Cosa ci dicono le elezioni in Germania

Non siamo tra quelli che vedono in ogni elezione politica passaggi epocali di grande portata. Molto spesso, specie in un sistema politico di democrazia agonizzante come quello europeo, le elezioni non segnano proprio alcun cambiamento degno di nota.
Alcune volte, però, le elezioni forniscono invece delle indicazioni assai chiare di valore generale. E’ questo il caso delle elezioni politiche che si sono tenute domenica scorsa in Germania, il cui risultato invita ad una riflessione al di là degli stessi confini nazionali tedeschi.

Il quadro uscito dal voto è noto: Angela Merkel resterà alla guida del governo, non più nella “Grosse koalition” con i socialdemocratici della Spd, bensì in un’alleanza con il partito liberale (Fdp) che domenica scorsa ha raggiunto il suo massimo storico.
Non è ancora del tutto chiaro in quale misura questo esito porterà ad un’accentuazione dell’attacco al welfare state, che in Germania è ancora una cosa seria e funzionante, specie se paragonata al disastro italiano. Di certo la Fdp ha un programma ultraliberista che prevede la riduzione del carico fiscale per le fasce medio alte ed una normativa che renda più facili i licenziamenti. Al tempo stesso, però, soprattutto in conseguenza della crisi e del notevole aumento del deficit statale, sarà ben difficile per la Merkel (piuttosto attenta a non rompere i rapporti con il sindacato) andare sulla strada indicata dai liberali di Westerwelle in materia fiscale.

Il partito della cancelliera, la Cdu-Csu, rimane quello più votato, benché in diminuzione dell’1,4% rispetto alle elezioni precedenti. La Spd lascia il governo con un tonfo al 23% (- 11,2%) che rappresenta il minimo storico del dopoguerra. La Fdp, con il 14,6% (+ 4,7%), torna di nuovo al governo dopo un decennio all’opposizione che non ha ancora fatto dimenticare lo storico ruolo di voltagabbana (per decenni i liberali sono stati al governo, ora con la Spd, ora con la Cdu-Csu).
A sinistra notevole è stata l’avanzata della Linke che ha ottenuto l’11,9%, con un aumento del 3,2%.
In crescita anche i Verdi con il 10,7% (+ 2,6%).
Ultimo, ma non meno importante, la percentuale dei votanti è crollata al 70,8 (- 6,8%) frantumando il precedente record astensionista del 2005.

Fin qui la semplice fotografia del voto, ma quali sono le indicazioni di carattere generale che possiamo ricavarne? In primo luogo la messa in discussione del sistema bipolare, in secondo luogo la fine tendenziale della centralità delle forze socialdemocratiche più o meno tradizionali del continente, ed infine (vedi il risultato della Linke) la dimostrazione del fatto che non è detto che il profondo malessere sociale che attraversa l’Europa debba andare sempre e necessariamente a destra.

Il bipolarismo in crisi

C’è stato un momento in cui il modello più “avanzato” di democrazia in Europa veniva fatto coincidere con il bipolarismo. Ovvio che questo fosse (e lo è tuttora) il pensiero delle classi dominanti; altrettanto ovvio che questo sistema finisse per omologare ogni forza politica, colpendo al cuore il principio di rappresentanza sacrificato sull’altare della governabilità. Sta di fatto, però, che al di là della sua palese antidemocraticità, i popoli europei vi si fossero sostanzialmente adattati.
Diversi i sistemi elettorali ed istituzionali, diverse le tradizioni politiche, ma senza dubbio per decenni Germania, Gran Bretagna e Francia hanno visto l’affermazione di un modello sostanzialmente bipolare. Un bipolarismo perfetto in Gran Bretagna, corretto con la variabile liberale in Germania, più multiforme ma in ultima istanza disciplinato dal sistema uninominale e presidenziale in Francia. E con il referendum del 1993 anche l’Italia si adeguava. L’Europa sembrava andare verso una direzione obbligata, ma fortunatamente le cose sono sempre più complicate. Ed il caso tedesco – ricordiamo che la Germania è il paese più popoloso dell’Unione – potrebbe rappresentare un vero punto di svolta.

Nessuno ha rimosso l’odioso sbarramento del 5%, originariamente voluto per tenere fuori dal parlamento i comunisti e divenuto nel tempo un simbolo della volontà di esclusione delle minoranze scomode, ma la somma dei due maggiori partiti tedeschi, un tempo stabilmente intorno all’80%, oggi non arriva al 57%. Difficile non vedere il cambio profondo della geografia politica.
E se si tiene conto del grande aumento dell’astensionismo, difficile non vedere la crisi complessiva del sistema politico. La nuova maggioranza parlamentare ha solo il 48,4% dei voti validi, che corrisponde a circa il 34% dei voti dell’intero corpo elettorale: un po’ poco per parlare di “ampio consenso popolare”, come pure si sente dire.
Al posto di due-tre partiti, oggi in Germania ve ne sono cinque, tutti al di sopra del 10%. Una situazione simile la troviamo ormai in Gran Bretagna, dove alle europee di giugno la somma dei due principali partiti (Conservatori e Laburisti) dava un totale del 42,3%. Non molto diverso il panorama francese, dove i due maggiori partiti (Ump e Partito socialista) arrivavano ad assommare solo il 44,3% dei voti.
Ovviamente questo non vuol dire che il bipolarismo sia finito – tra l’altro una cosa è il bipolarismo, altra è invece il bipartitismo –,  ma nessuno potrà più venderci la panzana della sua “popolarità”.

