Un partito di potere che non potrà mai essere un partito popolare

Per il Partito Democratico il problema non sono le primarie, quanto piuttosto le “secondarie”. Le primarie le “vincono” ogni volta, ma essendosi specializzati in finte elezioni finiscono sempre per perdere quelle vere.
Ne sono talmente consapevoli che terminate quelle per il segretario, hanno già pronti i gazebo per i candidati alle regionali. Vanno capiti: è praticamente l’unico modo che hanno per far parlare di sé al di là di qualche inchiesta sul sistema tangentizio fiorentino piuttosto che su quello pugliese. E se non fosse stato per Marrazzo avrebbero davvero catalizzato l’attenzione per un paio di giorni…

Sono state primarie veramente divertenti: da una parte il “nuovo”, rappresentato dal democristiano di lungo corso Franceschini, un tipo che arrivato inopinatamente alla segreteria nel febbraio scorso aveva annunciato, urbi et orbi, che non si sarebbe candidato alle primarie; dall’altra il “vecchio”, nelle vesti di un privatizzatore emiliano che chiama il partito “ditta”, ammissione non richiesta ma senz’altro significativa. C’era poi, fuori concorso, il “nuovissimo”, un chirurgo senza arte né parte sul quale sono confluiti i voti di chi proprio non riusciva a dare il proprio consenso ad uno dei primi due.

Se volessimo prendere le primarie per una cosa seria, Bersani potrebbe considerarsi soddisfatto: 3 milioni di elettori dichiarati, un 53% di consensi in uno scontro vero con l’anima veltroniana rappresentata da Franceschini.
Ma le primarie sono una cosa seria? Lasciamo perdere le inevitabili irregolarità di questo tipo di consultazione, lasciamo perdere il fatto che poteva votare chiunque (elettori di destra inclusi), ma come mai tutti gli “incoronati” alle primarie finiscono in breve in malo modo?
Prodi (primarie dell’Unione, ottobre 2005) sembrava il salvatore dell’Italia, colui che l’avrebbe fatta uscire dalla deriva berlusconiana. Mise in piedi il peggior governo della storia repubblicana e riconsegnò in due anni il paese al Paperone di Arcore che si ritrovò ben più forte di prima.
Veltroni (primarie del Pd, ottobre 2007) sembrava il salvatore del partito del quale, con il suo vuoto assoluto, pareva davvero incarnare l’anima. Dovette dimettersi 16 mesi dopo.

Bersani non appare salvatore di niente, e questa potrebbe essere la sua relativa fortuna. Ma perché il destino ha finora spazzato via in un breve lasso di tempo i trionfatori alle primarie? Nella risposta a questa domanda c’è il succo dell’enigma Pd e di quel che gli ruota attorno.
I dirigenti del partito non hanno torto a dire che il loro congresso è stato il più partecipato, o che comunque tre milioni di persone che vanno a votare non sono poca cosa. Dovrebbero però chiedersi come mai questa “superiorità”, rispetto ai modestissimi concorrenti attualmente sul mercato, non si traduce in maggiori consensi reali (oltre che elettorali) nel paese.  
Quel che è certo – ce lo dicono i numeri – è che il “popolo delle primarie” ha una gran voglia di votare, ma ben poca capacità non diciamo di egemonia (parola grossa), ma anche solo di mera influenza elettorale.

I sociologi mainstream ricondurrebbero il tutto ad una base sociale obsoleta, il cui emblema sarebbero i pensionati della Cgil mestamente in fila ai seggi delle primarie. Ora, è vero che l’età media dei votanti era piuttosto alta, ma questo è assolutamente normale vista la spoliticizzazione delle nuove generazioni. I suddetti sociologi ci spiegherebbero allora che il problema starebbe nell’incapacità strutturale di questi ceti (per età, linguaggio, collocazione nel sistema produttivo, eccetera) di parlare al resto della società. Questa capacità l’avrebbero invece i cosiddetti “nuovi ceti produttivi”, rappresentati simbolicamente dal popolo delle partite IVA.

