Quel che i promotori della manifestazione del 19 settembre non possono dire
Berlusconi è un pericolo per la libertà di informazione in Italia? Certamente sì. Ma quale “libera informazione” avremmo se Berlusconi non fosse mai esistito? Ecco una domanda antipatica che la sinistra “politicamente corretta” evita come la peste.
E’ di oggi la notizia dell’adesione all’appello di Repubblica (primi firmatari i giuristi Cordero, Rodotà e Zagrebelsky) di Bernard-Henry Levy, cioè di uno dei guru del pensiero unico liberista, atlantico e sionista. Quale possa essere il suo modello di “libera informazione” è fin troppo facile da immaginarsi. E’ solo un esempio, ma basta e avanza per capire che c’è del marcio, e non solo in Danimarca.
In Italia – sia chiaro – la situazione è davvero pessima, ma come sta il resto dell’occidente? Ai fini della polemica nostrana l’albero berlusconiano è un comodo bersaglio, ma esso si colloca dentro due grandi fenomeni cento volte più importanti (la foresta, appunto, che non si vuol vedere).
Il primo si chiama concentrazione mediatica. Berlusconi ne è un esempio, ma nel mondo richiama immediatamente un altro nome, quello di Rupert Murdoch, che però per la sinistra italiana è quasi un eroe, vista la polemica che i suoi mezzi di informazione conducono contro il premier italiano. Il fenomeno della concentrazione (al di là di Berlusconi e Murdoch) è comunque globale. Come affrontarlo? Silenzio totale.
Il secondo aspetto – ovviamente collegato al primo, ma ancora più importante – si chiama “pensiero unico”, e consiste nell’adeguamento pressoché automatico dei grandi mezzi di informazione ai dogmi del “libero mercato”, della pretesa “superiorità” della civiltà occidentale, della bontà della politica e delle guerre dell’imperialismo. Un dogmatismo beninteso colorato e poliedrico, come si addice alle vetrine luccicanti del capitalismo, ma nella sostanza ferreo ed impermeabile sulle questioni e nei passaggi veramente decisivi. Qualche riflessione su tutto ciò, che condurrebbe poi ad una riflessione ancora più importante sulla “democrazia” nel capitalismo reale? Assolutamente no. E allora, viva l’Economist ed il Financial Times e non facciamoci troppe domande…
Sabato prossimo, 19 settembre, si svolgerà a Roma la manifestazione nazionale per la “libertà di stampa”, slogan ufficiale «No all’informazione al guinzaglio». Promuove la Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana), aderisce tutto il centrosinistra formato Unione.
Per questi ultimi sarà più che altro l’occasione per rinnovare il certificato di “esistenza in vita”. Il loro stato è comatoso e non è il caso di rivolgergli troppe domande. Guiderà invece l’operazione il giornale-partito di Repubblica, tanto ostile al capo del governo quanto punta di lancia delle principali battaglie che hanno portato all’egemonia del “pensiero unico” nel nostro paese.
Negli anni ’80 Repubblica condusse due grandi campagne. La prima contro i diritti dei lavoratori (considerati come “tabù” da superare), la seconda per la “modernizzazione della sinistra”. Abbiamo visto a cosa è servita l’una e l’altra.
Nei primi anni ’90 fu la volta della campagna a favore del maggioritario, mentre alla fine del decennio il quotidiano di Scalfari si distinse per il totale sostegno all’aggressione contro la Jugoslavia, presentata come “guerra umanitaria”.
Nell’ultimo decennio la linea è rimasta la stessa, basti pensare alla vergognosa disinformazione su Gaza e sulla situazione del popolo palestinese e, sul piano interno, al sostegno ai peggiori personaggi del centrosinistra (un nome per tutti: Veltroni).
Naturalmente non tutti i mali vengono da Repubblica, ma la sua parte l’ha fatta eccome, e l’ha potuta fare proprio perché è stata accreditata come giornale di “sinistra”.
E’ questo il modello di libertà di stampa che ci verrà proposto, di fatto, il 19 settembre? Evidentemente sì, al di là della sicura buona fede di una parte dei manifestanti.
Esiste in Italia un pericolo specifico per la democrazia chiamato Silvio Berlusconi? Assolutamente sì e deve essere combattuto come tale. Ma con quali armi deve essere affrontato? Qualcuno pensa che alla fine “tutto fa brodo”, che si debbano quindi unire cani e porci pur di ottenere la sua cacciata dal potere. Questa linea, di apparente buon senso, è sbagliata e suicida. Non solo consegna le migliori energie di una sincera opposizione nelle mani dei peggiori trafficoni, al servizio delle vere oligarchie nazionali ed internazionali; le consegna anche alla sconfitta certa.
Ad oggi i referenti politici di Repubblica (il centrosinistra), hanno governato – nella cosiddetta “era berlusconiana”, (1994 – ?) più di Berlusconi. Per l’esattezza otto anni e mezzo, contro sette e mezzo. Come mai non hanno voluto fare alcuna legge antitrust, né saputo prendere alcun provvedimento sul “conflitto di interessi”? Si è trattato soltanto di debolezza? Dubitarne è lecito.
