rivoluzionarie hanno raccolto le denunce e le analisi delle lotte dei carcerati, il loro significato politico di opposizione a tutto il sistema violento dello Stato, hanno collegato il fronte dei carcerati con tutti gli altri fronti della lotta di classe, evidenziando la matrice unica e classista della repressione carceraria, poliziesca e giudiziaria e avviando nella lotta un processo di superamento della distinzione tra detenuti ‘politici’ e ‘comuni’, tutti oggetto della stessa violenza” (G. Lazagna, “Carcere, repressione, lotta di classe”, Feltrinelli, 1974).
È da evidenziare un altro dato statistico significativo: nonostante il conclamato allarme “sicurezza”, le relazioni dei Procuratori Generali alle inaugurazioni degli anni giudiziari ci dicono che i reati non sono affatto in aumento. “L’allarme insicurezza è rimasto più o meno costante, alimentato dal sensazionalismo dei media e dalla demagogia politica” (così già nel 2003 Alessandro Dal Lago nella sua introduzione al libro di Alain Brossat “ Scarcerare la società”). C’è da chiedersi, quindi, da che cosa dipenda l’aumento della popolazione detenuta. Le risposte sono varie, riducibili a due filoni: innanzitutto la maggiore facilità con cui si entra in galera e poi la maggiore difficoltà con cui se ne esce.
Gli strumenti sono legislativi e giudiziari: da un lato si aumenta il numero dei reati (si abolisce di fatto il reato di falso in bilancio, ma si introducono quello di stalking e di immigrazione clandestina o si reintroduce quello di oltraggio), si introducono aggravanti e si aumentano le pene, in modo da facilitare l’emissione di provvedimenti restrittivi; dall’altro, una magistratura compiacente scarcera con sempre maggiore riottosità o, per i detenuti definitivi, concede con il contagocce le misure alternative al carcere.
Il legislatore interviene sempre più frequentemente sull’onda emotiva di qualche fatto di cronaca (omicidi da circolazione stradale o violenze sessuali ne sono recenti esempi).
La demagogia politica, con accorto uso dei media, creare allarme e poi raccoglie ben volentieri l’invito a una sorta di linciaggio. Le galere si riempiono, così, sempre di più di “scarti sociali” per i quali l’unica soluzione offerta è l’internamento e la separazione sociale anche fisica attraverso le mura.
Vale la pena ricordare che l’incremento della popolazione carceraria è una costante indipendente dai partiti al governo perché su questo terreno è aperta la gara a chi offre più sicurezza come sopra intesa (repressione e internamento) tra forze di destra e di pseudosinistra.
Al carcere tradizionale si è affiancata, poi (già prima dell’11/09/2001) una congerie di strutture di controllo deputate soprattutto al contenimento di nuove forme di “anormali” vaganti: profughi, migranti, clandestini. Si cambiano i nomi (da CPT a CIE), ma la sostanza non cambia, anzi si allungano i tempi di detenzione consentita.
La dottrina abolizionista (che teorizza l’abolizione del codice penale e della pena) e quella, meno utopica, riduzionista (che auspica un minore intervento penale, l’abolizione dell’ergastolo e una riduzione delle pene) appaiono oggi distanti anni luce: la nostra società è pervasa di giudiziario penale (con relativi riflessi politici) e l’unica risposta data a problemi e/o conflitti sociali è la solita: non la loro soluzione, ma la loro relegazione e marginalizzazione all’interno di mura.
Sempre meglio che nella più grande democrazia del mondo: negli Usa dal 1976 al 2008 sono state “giustiziate” 1136 persone e nel braccio della morte sono in attesa in 3420. Qui da noi ancora non si teorizza l’introduzione della pena di morte, anche se con la proposta della castrazione chimica per i reati sessuali ci si avvia sulla buona strada.
Franco Ionta, PM chiamato a presiedere il Dipartimento di Amministrazione penitenziaria nonché Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, in una recente intervista prevede l’intervento dell’esercito a presidiare l’esterno delle carceri nonché la costruzione di 48 nuovi padiglioni in carceri già esistenti e 24 nuovi penitenziari. Il tutto per creare 17.891 nuovi posti. Poiché ad oggi non vi sono fondi sufficienti, si può essere certi che il termine del 2012 per le nuove costruzioni non sarà rispettato e, considerato l’incremento statistico della popolazione detenuta di cui si è detto, i nuovi posti letto serviranno non per migliorare le condizioni di vita degli attuali 64.000, ma per ospitare i nuovi 17.000/18.000, senza alcun mutamento delle condizioni di vita.
A complicare ulteriormente le cose interviene la necessità, di cui pure si è detto, di differenziare la collocazione carceraria dei detenuti.
Attualmente vi sono vari “circuiti”: il 41-bis (isolamento totale), AS (Alta Sicurezza), EIV (Elevato Indice di Vigilanza), MS (Media Sicurezza) e CA (Custodia Attenuata), in base ai vari livelli di pericolosità.
Dal punto di vista del detenuto la differenziazione nei circuiti si risolve in una maggiore afflittività della pena e in una inesistente o minore possibilità di accedere ai benefici penitenziari e quindi di ridurre la durata della pena.
In conclusione: più pena e più dura per una popolazione carceraria in continuo aumento.
Quest’estate sono scoppiate proteste a Sollicciano, Como, Genova, Arezzo e Perugia, nonché in vari CIE.
Torna attuale, quindi, una considerazione di Giambattista Lazagna (op. cit.): “per analogia con le leggi fisiche come quella dei vasi comunicanti e quella della incomprimibilità dei liquidi, dovrebbe essere chiaro che un aumento della repressione sia nel carcere sia nella società si travasa dall’uno all’altra, e che se la pressione aumenta oltre un certo limite non può che provocare esplosioni sia nel carcere sia nella società”.
Il timore evidente di Ionta è che i detenuti non si limitino alle battiture così come molti temono che gli operai non si limitino a salire sulle gru.