Zelaya è già a Tegucigalpa e il suo rientro in Honduras, eludendo le “misure di sicurezza” installate lungo la frontiera, dovrebbe segnare l’inizio della fine del regime golpista. Sono varie le ragioni che danno fondamento a questa speranza, succintamente esposte nel seguito.
 
Primo: i gorilla honduregni ed i loro istigatori e protettori negli Stati Uniti, principalmente nel Comando Sud e nel Dipartimento di Stato, hanno sottovalutato la diffusione di massa, l’intensità e la perseveranza della resistenza popolare che giorno per giorno, senza cedimenti, manifesta la sua opposizione al colpo di stato.

Rifacendosi alla storia contemporanea dell’Honduras, nessuno aveva previsto e calcolato la misura di tale rifiuto. In realtà la nuova rotta stabilita da Zelaya, ovvero la sua risposta positiva a richieste popolari a lungo procrastinate e il suo orientarsi verso un inserimento internazionale in ambito ALBA, hanno avuto un effetto pedagogico impressionante e scatenato una reazione popolare inaspettata per gli honduregni stessi e per gli stranieri.
 
Secondo: il regime golpista ha dimostrato l’incapacità di rompere un doppio isolamento. Sul fronte interno è sempre più evidente che la sua base sociale di sostegno si va riducendo all’oligarchia e ad alcuni gruppi subordinati alla sua egemonia, inclusi i mezzi d’informazione, dominati senza contrappeso dal potere del capitale. Il trascorrere del tempo, lungi dal debilitare la resistenza popolare, ha invece limitato sempre più l’appoggio sociale al regime. Sul versante internazionale l’isolamento di Micheletti e della sua banda è quasi assoluto: salvo pochissime eccezioni, tutta l’America Latina ed i Caraibi hanno ritirato i loro ambasciatori e lo stesso han fatto vari paesi gravitanti nella sfera europea. La stessa Organizzazione degli Stati Americani ha adottato la linea dura contro il regime e, alla fin fine, l’unico appoggio esterno su cui il governo di fatto poteva contare proveniva dagli Stati Uniti. Tuttavia il suo declino è aumentato col tempo: dalla negazione dei visti al personale diplomatico accreditato a Washington, fino a misure sempre più rigorose contro lo stesso Micheletti ed i suoi collaboratori.
 
Terzo: le ambigue politiche del governo degli Stati Uniti, frutto di pressioni interne all’amministrazione che avevano appoggiato la realizzazione del colpo di stato, sono andate lentamente collocandosi in direzione opposta agli interessi degli usurpatori. Se l’iniziale rifiuto al golpe manifestato da Obama fu in seguito attenuato ed intiepidito dalla sua ex (ed attuale?) rivale, la Segretaria di Stato Hillary Clinton, il carattere innegabilmente retrogrado di Micheletti e la sua cricca, l’interminabile successione di spropositi ed insulti diretti ad Obama ogni volta che la Casa Bianca esprimeva critiche a Tegucigalpa, la sua evidente incapacità di costruire una base sociale, hanno man mano inclinato l’ago della bilancia contro le posizioni sostenute dalla Segretaria di Stato e creato un’atmosfera sempre più contraria ai golpisti.
 
Quarto ed ultimo: il regime instaurato il 28 giugno costituisce un serio grattacapo per Obama. In primo luogo, perché smentisce enfaticamente le sue promesse di fondare una nuova relazione tra gli Stati Uniti ed i paesi dell’emisfero. L’appoggio iniziale al golpe, reso evidente dall’ostinata resistenza di Washington a qualificarlo come “colpo di stato”, la tiepida risposta diplomatica e l’indifferenza davanti alle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate da Tegucigalpa, hanno danneggiato seriamente l’immagine che Obama voleva installare in America Latina e nei Caraibi. Il perdurare del regime golpista farebbe apparire Obama come un politico irresponsabile e demagogico o, peggio ancora, come un incapace di controllare ciò che fanno e dicono i suoi subordinati nel Pentagono, nel Comando Sud e nel Dipartimento di Stato. E questo si allaccia ad un altro tema, il secondo, estremamente importante e che va oltre l’ambito della politica mondiale: la sua credibilità in campo internazionale. Dimostrando impotenza nel controllo di quanto succede nel suo “cortile di casa”, i governanti d’altri paesi – specialmente Cina, Russia e India – hanno ragioni per sospettare che non sarà neanche in grado di controllare i settori più bellicisti e reazionari degli Stati Uniti, per i quali le sue promesse d’incoraggiare il multilateralismo equivalgono ad una capitolazione incondizionata di fronte agli odiati nemici. Ciò è particolarmente grave nel momento in cui Obama sta negoziando con la Russia un nuovo accordo per ridurre l’arsenale nucleare d’entrambi i paesi, cosa di cui Washington ha bisogno quanto o più di Mosca, vista l’emorragia economica causata dalle guerre in Iraq ed Afghanistan e l’incontenibile deficit fiscale nordamericano. Il fallimento di quest’accordo avrebbe un costo economico enorme sul bilancio pubblico, nel momento in cui si necessita quel denaro per scongiurare i rischi d’un aggravamento della crisi economica esplosa nel 2008. Ma per persuadere i russi che il suo piano di riduzione degli armamenti è fattibile, deve prima dimostrare che ha il controllo della situazione e che i falchi all’interno del Pentagono non gli spezzeranno le mani. Ogni giorno in più di permanenza al potere di Micheletti equivale ad un mese in più di difficili colloqui con Medvedev e Putin, allo scopo di convincerli che le sue promesse si tradurranno in fatti.
 
Perché, se non può controllare i suoi in Honduras, sarà in grado di farlo quando si tratterà di una questione strategica e vitale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti?
 

Fonte:

http://www.visionesalternativas.com/index.php?option=com_content&task=view&id=45138&Itemid=1

Traduzione di Adelina Bottero