Al potere da trent’anni, il presidente Ali Abdallah Saleh, a capo del suo Partito della Conferenza del Popolo, ne ha viste e passate di tutti i colori. Questa volta se la vede davvero brutta.
L’inchiostro con cui le agenzie di stampa informavano dei violenti combattimenti nei pressi di Jinzibar, nel sud del paese, era ancora fresco (eravamo nel luglio scorso) che una nuova violentissima fiammata ha riacceso la guerra civile che dilania il nord del paese sin dal 2004.

Vediamo di vederci chiaro. Partiamo dalla situazione generale dello Yemen. Questo paese è uno dei più poveri del mondo, nel quale la corruzione (anche a causa della coltivazione e dello smercio del qat) è una piaga devastante, dove gli squilibri sociali e regionali sono enormi. Per finire lo Yemen è uno dei paesi col tasso di natalità più alti del mondo.

 

La sua forma costituzionale, sulla carta, è quella di una democrazia presidenzialistica e pluripartitica, ma dove le opposizioni tutte lamentano discriminazioni e persecuzioni. Infine va sottolineato il posizionamento internazionale del governo yemenita di Ali Abdallah Saleh. Dopo aver pagato a durissimo prezzo il suo appoggio all’Iraq ai tempi dell’invasione del Kuwait (l’Arabia Saudita cacciò dal paese un milione circa di lavoratori yemeniti che con le loro rimesse tenevano a galla il paese) Ali Abdallah Saleh si è lentamente avviato verso la riconciliazione con i Sauditi. Dopo il 2001 poi le pressioni degli USA furono così impressionanti che il regime è finito per diventare, col pretesto della lotta al terrorismo qaedista, una mezza satrapia americana.

 

In queste contesto è possibile inquadrare le violente ribellioni al sud del paese di quest’estate, che sono l’ultima propaggine della fallita unificazione sud-nord del 1990. Il governo accusa gli insorti del sud di volere la secessione. Non è solo la volontà di secessione la causa prima, né della guerra civile del 1994 (repressa nel sangue con l’aiuto dei sauditi e dei wahabbiti), né delle più recenti sommosse della primavera estate nelle province di Aden e di Abyan. La loro vera causa è l’estrema povertà in cui versa la grande maggioranza della popolazione e la sensazione, ben fondata, che le poche ricchezze del paese non affluiscano al sud (da cui proviene l’80% del petrolio che si estrae nell’intero paese) e non siano distribuite equamente, ma finiscano nelle tasche del corrotto notabilato politico e dei clan dominanti che sostengono il governo e il presidente. Rispetto alla guerra civile durata due mesi del 1994, le attuali rivolte hanno infatti un segno sociale più spiccato e un carattere di massa ben più ampio. Nel 1994 erano i vecchi leaders del vecchio partito socialista dell’ex Repubblica Popolare dello Yemen in testa alla rivolta (tra cui il più noto dei quali Ali Salem al-Beid). Le mobilitazioni recenti vedono mobilitate anche correnti islamiste radicali, quali quella capeggiata da Tarek al-Fadhli, che si fece le ossa combattendo i sovietici in Afghanistan e che secondo i soliti americani sarebbe in odore di qaedismo. E’ un fatto che, nonostante la dura repressione, la rivolta del sud si è consolidata e che si prepara a scatenare nuove offensive. Il tutto sotto la direzione di un fronte unito, il Movimento Pacifico di Mobilitazione del Sud. Tutti i commentatori arabi convengono infatti che la situazione nelle province meridionali è esplosiva e che nei prossimi mesi, ove il presidente non fosse in grado di proporre riforme sociali serie nonché una forte autonomia regionale, la rivolta divamperà nuovamente degenerando in  un secondo generale conflitto armato.

 

Di converso all’estremo nord, nella regione di Saada, ai confini con l’Arabia Saudita, le cose non vanno meglio. Sin dal 2004 questa regione è di fatto sotto il controllo dei clan principali della regione e delle loro milizie armate. Nell’agosto scorso il presidente yemenita Ali Abdallah Saleh ha avuto la bella idea di inviare in forze l’esercito per sedare la rivolta e schiacciare le milizie tribali, facenti capo a Hussein al-Huthi (da qui la definizione dei rivoltoso come “combattenti Houthi”). Queste stanno opponendo da settimane una resistenza accanita. Centinaia sono i morti, migliaia i feriti, centomila gli sfollati. Un disastro umanitario secondo gli organismi ONU che spesso, a causa dei combattimenti, non possono aiutare i civili inermi.

 

L’accusa con cui il governo si è deciso a schiacciare la rivolta è anche in questo caso che essa punta alla secessione e addirittura a restaurare l’imamato Zaydita. D’altra parte non c’è nessuno che non segnali come questa regione all’estremo nord sia la più povera di un paese già alla fame, e che, quali che siano le idee religiose e politiche dei leader, la vera molla che spinge tanti giovani a combattere nelle file della guerriglia sia appunto la protesta contro l’insopportabile povertà della regione. Occorre quindi distinguere le accuse del governo dalla realtà. E’ senz’altro vero che la grande maggioranza delle tribù del nord appartiene alla setta zaydista (una corrente dello shiismo, ma la meno lontana dai sunniti), ma dalle informazioni di cui si dispone non emerge che i capi della rivolta vogliano davvero fondare un imamato indipendente. Neanche le accuse secondo cui la resistenza sarebbe foraggiata e sostenuta dall’Iran sono provate, anche se il governo di Saana preme da giorni su questo tasto. Tuttavia quest’accusa la dice lunga sugli orientamenti e la natura del regime di Saana e su chi siano i suoi veri sponsor: come già detto, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti i quali, vista l’aria che tira e temendo che il paese precipiti nel caos, stanno puntellando in ogni modo il regime del presidente e fanno affluire ad esso ogni sorta di aiuti.