Questa tesi contiene forse un 5% scarso di verità, ma oscura il ben più importante 95% che evidentemente deve essere in tutti i modi occultato.
In questi anni abbiamo visto votare alle primarie industriali e banchieri di prim’ordine, personaggi dello spettacolo, premi Nobel, cattedratici di ogni tipo, professionisti, sindacalisti, giornalisti e chi più ne ha più ne metta. Anch’essi incapaci di parlare al resto della società? E perché poi un operaio sindacalizzato della Fiom di Livorno dovrebbe essere meno influente di un operaio leghista di Bergamo?
Come si vede la spiegazione sociologica fa acqua da tutte le parti. Del resto l’analisi della ripartizione dei voti mostra da anni una maggioranza della destra tra gli operai del settore privato ed una di centrosinistra tra i pensionati ed i lavoratori statali.

Deve esserci insomma un’altra spiegazione. E questa risiede, a mio modesto parere, da un lato nella natura del Pd, dall’altro nella sua linea politica.
Che cosa è il Pd? Secondo il transfuga Rutelli è un “partito mai nato”, ma questo giudizio tranchant  fa solo pensare ad un bambinone viziato a cui è stato negato un giocattolo che pensava suo. No, il Pd è nato. Ed è nato con la precisa funzione di campione della governance, intendendo con questo termine non solo l’esercizio del governo, ma la capacità di gestire il processo sociale e culturale di formazione del consenso senza il quale il semplice governare diverrebbe impossibile.
Insomma, il Pd è nato candidandosi da subito a strumento della politica delle oligarchie economico-finanziarie. Ma un simile strumento non può essere solo un mero esecutore di decisioni altrui, deve essere ad un tempo interconnesso ai circoli decisori e capace di egemonia sociale e culturale.
Più facile a dirsi che a farsi.

Non sarà un caso se storicamente la borghesia italiana non è mai riuscita ad avere un proprio partito “puro” in grado di conquistare il governo. Certo non erano partiti “puri” della borghesia né il Partito fascista né la Democrazia Cristiana, il che non ha impedito in tutta evidenza che questi partiti “impuri” fossero pienamente utilizzati, nella loro epoca, per gli interessi delle classi dominanti. 
Questa situazione, per niente paradossale perché determinata dalla necessità prioritaria della lotta al comunismo sia nell’epoca fascista che in quella democristiana, è venuta meno con il 1989. Ed è infatti da qui che ha preso il via la lunga rincorsa al mitico “partito democratico”, reso finalmente possibile dall’omologazione sistemica del grosso della sinistra. Ma i miti sono una cosa, la realtà un’altra.
Il modello teorico del partito della governance non funziona e vanno dunque continuamente in onda i vari tentativi di adattarlo alla situazione concreta. La via veltroniana era quella della semplificazione politica per decreto, quella bersaniana appare come un ritorno alle alleanze “unioniste”, anche se non è ancora del tutto chiaro quale sarà la forma. Il problema però è sempre il solito: il programma delle oligarchie non è poi così popolare come amano pensare giorno e notte gli Scalfari ed i Debenedetti.

Come partito della governance il Pd è forte non tanto per il suo peso parlamentare, ma per quello che ha storicamente nelle amministrazioni locali, nel sindacato, nelle cooperative, nell’associazionismo. Ma questo ampio potere, ben lungi dal renderlo un partito un po’ più popolare, lo plasma invece come partito del potere diffuso, ben più di quanto non appaia tale il partito monarchico denominato Pdl.
E’ infondata questa cattiva reputazione del Pd? Credo proprio di no. Quando le persone comuni si imbattono, per i motivi più svariati, con i privilegi e l’arroganza del ceto politico, nel 70% dei casi hanno incontrato un esponente del Pd o della sua area.

Il Pd, pur essendo all’opposizione in parlamento, si presenta quindi come partito di potere. E – dettaglio per niente secondario – le primarie sono la festa di questo potere diffuso. Una sagra in cui i vari poteri, se preferite le lobby, si scontrano fra loro per ridefinire un nuovo equilibrio interno. Ed è proprio questo il motore principale che muove le gambe degli elettori delle primarie. Ovviamente non di tutti, ma di buona parte sì.

Questa natura di partito di potere, anche se momentaneamente senza governo centrale, trova del resto una conferma colossale nelle scelte fondamentali del Pd in materia economica ed in politica estera.
Chi è più europeista del Pd? Chi fa il tifo più sfegatato per il Trattato di Lisbona? E sulla Nato, sull’Afghanistan dove stanno le differenze con il Pdl? Non c’è un solo punto programmatico, non c’è una sola scelta politica in cui il Pd si discosti dai desiderata delle oligarchie dominanti.
Non solo non esiste dunque un “popolo delle primarie” davvero distinto dal potere proteiforme del partito delle primarie, ma proprio non si vede quale messaggio popolare potrebbe mai trasmettere.

