Il commissario Di Pietro nella torbida situazione italiana

Le nubi si vanno addensando da tempo, ma la tempesta deve ancora arrivare. La situazione italiana si fa sempre più torbida ed ancora non si intravede quale sarà lo sbocco. La crisi ormai non è più soltanto economica e sociale, ma anche istituzionale. L’alternativa che viene proposta oggi agli italiani è quella tra un blocco reazionario ed un blocco oligarchico, altro che dicotomia destra-sinistra! Il primo è scosso dalle difficoltà del suo leader indiscusso, ma non intende certo demordere; il secondo spera di superare le sue difficoltà politiche in virtù della sua forza economica e del sostegno di Washington.

Questa è l’Italia dell’autunno 2009. Al bonapartismo berlusconiano si contrappone il disegno del governo delle oligarchie, come dire dalla padella alla brace. In questo scontro, che certamente vedrà sgambetti, tradimenti e giravolte, giocano personaggi di ogni genere. Tra questi ci occupiamo oggi di un soggetto un po’ particolare: Antonio Di Pietro, il manettaro arrivato alla politica passando dalla polizia e dalla magistratura, ma sempre rimasto un convinto forcaiolo.

Ce ne occupiamo perché il suo partito personale non è più un piccolo “cespuglio”, perché nella confusione generale rischia di attrarre consensi anche da chi è contro il bipolarismo, perché il suo momentaneo successo è il sintomo di uno sbandamento generale.
Ma prima diamo un breve sguardo alla situazione politica. Di Pietro gode infatti di una straordinaria rendita di posizione, determinata dalla crisi senza fine del Pd e dall’inconsistenza, più ancora dalla subalternità, di quel che ancora esiste alla sua sinistra. E’ in questo quadro che Di Pietro può presentarsi come il campione dell’antiberlusconismo, un titolo più che sufficiente nell’Italia di oggi per raggranellare consensi in molte direzioni.

Il vicolo cieco della destra

Lo schieramento berlusconiano è in un vicolo cieco. Volendo usare il linguaggio americano, Berlusconi è ormai un’anatra zoppa. E nell’era della personalizzazione, la distruzione della persona precede la sconfitta politica. E’ certamente quel che merita, ma che cosa bolle in pentola?
Quel che è certo è che Berlusconi non si ritirerà volontariamente ad Hammamet. Si è tagliato tutti i ponti alle spalle, ha intrapreso la strada dello scontro istituzionale ed è costretto di fatto a non mollare. Le sue ultime mosse fanno pensare ad un animale ferito e braccato, che tira calci a destra e a manca prima di cadere inevitabilmente impallinato dai suoi cacciatori.
I maggiorenti della destra preferirebbero non dover condividere questo passaggio con il loro padre-padrone, ma a questa sorte non potranno sfuggire. Del resto, se un giorno se ne libereranno non sarà per loro un giorno tanto facile, al contrario sarà l’inizio di una guerra per bande interna. Si può forse immaginare l’unità del Pdl senza il suo capo?
Ma restiamo al presente. Massimo D’Alema ha detto qualche giorno fa che in un “paese normale” Berlusconi dovrebbe dimettersi perché glielo chiederebbe il suo partito. Per una volta non possiamo che essere d’accordo con D’Alema. Ma il 25 luglio del berlusconismo non sembra ancora alle porte, e se arriverà sarà solo dopo una cocente sconfitta politica.
Per ora – almeno fino alle regionali di primavera – il duo Pdl-Lega (ma soprattutto il Pdl) sarà costretto a barcamenarsi, confidando soprattutto sull’incredibile debolezza dell’opposizione parlamentare. L’animale ferito continuerà a tirar calci, i cacciatori proseguiranno il loro gioco, la vita pubblica diventerà sempre più un pantano. Insomma, guai a pensare di aver toccato il fondo.