La disfatta della Spd e delle forze socialdemocratiche in Europa

La crisi del bipolarismo è dovuta anzitutto al venir meno della sua gamba socialdemocratica. Intendiamo con questo termine l’insieme delle forze, non sempre del tutto omogenee, che aderiscono al Pse (Partito socialista europeo).
Nel parlamento di Strasburgo i seggi del gruppo dei Socialisti e dei Democratici (dizione così modificata per sanare i dissidi interni dei pasticcioni italiani del Pd) sono il 25% del totale, l’11% in meno di quelli del Ppe (Partito popolare europeo).
Il quadro continentale di queste forze è più articolato, ma nei quattro più importanti paesi dell’Unione è messa in discussione la loro storica centralità, il loro essere il cuore di uno dei due poli su cui è fondato il sistema dell’alternanza.
Questa è la tendenza più interessante che è stata confermata platealmente dai risultati tedeschi.

Per dare un’idea del tracollo della Spd bastano pochi dati. In termini assoluti il partito è passato dai 16,2 milioni di voti del 2005 agli attuali 9,9. Secondo l’analisi dei flussi elettorali i socialdemocratici avrebbero perso in tutte le direzioni: 500mila voti verso i liberali, 800mila verso la Cdu-Csu, altri 800mila verso i Verdi, un milione e 100mila verso la Linke, circa tre milioni verso l’astensionismo. Voti in entrata, secondo le stime: zero.
Certo, la Spd cercherà ora di uscirne, presumibilmente con una qualche virata a “sinistra” per poi cercare di risucchiare la Linke  (con i Verdi non ci vorranno troppi sforzi) in una nuova alleanza di centrosinistra. Ma difficilmente questa manovra sarà indolore.

Staremo a vedere, ma il quadro uscito dalle elezioni europee di giugno non lascia molte speranze alle socialdemocrazie. I risultati del Partito socialista francese (16,5%) e dei Laburisti inglesi (15,3%) indicano una tendenza chiara. Sappiamo che una cosa sono le elezioni europee, altra cosa le elezioni nazionali, ma il tracollo è fin troppo evidente.
In quanto all’Italia, che con il Pd vanta il partito con il maggior numero di consensi elettorali in termini assoluti tra quelli aderenti al gruppo dei Socialisti e dei Democratici (e già questo la dice lunga…), la crisi del partito ancora guidato da Franceschini è sotto gli occhi di tutti, con nuove spaccature e probabili scissioni all’orizzonte.
La fine del compromesso sociale basato sul welfare ha reso questi partiti dei carrozzoni sempre meno ancorati alla società e sempre più legati alle oligarchie. Alla fine i risultati si vedono, ma il fondo non è stato ancora toccato.

Il successo di Die Linke

In questo quadro, che vede a livello continentale uno smottamento del voto delle classi popolari verso le formazioni populiste di destra, la Germania rappresenta una controtendenza.
Il malcontento, accentuato dalla crisi, dall’aumento della disoccupazione, dall’incertezza per il futuro, non si è diretto verso l’estrema destra (vedi la sconfitta delle formazioni neonaziste) bensì verso l’astensionismo e la Linke.
Questo è un fatto confermato anche dalle analisi dei flussi elettorali. Come abbiamo già visto, secondo queste analisi, la Linke avrebbe strappato alla Spd 1 milione e 100mila voti, mentre altri 130mila sarebbero arrivati dai Verdi. Dato interessante: in questo quadro positivo la Linke ha perso tuttavia verso l’astensionismo ben 350mila voti.
A livello sociale appare chiaro che il grosso del successo del partito guidato da Lafontaine viene dalle classi popolari, e secondo i dati del responsabile della campagna elettorale la Linke sarebbe risultato il primo partito tra i disoccupati.

E’ chiaro che l’opposizione ha pagato. Ha pagato l’autonomia dalla Spd ed il rifiuto del bipolarismo, come ha pagato la netta posizione per il ritiro delle truppe tedesche dall’Afghanistan, obiettivo che secondo i sondaggi è condiviso da circa l’80% della popolazione.

Naturalmente i “sinistrati” d’Italia (Prc, Pdci, S&L, Manifesto) hanno cercato subito di impossessarsi del risultato tedesco (e di quello contemporaneo della sinistra portoghese). Lo hanno fatto, tutti ed indistintamente, senza riflessione alcuna sulle differenze di linea e di collocazione politica tra loro e la Linke.
Differenze che in ultima analisi si riducono ad una: governo od opposizione, alleanza con la sinistra capitalista oppure no, accettazione del bipolarismo o lotta contro di esso. Dai “sinistrati” d’Italia non poteva arrivare su questo alcun segnale di autocritica, perché le uniche autocritiche ammesse sono quelle che non costano niente. Ma ora siamo a 6 mesi dalle elezioni regionali, bisogna fare le alleanze con il Pd e dunque bisogna cercare di parlar d’altro.
La lezione tedesca è davvero importante, ma gli opportunisti ex arcobalenici sono per molti aspetti gli ultimi in grado di comprenderla davvero.

Naturalmente il virus dell’opportunismo non vive solo al di sotto delle Alpi, e possiamo star certi che le sirene della grande alleanza di sinistra canteranno con forza anche in Germania.
Sarà questa la prova della verità per la Linke. Sappiamo che già ora una parte significativa del gruppo dirigente è assai interessato alla prospettiva di un’alleanza con i socialdemocratici. Ed è interessante sapere che la parte che più spinge verso questa prospettiva non è quella ex Spd, bensì quella degli ultimi eredi della Ddr (cioè gli ex Pds). Se le cose andassero in quel modo la Linke si italianizzerebbe con tutte le conseguenze del caso.
Vedremo. Intanto i risultati di domenica hanno dimostrato che si possono ottenere consensi proprio opponendosi al governismo e che il malessere sociale non sfocia necessariamente a destra.
In tempi come questi non è poco.