Ciò non sminuisce la pericolosità dell’attuale attacco berlusconiano, che punta ad un maggior controllo della carta stampata dopo aver messo in cassaforte quello sull’informazione (si fa per dire) radiotelevisiva. Ma se si immiserisce la gigantesca questione dell’informazione al solito referendum Berlusconi sì, Berlusconi no, la battaglia è persa in partenza.
I promotori della manifestazione del 19 invitano a gridare a squarciagola contro il capo del governo. Giusto, peccato che inviteranno al tempo stesso al silenzio su tutto il resto.
Proviamo allora a fare alcune domande di carattere generale sullo stato dell’informazione. Cerchiamo cioè di vedere, oltre all’albero, anche la foresta.
E’ compatibile con un concetto anche minimalista di democrazia il controllo privato dei grandi mezzi di informazione?
E’ tollerabile che tutta la grande stampa continui a chiamare orwellianamente la guerra “pace” (esempio in Afghanistan) e la Resistenza “terrorismo”?
E’ un caso che i crimini americani e sionisti vengano sempre derubricati come frutto di poche “mele marce”?
E’ accettabile che i giornali propinino quotidianamente ai loro lettori, come unica verità, le veline dei palazzi del potere e le cronache degli inviati “embedded”?
E’ sopportabile che ogni questione sociale sia immancabilmente affidata agli specialisti della disinformazione economica?
Ed ancora, se tutti i giorni siamo sommersi dalla cronaca nera, dalla cronaca rosa, dal gossip, dalla legge delle tre esse (sport, sangue, sesso), dai funerali del “partigiano” Bongiorno, dai “grandi fratelli” e dalle “isole dei famosi”, cioè da tutto ciò che serve all’istupidimento di massa, non sarà solo colpa dell’indubbia malignità dell’uomo nero di Arcore.
Qualcos’altro di più grave e profondo dovrà pur esserci nel mondo dei media.
E sarebbe bene che, almeno ogni tanto, anche i giornalisti riflettessero su se stessi:
Quante volte dicono di no al loro padrone? Quante volte invece corrono per assecondarlo? Non ci risultano troppi atti di eroismo in questa corporazione così essenziale al potere. I giornalisti non sono tutti uguali, non facciamo di ogni erba un fascio, ma quanti sono davvero diversi?
Facciamo un esempio. Di tanto in tanto i giornalisti scioperano e capita di leggere nelle loro piattaforme il no alla precarizzazione del loro lavoro, ma quanti di quei giornalisti hanno scritto una riga contro il dogma della precarizzazione (“flessibilità” nel linguaggio politicamente corretto) quando riguardava altri lavoratori e non la loro categoria?
E nella loro attività quotidiana, quante volte fanno davvero i giornalisti?, quante volte fanno inchiesta? Certo, anche i giornalisti sono dei dipendenti. Ma lo sono sempre stati, perché non si chiedono come mai oggi lo sono ancor di più, al di là dei danni giustamente imputabili a Silvio Berlusconi?
La verità è che la corporazione ha dei compiti decisivi: orientare (sappiamo come) la cosiddetta opinione pubblica, sostituire l’informazione con la verità delle oligarchie dominanti, evidenziare problemi ma sempre nella certezza di vivere nel migliore dei mondi possibili, rincretinire i destinatari del loro lavoro con ogni mezzo a disposizione.
In cambio hanno un certo numero di privilegi, economici e non. Così funziona il meccanismo dell’informazione oggi. Beninteso, così era anche in passato, ma oggi si tratta di un meccanismo ancor più totalizzante ed opprimente. Da questo punto di vista il problema è Berlusconi?
No, la questione è ben più grave e profonda, ed è un sintomo evidente del totalitarismo del capitalismo reale del XXI secolo. Proprio per questo si tratta di una questione semplicemente indicibile, completamente rimossa ed occultata.
Qualcuno dirà qualcosa di tutto ciò il 19 settembre? Scordiamocelo. Sabato prossimo, oltre alla passerella dei centrosinistrati, avremo quella dei sostenitori del “modello Repubblica”, cioè del giornale che ha contribuito maggiormente alla distruzione della politica come passaggio necessario per nullificare la democrazia. Una distruzione che ha agito in due direzioni. Da una parte con la riduzione della politica a governance, dall’altra con il suo degradarsi in gossip.
Questo e non altro è il “modello Repubblica”. Un giornale che oggi combatte – per uno scontro interno alle oligarchie italiane ed internazionali – contro Berlusconi, ma che è stato un formidabile veicolo di diffusione della cultura che ne ha determinato l’ascesa al potere.
Volete il berlusconismo senza Berlusconi? Entrate nel partito di Repubblica. Le iscrizioni sono aperte e sabato prossimo si raccoglieranno nelle vie di Roma.