Il centrosinistra in coma speranzoso

Se la destra è in un vicolo cieco, il centrosinistra è in una paradossale condizione di coma speranzoso. E’ politicamente in coma, non sa esprimere una vera opposizione, si fa sempre infilzare nella polemica quotidiana, ha una politica delle alleanze a dir poco confusa e rimane litigioso al suo interno. Nonostante tutto ciò, il centrosinistra è speranzoso. Non ha grandi idee, ma pensa di risolvere le sue difficoltà lasciandosi trasportare dalla corrente oligarchica-confindustriale-americana che sta preparando il dopo-Berlusconi.
In questi ultimi giorni la linea di questo blocco è sempre più chiara: meno tasse per le imprese e da subito, guai a parlare di precarietà (basta vedere come è stato redarguito Tremonti per la “bestemmia” sul “posto fisso”), ulteriore attacco alle pensioni (vedi Il peggiore di tutti: Mario Draghi), nuove privatizzazioni. Quello di Draghi, Marcegaglia, Montezemolo – con il loro codazzo di economisti ed opinionisti sempre pronti alla bisogna – è un gigantesco progetto di massacro sociale, una politica dei sacrifici al cubo, al cospetto della quale le finanziarie “lacrime e sangue” per Maastricht rischiano di apparire come cose da bambini.
Le oligarchie che hanno deciso di affrontare in questo modo la crisi non possono però fare a meno dell’ombrello di Washington. Ecco allora l’offensiva sulla politica dei gasdotti, l’attacco al rapporto italo-russo, la denuncia di Berlusconi come uomo dello zar Putin.
Non è ancora chiaro come questo disegno – che dispone di terminali anche a destra – possa concretizzarsi, ma di certo è sufficiente a rendere speranzosi i centrosinistrati in coma. Non hanno un loro progetto, ma sanno di poter essere utili a quello di qualcun altro. E questo gli basta ed avanza, trattandosi di un ceto politico votato unicamente alla governance ed agli interessi (come direbbe, con accento emiliano, Bersani) della “ditta”.

Ecco allora il commissario Di Pietro

Fin qui la fotografia dell’attuale degrado della politica. In questa foto Di Pietro è un po’ dentro e un po’ fuori. I suoi elettori, specie gli ultimi arrivati, lo credono più fuori che dentro. La verità dei fatti ce lo mostra invece dentro fino al collo, ma la confusione è tanta che l’apparenza sovrasta la realtà. Proviamo allora a guardare meglio ricostruendo il suo percorso, analizzando le sue scelte politiche, esaminando il programma del suo partito, sulla cui struttura padronale sarà utile un minimo di attenzione. 

Di Pietro arriva in magistratura transitando dalla polizia. Da commissario a Pm il passo è breve, anche se dovrà aspettare qualche anno per arrivare alla celebrità che conquista con “Mani pulite” (1992).
Quanto fossero “pulite” quelle mani dovrebbe essere ormai chiaro a tutti. Sta di fatto che è da lì che viene la seconda repubblica, il sistema elettorale maggioritario, il record mondiale delle privatizzazioni, i sacrifici per entrare nel sistema dell’euro, le missioni militari al fianco degli Usa, e chi più ne ha più ne metta. E’ da lì,  paradosso soltanto apparente, che arriva lo stesso Silvio Berlusconi, un “dettaglio” sul quale Di Pietro, come gli altri dirigenti del centrosinistra, evita accuratamente di proferir parola.
In una recentissima trasmissione di Annozero (inizi di ottobre), il leader dell’Idv rivela che pochi giorni prima della strage di via D’Amelio viene fatto espatriare in Costarica, sotto il falso nome di Marco Canale. Ma guarda un po’, gli apparati dello Stato si preoccupavano della sua incolumità esattamente nel momento in cui le sue inchieste destrutturavano il sistema politico della prima repubblica, mentre non si preoccupavano di quella del giudice Borsellino che in via D’Amelio da lì a poco sarebbe saltato in aria.
Lungi da noi la dietrologia, ma quel che è certo (ce lo dice lui) è che di fronte a delle minacce mafiose gli apparati dello Stato mettevano al primo posto la sicurezza di un giudice che svolgeva le sue indagini a Milano, non a Palermo. Alcuni hanno sostenuto in passato che Di Pietro stesso sarebbe stato un uomo dei servizi. Noi non possiamo saperlo, ma i fatti del ’92 dovrebbero far riflettere.

Dopo quella stagione, torbida quanto l’attuale, arriva il Di Pietro politico.
Prima rifiuta, ma dichiarandosi lusingato, un incarico ministeriale offertogli da Berlusconi (aprile 1994) con la motivazione di voler restare in magistratura, poi pochi mesi dopo lascia la stessa magistratura per motivi mai veramente chiariti. Quel che sappiamo è che anche allora si usavano ricatti e dossier.
Nel 1996 entra nel governo Prodi come ministro dei lavori pubblici, ma si dimette dopo aver ricevuto un avviso di garanzia. A fine 1997 viene comunque ricompensato con l’elezione a senatore nelle liste dell’Ulivo.
L’anno dopo nasce l’Italia dei valori (Idv), che nel 1999 confluisce nell’asinello dei “Democratici”. Nel 2000, quando la sconfitta del centrosinistra alle elezioni politiche è praticamente già certa, rifonda l’Idv, evidentemente un “partito” formato tascabile per la giacca dell’ex Pm.
Il resto è storia abbastanza recente. Alle europee del 2004 fa coppia con Occhetto, alle politiche del 2006 è nell’Unione di Prodi, in quelle del 2008 è l’unico alleato ammesso all’apparentamento con il Pd da Veltroni, un fatterello che viene sistematicamente omesso dagli estimatori della presunta autonomia di Di Pietro.

