
A seguire pubblichiamo l’analisi di Marie Nassif – Debs, dirigente del Partito Comunista Libanese, del piano predisposto dall’emissario di Obama in Medio Oriente, George Mitchell, per far ripartire i negoziati e giungere ad “un’equa soluzione” della questione palestinese. Il piano ha costituito la base di discussione per l’incontro di ieri 22 settembre, fortemente voluto per ragioni meramente propagandistiche dall’amministrazione USA, fra Obama, Netanyahu e Abu Mazen a New York, in occasione dell’Assemblea Generale dell’ONU.
L’analisi mostra come, ancora una volta, questo ennesimo piano non pone le condizioni per una soluzione giusta ma punta solo, anche grazie alla fattiva collaborazione di locali regimi compiacenti, alla capitolazione della resistenza palestinese e, più in generale, al rafforzamento della sottomissione di tutte le popolazioni del “Grande Medio Oriente”. Proprio come tutti i progetti precedenti.
Su un punto dissentiamo dall’analisi di Marie Nassif – Debs, quando afferma che anche lo schieramento che fa capo ad Hamas non si esprime sul diritto al ritorno di tutti i profughi palestinesi, perché proprio questo diritto è uno dei punti qualificanti la politica di Hamas e la sua opposizione agli atteggiamenti collaborazionistici dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Il Progetto George Mitchell: “Un piano di pace” o la preparazione delle guerre arabe?
Marie Nassif – Debs
Con il recente ritorno di George Mitchell in Medio Oriente, abbiamo ricominciato a parlare di “Piano di pace”, presentato alla fine di luglio sulla base del discorso del presidente Barak Obama al Cairo. Le dichiarazioni si sono moltiplicate per bocca degli israeliani e degli arabi, a cominciare da Benjamin Netanyahu e il suo ministro della guerra Ehud Barak, ma anche da parte di Amro Moussa, Segretario generale della Lega Araba, e Khaled Meshaal, guida politica di Hamas.
Così Netanyahu, che domenica scorsa aveva cominciato il suo discorso quotidiano con una presa di posizione ambigua rispetto al congelamento della costruzione di insediamenti in Cisgiordania, ha subito rettificato, precisando che le atrocità su Gerusalemme (Al Qods) continueranno, tanto che il suo governo ha dato il via libera alla costruzione di una colonia nel nord della Giordania, in base una decisione, definita strategica, già assunta dall’ex ministro della guerra Amir Peretz.
Quanto agli arabi e ai palestinesi in particolare, sono divisi, come al solito, tra quelli come Khaled Meshaal, che ritengono che “la normalizzazione dei rapporti con Israele deve essere fatta quando venga posta fine alla costruzione delle colonie” e quelli come Amro Moussa, che sostengono che la normalizzazione debba essere fatta, ma non “gratuitamente”. Entrambi gli schieramenti non si esprimono sul diritto al ritorno di tutti i palestinesi e dimenticano di parlare della necessità di una posizione forte e unitaria per quanto riguarda lo Stato palestinese e il futuro di Al Quods, che Barak Obama vorrebbe trasformare in una città aperta.
Pace provvisoria e bomba a tempo
Iniziamo col dettagliare il contenuto del “Piano Mitchell” e le sue fasi, ma anche le intenzioni dell’interlocutore promotore della pace: gli Stati Uniti sono decisi nel proposito di trovare una soluzione equa della questione palestinese o il nuovo progetto entrerà a far parte degli altri, simili, succedutisi nel corso dei decenni dagli anni Sessanta del XX secolo? Nella nostra analisi partiamo dalla visione politica pragmatica della nuova amministrazione statunitense (non dissimile da quella che l’ha preceduta, tranne che sul piano formale) definita dal quotidiano israeliano Haaretz come una “politica da bottega”, che pone su un banco l’Iraq, su un altro la questione del nucleare iraniano… e noi aggiungiamo, un terzo destinato alla Palestina.
Dall’inizio
Il primo passo enunciato nel Piano, se approvato, mette la causa palestinese sulla via della liquidazione finale.
– Dal lato palestinese, progetta “la cessazione degli atti e delle dichiarazioni negative” nei confronti di Israele, oltre a “l’ampliamento del ruolo delle forze di sicurezza palestinesi”, lasciando intendere che i palestinesi devono cessare tutte le attività di resistenza contro Israele e devono astenersi da qualsiasi dichiarazione circa le uccisioni e gli arresti, che sono diventati il pane quotidiano… In effetti, quello che George Mitchell vuole veramente dal governo palestinese è obbligarlo a tagliare i ponti della resistenza contro l’occupazione israeliana. Per contro, nulla si dice circa l’occupazione militare ed economica dei territori palestinesi o le nuove dichiarazioni israeliane riguardo il “trasferimento” dei palestinesi dei territori del 1948, con il rilancio del progetto di giudaizzazione: Israele, Stato del mondo ebraico.
