Sui recenti sviluppi della crisi libanese

 

Non è certo il recente lancio di rudimentali razzi verso il nord della Galilea l’undici settembre scorso (che vista la data scelta segnala l’adesione degli autori all’ala salafita-combattente della Resistenza palestino-libanese) a preoccupare Israele, quanto piuttosto il rafforzamento delle capacità offensive di Hezbollah.

Sayyed Hassan Nasrallah, nel terzo anniversario dell’aggressione israeliana, ha messo in guardia i sionisti che la Resistenza libanese non solo detiene un arsenale di 30mila razzi, ma che con i più potenti tra essi è ora in grado di colpire duro ogni città israeliana, Tel Aviv compresa. Dichiarazioni considerate attendibili dall’intelligence israeliana, la quale teme addirittura che la Resistenza abbia in dotazione anche missili antiaerei russi, gli SA-18, la qual cosa rappresenterebbe una sfida al predominio israeliano sui cieli libanesi, fino ad ora indiscusso.

 

Per questo, nella incessante guerra di parole, Netanyahu ha messo in guardia Siria e Libano, e quest’ultimo soprattutto, che Israele “risponderà ad ogni attacco” facendone pagare le conseguenze al Libano tutto. Una minaccia che non ha spaventato Hezbollah, che per bocca di diversi suoi esponenti ha fatto capire che essi non credono che l’attuale fragilissima pace possa durare a lungo, e che di conseguenza la Resistenza è obbligata a preparare, a condurre e vincere la prossima guerra. Gli stessi commentatori libanesi filo-occidentali non perdono occasione per ribadire che un nuovo conflitto, più devastante dell’ultimo, è solo questione di tempo.

 

Non sarebbe possibile comprendere né le bizantine dinamiche della crisi politica libanese, né perché essa rischi di portare alla paralisi istituzionale, senza considerare che Israele rappresenta, con la minaccia incarnata nella sua potenza bellica, un vero e proprio convitato di pietra. Abbiamo ampiamente  commentato l’esito delle elezioni libanesi del 7 giugno. Esse si conclusero con la vittoria apparente del blocco filo-occidentale capeggiato da Saad Hariri. Apparente poiché la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento venne ottenuta solo grazie al farraginoso sistema elettorale di tipo uninominale fondato su quote prestabilite assegnate alle varie sette religiose. In realtà le opposizioni raccolte attorno ad Hezbollah ottennero una rotonda maggioranza assoluta dei voti. Insomma, le urne fotografarono un paese spaccato in due, con i due fronti contrapposti in sostanziale equilibrio. Ma un equilibrio instabile, posizionato sull’orlo dell’abisso, ove per abisso deve intendersi la trasformazione della contrapposizione politica in guerra civile. C’è da aggiungere che nel frattempo la coalizione formalmente vincente si è indebolita, visto che il Partito socialista progressista di Walid Jumblatt la ha abbandonata, affermando che non farà parte del nuovo governo.

 

Nuovo governo che viste le norme costituzionali deve essere presieduto da un sunnita. A causa di questa clausola costituzionale il presidente della repubblica Suleiman, subito dopo le elezioni, assegnò l’incarico a formare il nuovo governo proprio a Saad Hariri, leader del blocco filo-occidentale “14 marzo” e capo indiscusso del “Movimento Futuro”. Il 10 settembre scorso, dopo 73 giorni di consultazioni, Hariri ha rassegnato le dimissioni, rifiutando l’incarico di formare il nuovo governo. Tactical plot, manovra tattica, affermano tuttavia un po’ tutti i commentatori libanesi, visto che tutti concordano che queste dimissioni preludono ad un secondo incarico, con la differenza che la sua forzatura dovrebbe suscitare un più pesante coinvolgimento dei suoi due più potenti alleati esterni, gli USA e l’Arabia Saudita. Non c’è dubbio infatti che il presidente Suleiman gli riaffiderà l’incarico, nella speranza che riesca a far quadrare il cerchio, ovvero a comporre finalmente il tanto atteso governo di unità nazionale. Perché non un governo di parte, dato che il blocco “14 marzo” avrebbe i numeri in parlamento per farlo? Ma è semplice, perché solo un governo di unità nazionale, ovvero con dentro le opposizioni guidate dal Hezbollah, può sperare di tenere assieme un paese spaccato ed evitare che esso scivoli velocemente verso una nuova guerra civile. Per usare le parole del numero due di Hezbollah, Sheikh Naim Qassem: “Siccome il regime libanese è fondato su basi settario-religiose, esso può essere governato solo col più ampio consenso, il quale richiede mutui compromessi e la cooperazione di tutti i partiti”. (The daily star del 12 settembre)

 

Contrariamente a quanto va dicendo Hariri il suo fallimento non è dovuto al fatto che il blocco delle opposizioni “chiede troppi ministeri”, ovvero più di quanti gli spetterebbero in base al responso delle urne. Due mesi di dialoghi avevano infatti portato ad un accordo di massima tra i due blocchi, un accordo espresso nella formula “15-10-5”, che sta per 15 ministeri al blocco di Hariri, 10 a quello dell’opposizione e cinque destinati ad essere scelti dal presidente della repubblica Suleiman. Due sono in verità i punti che spiegano la discordia. Il primo, più generale, riguarda i poteri reali da affidare al primo ministro, il secondo, più specifico, concerne se il primo ministro designato possa decidere a suo piacimento i ministri, ad esempio scegliendo lui i ministri nelle file avversarie, scippando questa prerogativa all’opposizione medesima. Ognuno capisce che si tratta di due questioni dirimenti, di punti di dissenso di principio.

 

Come andrà a finire? Nessuno può dirlo. Nessuno dei due blocchi pare interessato a far precipitare la crisi in scontro aperto, che in Libano significa, come detto, conflitto armato per le strade. Tutti ricordano i fatti del maggio 2008 quando, a causa di una scintilla apparentemente minuscola, violentissimi scontri infiammarono le strade di Beirut e le milizie di Hezbollah infersero un colpo durissimo a quelle di Hariri. In attesa che Suleiman riassegni l’incarico a Saad Hariri diversi osservatori libanesi, a dire il vero di ogni tendenza, mettono infatti in guardia come questa crisi rischi di sfuggire di mano ai suoi protagonisti e che la potente pressione israeliana ai confini e il rimbombo dei tamburi di guerra non fanno che rafforzare l’ipotesi di un suo precipitare.