Fuori dal recinto?

Secondo costoro Di Pietro sarebbe un nemico del bipolarismo.
Peccato che già nel 1998 sia stato tra i promotori del referendum per l’abolizione della quota proporzionale per l’elezione della Camera. Peccato che abbia confermato questa sua vocazione maggioritaria e bipolare non più tardi che nel giugno scorso quando ha sostenuto il sì al referendum ultra-bipartitista.
Sempre secondo i suoi estimatori, Di Pietro sarebbe in rotta con il Pd. Nulla di più falso. Abbiamo già detto delle politiche del 2008, ma l’alleanza si è ripetuta nelle recenti elezioni regionali in Abruzzo e Sardegna e così pure alle amministrative di giugno. Dov’è allora la rottura?
E perché poi dovrebbe esserci, vista la somiglianza di programmi ed obiettivi?
Di Pietro è del tutto dentro al recinto, inclusi gli aspetti castali che pure vorrebbe denunciare. La sua vera funzione è quella di alzare la voce per raccogliere il malessere e la voglia di opposizione, per ricondurli poi nella gabbia bipolare.

Qual è il suo programma?

Qual è il programma dell’Idv? Ovviamente quasi nessuno lo sa, dato che l’unico messaggio che arriva è quello del fustigatore, del nemico giurato di Berlusconi e dei corrotti. Nella sua caccia al voto usa toni ed argomenti di sinistra: fa l’antifascista, il difensore degli operai, il guardiano della Costituzione, all’occorrenza perfino il pacifista.
Ma qual è il suo programma?
Leggerselo è semplice, sta sul sito dell’Idv ed è accorpato in 10 punti. E’ breve ed altamente istruttivo.
Nei capitoli dedicati all’economia si trovano questi obiettivi qualificanti: a) diminuzione del carico fiscale alle imprese a partire dall’Irap, b) liberalizzazione dei servizi pubblici locali ed avvio della loro privatizzazione, c) abbattimento del costo del lavoro con salari legati ai risultati, d) incentivo alle rottamazioni.
Qualcuno saprebbe trovare qualche differenza con le attuali priorità di Confindustria?

Sulla politica estera, in mezzo a banalità inoffensive, troviamo l’obiettivo dell’esercito europeo e quello di una politica comune dell’Unione. Il sostegno dell’Idv all’Europa delle oligarchie sancita dal Trattato di Lisbona è dunque totale.
Non a caso quando il parlamento italiano lo ha ratificato, Di Pietro era con i suoi a spellarsi le mani per gli applausi a quel voto totalmente bipartisan.

Su giustizia e sicurezza Di Pietro dà ovviamente il meglio di sé. Aumentare gli organici di polizia, carabinieri, guardie carcerarie, ai quali si dovrebbe anche aumentare lo stipendio; aumentare il numero di magistrati; rendere più difficili i ricorsi in Cassazione; sospendere i termini della prescrizione dopo il rinvio a giudizio; rafforzare la cooperazione giudiziaria internazionale, promuovere la figura del Pm europeo; inasprire il regime carcerario, concedere ulteriori facilitazioni ai pentiti, impedire ogni restrizione alle intercettazioni. Dobbiamo continuare?
Ovviamente il populista molisano vende la sua merce autoritaria condendola con il solito antiberlusconismo. Ma, dovremmo chiederci, Berlusconi è l’unico cittadino italiano che ha a che fare con la giustizia? Con quella giustizia che peraltro è stata incapace fino ad oggi di condannarlo una sola volta, al di là dell’odioso lodo Alfano recentemente cancellato dalla Corte Costituzionale?
E in nome dell’antiberlusconismo dovremmo forse augurarci più poliziotti e più armati, più carceri e più dure?
Siamo forse impazziti? Le leggi autoritarie vanno sempre a colpire gli oppressi e chi lotta contro l’ordine capitalista, e di norma in prigione i corrotti ed i corruttori non ci vanno. Dobbiamo ancora ricordare queste semplici verità?