– Dal lato israeliano, si raccomanda “un blocco temporaneo alla costruzione di nuovi insediamenti, accompagnato da un allentamento della tensione nelle aree economicamente sotto la supervisione dell’Autorità palestinese”. In questa frase, l’aggettivo “temporaneo” esprime la possibilità per Israele di concordare con Washington, in seguito, la prosecuzione dell’appropriazione di nuove terre palestinesi. Tanto più che il governo Netanyahu-Liebermann ha ottenuto che non siano messi in discussione gli insediamenti costruiti di recente in Cisgiordania, cosa che potrebbe innescare una guerra civile in Israele e danneggiare gli interessi degli Stati Uniti nella regione.
– Sul piano arabo, questa fase prevede ” almeno l’apertura degli uffici commerciali in Israele”. Ciò induce a dire che l’amministrazione Obama, che aveva già usato il danaro arabo per arginare in parte la crisi economica nel suo paese, intende trovare una soluzione alla crisi economica israeliana nelle tasche dei governanti arabi pronti a sperperare il nostro patrimonio per salvare i loro regimi: in tal modo, il Qatar e il Marocco hanno risposto immediatamente alla chiamata, annunciando la riapertura degli uffici a Tel Aviv che avevano chiuso (?) in concomitanza dell’ultima aggressione israeliana contro la Striscia di Gaza; in aggiunta, si parla molto di nuovi scambi tra Israele e altri paesi arabi che vedono in esso la possibilità di un aiuto contro il nemico “iraniano”, quando se ne presenterà l’occasione. Inoltre, la normalizzazione delle relazioni commerciali è meno complicata dello scambio diplomatico, visto per esempio che è sufficiente che qualche società araba abbia dei rappresentanti “compiacenti” in qualche città israeliana…
Il ruolo della Turchia e gli impegni statunitensi
– Oltre alle delegazioni commerciali richieste da tutti gli arabi, viene posta un’altra condizione: la ripresa dei negoziati indiretti tra Damasco e Tel Aviv. A tal fine, si noti il ruolo svolto da parte della Turchia: Ankara cerca di mostrarsi nell’occasione “autonoma” nei confronti di Washington; inoltre si pone la questione del problema della regione di Kirkuk, in Iraq (problema in realtà interno alla Turchia, sia sul piano della popolazione turkmena che su quello economico, soprattutto petrolifero). Notiamo anche la posizione del governo turco che aveva stigmatizzato l’aggressione israeliana a Gaza, senza però fare alcuna pressione reale su Tel Aviv o mettere un bastone tra le ruote della NATO. Questo perché la Turchia ha un bisogno urgente di farsi accettare in seno all’Unione Europea come membro a pieno titolo, pur continuando a godere della delocalizzazione di migliaia di imprese europee (in particolare quelle del settore automobilistico e della confezione) che hanno trovato in questa nazione un posto dove guadagnare di più, in frode al fisco del paese di origine.
– Infine, è necessario spendere qualche parola per quanto riguarda le promesse e gli impegni di chi ha elaborato il progetto. Gli Stati Uniti sono impegnati su tre fronti:
a) Il primo è quello di dare maggiore supporto militare ad Israele, ivi compresa una maggiore partecipazione alle operazioni della NATO. E’ su questa base che Tel Aviv era presente alle ultime manovre alla fine di agosto e che i leader dell’Unione Europea hanno revocato l’ordinanza che congelava l’esecuzione del Trattato firmato da Nicolas Sarkozy, durante la sua presidenza dell’Unione, e in cui una clausola vede Israele parte integrante delle operazioni militari, quelle sul continente africano …
b) Il secondo comporta l’impegno di una maggiore fermezza degli Stati Uniti per quanto riguarda il programma nucleare iraniano. Fermezza che, secondo il Ministro della Guerra Robert Gates, potrebbe portare a ingenti sanzioni decisive nel mese di settembre, se Teheran non rispondesse favorevolmente alle proposte che sono state inviate.
c) Il terzo fronte promette a Israele la piena normalizzazione delle sue relazioni con gli arabi, che frutta i primi effetti con l’apertura del Canale di Suez alle navi e ai sommergibili israeliani e la prossima apertura dello spazio aereo arabo agli aerei e bombardieri israeliani. Quest’ultima misura, se adottata, non solo ha ripercussioni sull’economia, ma esprime il consenso ufficiale del mondo arabo al piano che il governo Netanyahu-Liebermann aveva sviluppato per assestare un duro colpo all’Iran e allo stesso tempo, al Libano con il pretesto di contrastare il potere di Hezbollah legato all’Iran.