Il Pd partito della governance non potrà mai essere un vero partito popolare, neppure nei termini del moderatismo centrista in cui lo fu la Dc. Qualora i dirigenti volessero intraprendere quella strada – ma non si vede all’orizzonte una simile prospettiva – entrerebbero immediatamente in conflitto con le oligarchie economiche. Poiché non possono farlo, dovranno rassegnarsi ad un ruolo più modesto.
Si dirà, ma le odierne classi dominanti non comprendono più le esigenze della mediazione politica? Le comprendono, ma considerata la perdurante ed incredibile letargia delle classi popolari pensano di poter procedere come un rullo compressore.
Anche in questo caso il modello teorico andrà a farsi friggere. Nessun partito “puro” potrà aspirare ad un ruolo stabilmente dominante, ma il numero dei servi è talmente alto, e la loro disponibilità così completa, che lorsignori sanno di poter procedere per la loro strada con governi a geometria variabile a seconda delle necessità.

Forse sta qui, in questa consapevolezza, la vittoria di Bersani. Non più sogni napoleonici di conquista, ma razionale utilizzazione delle forze per conservare al meglio gli interessi della “ditta”. Non più la megalomania veltroniana, ma il saggio calcolo emiliano delle quote di potere da difendere con le unghie e con i denti.  
Sapendo che per difenderle bisognerà spartirle, rinunciare ai disegni egemonici per disegnare “nuove” (verrebbe da ridere) alleanze.
In questa nuova gestione aziendale consiste il bersanismo. Nulla di più, nulla di meno, anche se è certo che non mancheranno gli idioti che vi leggeranno una qualche svolta a sinistra.

In una settimana di segreteria Bersani ha già incontrato Di Pietro, Vendola, Ferrero e Diliberto. Ha strizzato l’occhio all’Udc e fatto intendere che uno spazio si troverà anche ai radicali.
Con Di Pietro non ci saranno problemi, Vendola ha già accettato l’allargamento dell’alleanza all’Udc (anche se forse non l’avrà in Puglia, e questo gli secca assai…), con il duo Prc-Pdci la formula è invece chiara: no ad alleanze di governo, ma sì all’alleanza elettorale contro Berlusconi. In pratica – al di là del mutato sistema elettorale – la “desistenza” del 1996. Ecco un’altra fantastica “novità” dell’attuale stagione politica.
Nello schizofrenico “work in progress” pendolare che va avanti almeno dal lontano 1993 siamo dunque di nuovo ad una fase “unionista”, con tutte le conseguenze del caso.

La stessa uscita dal Pd del bamboccione romano, piccato per essere rimasto senza fascia tricolore, non sembra un vero problema per le strategie bersaniane. Al contrario, al di là del fatto che le ipotesi di raddoppio dei consensi dell’Udc avanzata da Casini è del tutto campata in aria, quell’uscita servirà a porre le premesse per la nuova alleanza.
Il Pd perderà forse ancora qualche voto, ma potrà collocarsi al centro dello schieramento: a destra Casini (che avrà un prezzo non indifferente), battitore libero Di Pietro, a sinistra i soliti portatori d’acqua. Davvero una bella scenetta.

Abbiamo già ricordato che dopo il bipolarista ed “unionista” Prodi, il fallimento ha colpito rapidamente il bipartitista ed “antiunionista” Veltroni. Oggi Bersani riuscirà dove ieri Prodi ha fallito? Vedremo, ma dubitarne è lecito. In ogni caso, il voto del “popolo delle primarie” non dice molto circa la vera popolarità di chi le ha vinte e di ciò che rappresenta.
Ma soprattutto il gap tra l’immagine delle primarie come espressione di una forte volontà popolare all’interno di un partito popolare, e la realtà delle primarie come espressione delle lotte lobbystiche all’interno di un partito di potere, potrà presentare di nuovo il conto anche a Bersani, così come è avvenuto ai suoi più illustri predecessori. A meno che non si riconosca la necessità di rivedere al ribasso le ambizioni di un partito che potrà essere di governo, ma mai egemone, meno che mai popolare.