Ma la natura del dipietrismo si rivela su tutti i fronti. Sapete, ad esempio, qual è la risposta all’attuale monopolio televisivo? Ovvio, la liberalizzazione…

Il guardiano delle compatibilità

Naturalmente, qualcuno potrebbe osservare che nel programma dell’Idv vi sono anche altre cose. Vero, ma guarda caso non manca un solo punto di quelli che stanno a cuore alle classi dominanti.
Per togliersi ogni dubbio basta comunque ricordare la posizione dipietrista durante l’ultimo governo Prodi (2006-2008). Quel periodo non è lontano, ma la memoria degli italiani pare ultimamente in affanno.
In quella breve legislatura Di Pietro, che con un misero 2,3% di voti divenne ministro delle infrastrutture, portò con sé personaggi di vario tipo, tra i quali ebbe un ruolo di spicco Sergio De Gregorio che diverrà presidente della commissione Difesa del Senato con i voti dei berlusconiani. De Gregorio, che passerà poi armi e bagagli al centrodestra, era già stato un esponente di Forza Italia in Campania, ma in quel caso, chissà perché, il commissario era stato meno rigido del solito nel compilare le liste elettorali.

Ebbe invece la rigidezza del cane da guardia nella difesa ad oltranza delle scelte più marcatamente antisociali (come l’ennesima controriforma delle pensioni dell’estate 2007), e di quelle atlantiste, come il sì alla base americana di Vicenza ed il pieno sostegno ai vari rifinanziamenti delle missioni militari all’estero, a partire da quella in Afghanistan.

I soliti ingenui potrebbero forse pensare che tanto zelo derivasse dalla sua fedeltà a Prodi, dalla volontà di evitare ad ogni costo difficoltà al governo, ma così non è.
Tanto accanito contro la pretesa “radicalità” delle componenti di sinistra –  in realtà restate sempre subalterne ed inefficaci, e comunque rimaste fino all’ultimo a fare la guardia al bidone vuoto del “governo amico” –, quanto furioso e sputacchiante sentenze oltre che saliva nel prendere le distanze dal governo quando poteva marcare la sua vera natura di forcaiolo.
Su cosa si distingue infatti il partito personale del ministro delle infrastrutture? Semplice: votando e manifestando contro l’indulto del luglio 2006, ed opponendosi alla commissione d’inchiesta sul comportamento della polizia durante il G8 di Genova.

Un partito personale

Fin qui le scelte politiche del partito. Già, ma che tipo di partito?
Dopo il successo alle europee Di Pietro ha promesso un “partito meno personalizzato”. Ma a quella promessa non sono seguiti i fatti ed il simbolo con il suo nome al centro è ancora lì.
Per dire quale partito sia l’Idv bastano del resto due cose. La prima è che benché lo statuto preveda il congresso ogni due anni, ad oggi di congressi (peraltro congressi sui generis) se ne sono svolti solo due, nel 1999 e nel 2004. La seconda è che il potere di modificare lo statuto non è del congresso, ma di un ristrettissimo Ufficio di presidenza. Così è dal gennaio scorso, prima di allora anche questo potere era addirittura nelle mani di una persona sola: indovinate chi.
Alcuni parlamentari dipietristi ogni tanto bofonchiano per questo strapotere del capo, ma – al pari dei berlusconiani – non possono veramente fare niente con chi gli ha donato un seggio tanto inatteso.

L’altra questione che ci parla della vera natura dell’Idv è quella dei finanziamenti.
Forse non tutti sanno che la Corte dei Conti sta indagando su quale sia il soggetto che ha finora percepito i fondi elettorali destinati all’Idv. L’istruttoria ha preso le mosse non da una qualche manovra degli odiati berluscones, bensì da una denuncia dei legali di Elio Veltri (cofondatore dell’Idv) ed Ochille Occhetto, l’alleato delle europee 2004 oltre che scioglitore del Pci.
L’ipotesi è che i fondi siano finiti non al partito Italia dei valori, bensì ad un’associazione Italia dei valori, costituita da soli tre soci: Antonio Di Pietro, la moglie Susanna Mazzoleni e la fidatissima Silvana Mura. Questi due soggetti (Idv partito ed Idv associazione), giuridicamente distinti, sono stati riconosciuti come tali anche dal Tribunale di Roma nella causa civile che contrapponeva l’Idv al “Cantiere” di Occhetto e Veltri.
Il commissario non è dunque quel campione di trasparenza che si vorrebbe far credere: il (finto) partito serve per prendere i voti, ma i soldi (insieme a tutti i poteri decisionali) devono stare nelle mani di un ristrettissimo clan familiare. E se l’inchiesta confermerà l’imbroglio saremmo di fronte al primo caso di questo genere nella pur variopinta e pittoresca galleria delle furfanterie del ceto politico italiano.
Ai dipietristi inossidabili, agli amanti del Pm dalle “mani pulite”, dedichiamo le righe che seguono, tratte dall’esposto dei legali di Occhetto e Veltri del luglio 2008, nel quale fanno presente alla Corte dei Conti, che: «nella più totale assenza di qualsiasi controllo da parte dell’Ente pagatore (la Camera dei deputati, ndr) sulle condizioni minime di legittimazione a ricevere i pagamenti dei rimborsi elettorali, essi vengono conseguiti da parte di una associazione formata da sole tre persone, che consegue tali ingenti fondi nella inesistenza per giunta di qualsiasi rendiconto». Insomma, Di Pietro è un imbroglione? Secondo gli ex alleati del “Cantiere”, sì. Per il resto giudichino i lettori.

A cosa serve l’Idv?

Concludiamo allora tornando alla domanda più importante: a cosa serve l’Idv? Che la sostanza di questo partito personale dell’ex Pm sia distante anni luce da quel che vorrebbe sembrare è fin troppo evidente. Ma qual è la sua funzione?
L’Idv ha i tratti di un partito conservatore in materia istituzionale, liberale in economia, reazionario nel campo del diritto e della giustizia, laico rispetto ai diritti civili. A chi rassomiglia questo strano animale? Se non fosse per la sua natura forcaiola troveremmo più di una parentela con il Partito radicale di Pannella,  del quale condivide fra l’altro (ma in maniera ancor più accentratrice) la stessa strutturazione leaderistica. Questo paragone sembrerà a qualcuno folle ed irragionevole. Agli amici di Pannella apparirà irrispettoso delle posizioni radicali sulla giustizia, a quelli dell’ex Pm sembrerà offensivo dell’immagine che il loro leader si è costruita addosso.
Proviamo allora a ragionare in altro modo, paragonando l’attuale funzione dell’Idv con quella assunta dal Partito radicale alla fine degli anni ’70. Oggi si tratta di raccogliere il dissenso e l’opposizione al sistema politico per reincanalare il tutto nella gabbia bipolare. Allora si trattava di assorbire il dissenso e l’opposizione ai governi di “unità nazionale”, cioè al consociativismo di quel tempo, per reincanalarli nelle istituzioni di quello stesso sistema.
Pannella strillava, Di Pietro strilla; Pannella sembrava un anti-sistema, Di Pietro pure. Il primo è finito a promuovere referendum per il maggioritario e contro i lavoratori, nonché manifestazioni a sostegno della guerra alla Jugoslavia; il secondo ha fatto esattamente le stesse cose.
Se ieri serviva il libertario perché bisognava convogliare in direzione liberal almeno una parte dei movimenti degli anni ’70, oggi funziona meglio il commissario in servizio permanente effettivo perché quella giudiziaria è la via maestra di un certo antiberlusconismo.

Entrambi hanno saputo raccogliere voti e brandelli dalle forze della sinistra, entrambi sono alleati del Pd, all’interno dello schieramento di centrosinistra. Abbiamo già ricordato che nel non lontano 2008 l’Idv era l’unico partito apparentato con il Pd veltroniano, il quale conteneva però all’interno delle sue liste l’inossidabile pattuglia pannelliana. Un caso? Difficile pensarlo.
Il successo del Partito radicale alla fine degli anni ’70 fu il frutto avvelenato del compromesso storico e dei governi di unità nazionale. Quello di Di Pietro è il frutto avvelenato del berlusconismo. Un frutto da combattere per ciò che è, per la sua linea politica ed il suo programma, ma anche per la funzione che svolge: quella di partito di cerniera tra il centrosinistra e quella parte della società che vorrebbe farla finita con il bipolarismo.

Quelli che si illusero sulla via pannelliana trenta anni fa dovettero ben presto ricredersi: la funzione del buffone radicale e filo-americano non cambiò, ed anzi si precisò sempre più nel tempo, ma il suo seguito si ridusse drasticamente benché in molti continuassero a prodigarsi amorevolmente per tenerlo in qualche modo in vita.
A quando il declino del principe dei forcaioli? Non lo sappiamo, anche se il suo destino appare indissolubilmente legato a quello dell’attuale primo ministro. Possiamo immaginare un dipietrismo senza Berlusconi? Ovviamente no: verrebbero meno sia gli argomenti che la funzione del suo partito personale.
I tempi sono dunque incerti, ma una cosa possiamo dirla: quando le quotazioni del commissario Di Pietro inizieranno finalmente a scendere l’aria della penisola sarà un po’ più salubre.