La situazione degli arabi in questo progetto
Questa analisi ci spinge a interrogarci in merito alla contropartita degli arabi per il consenso a questo progetto.
La risposta è: gli arabi hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare. Perdono la causa palestinese e, con essa, la loro stessa esistenza. Perché il discorso del Presidente USA Barack Obama mirava a dimostrare che non esiste una nazionalità araba ma che gli arabi fanno parte del più ampio mondo musulmano, che si estende fino all’Afghanistan e al Pakistan. E, questo mondo musulmano, a cui talvolta si dà il nome di “Grande Medio Oriente” o “Nuovo Medio Oriente”, è un mondo che potrebbe frantumarsi seguendo l’esempio dell’Iraq (poi del Libano e ora dello Yemen) in fazioni etniche e religiose antagoniste, o quantomeno in un mosaico formato da due mezzelune di grandi dimensioni, l’una prevalentemente sciita e l’altra sunnita … Tale prospettiva consentirebbe agli Stati Uniti di realizzare il loro progetto complessivo, finalizzato a un controllo totale sulle fonti di energia (petrolio e gas) di tutta la regione che va dalle vecchie repubbliche islamiche dell’ex Unione Sovietica ai paesi del Maghreb arabo, passando sulle vie di trasporto di questa energia attraverso la Georgia, la Turchia e Israele verso il mondo in generale e verso l’Europa in particolare.
Credere a ciò che Barak Obama diceva sulla volontà degli Stati Uniti di trovare una soluzione equa per il mondo arabo si rivela della pura utopia. Perché se gli Stati Uniti volessero una soluzione basata sul rispetto e l’interesse reciproco, perché continuerebbero a inviare tutte queste armi sofisticate, questi aiuti militari ed economici a Israele? George Mitchell non ha potuto realizzare neanche l’unica promessa costituita dal desiderio di Washington di arrivare a un cessate il fuoco a Gaza, per migliorare la situazione degli abitanti di questa regione ancora sotto assedio.
Diciamo, infine, che coloro che hanno visto nel progetto di George Mitchell un segnale positivo, soprattutto dopo i suoi appelli alla ripresa dei negoziati diretti tra le parti, si illude una volta di più. Ciò che gli Stati Uniti vogliono è semplicemente riorganizzare la loro presenza (militare, in particolare) e quella dei loro alleati nella regione, in primo luogo dell’alleato israeliano. Non si tratta affatto di un ritiro completo delle truppe fuori dall’Iraq, né dall’Arabia Saudita o dalle basi costruite in Qatar e nel Kuwait. Quello che Washington chiede è una maggiore partecipazione della NATO e dalla UE ai suoi piani di guerra. Questo è tutto.
E se qualcuno trova onorevole il tentativo di George Mitchell di cercare una soluzione duratura tra palestinesi e israeliani e nella regione, come quella che aveva trovato per la crisi durata 80 anni in Irlanda, rispondiamo che la soluzione per quel paese non è stata escogitata né da Mitchell, né dagli Stati Uniti. In Irlanda gli USA e i suoi rappresentanti non si erano che limitati a ratificare una pace voluta dalle parti in lotta che avevano maturato l’idea che la pace poteva raggiungersi solo attraverso reciproche concessioni. E questo non è il caso di Israele. E neanche degli Stati Uniti. Aggiungiamo che gli interessi in gioco in un paese agricolo sono molto diversi da quelli in cui c’è in ballo il petrolio e i gas naturali.
Su queste basi, ci sembra che il cosiddetto Piano di pace elaborato da Mitchell sia un progetto per una nuova guerra tra i palestinesi e anche tra i diversi paesi arabi che si troveranno divisi da false illusioni, come al tempo del progetto Rogers o Kissinger. E se alcuni governatori arabi o addirittura tutti, sono convinti dei progressi compiuti, con l’obiettivo di salvare i propri regimi traballanti, potranno tenere testa ai loro popoli il giorno in cui Israele dichiarerà Gerusalemme (dove si è trasferito il governo israeliano) capitale dello “Stato degli Ebrei nel mondo”? Potranno accondiscendere alla richiesta reiterata da Israele, vale a dire: negare il diritto al ritorno del popolo palestinese?
(Analisi pubblicata sull’ultimo numero di An-Nida)
12 Settembre 2009
Pubblicato in www.resistenze.org – popoli resistenti – libano – n. 286 del 15 settembre 2009
Fonte: Partito Comunista Libanese www.lcparty.org in www.solidnet.org
Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare