Un intervento sull’articolo di Moreno Pasquinelli su «Immigrazione e rivoluzione»
Sulle questioni sollevate dall’articolo di Moreno Pasquinelli ci è pervenuto questo intervento di Roberto Nadalini, che pubblichiamo volentieri. Ci auguriamo che su questi temi si apra un vero dibattito tra i comunisti e gli antimperialisti.
Chi desidera inviare un proprio intervento scriva a redazione@campoantimperialista.it
Mi è capitato ultimamente di leggere l’articolo di Moreno Pasquinelli (di seguito MP) intitolato “Immigrazione e rivoluzione”. Come sempre, ho potuto apprezzare il coraggio intellettuale dell’autore e la sua capacità di provocare dibattiti tutt’altro che banali. Tuttavia, questa volta ho avuto l’impressione di imbattermi in una presa di posizione che presenta non pochi rischi per i fini del movimento (aspirante) rivoluzionario. Ciononostante, lungi da me gridare allo scandalo: mi sembra più opportuno tentare di articolare una risposta coerente.
Mi sembra che il ragionamento di MP segua a grandi linee queste direttrici: la posizione dei rivoluzionari sul tema immigrazione deve essere sgomberata da impostazioni moralistiche, ovvero bisogna guardare a questo come ad altri fenomeni non secondo la prospettiva del giusto astratto ma sotto quella del giusto concreto, che nello specifico vuole dire “che va nella direzione di liberarci dalle catene dell’imperialismo”. E’ questo il modo di procedere proprio di chiunque abbia introiettato il metodo dialettico; è lo stesso modo di procedere che ci consente, ad esempio, di valutare la questione del contenzioso USA-Iran non alla luce di un giudizio universale riguardo alle proprietà dell’atomo, ma al significato storico (progressivo) che potrebbe avere la rottura del monopolio energetico da parte di una potenza periferica.
Fino a qui tutto bene, non fosse che il giudizio “concreto” sul problema immigrazione dovrebbe prendere in considerazione come prima cosa il carattere ambivalente dello stato-nazione, nello specifico degli stati nazione imperialistici subordinati alle centrali imperialistiche dominanti: in quest’ottica, ogni contrasto che abbia la possibilità di modificare le gerarchie stabilite, rompere l’ordine costituito per l’accumulazione capitalistica, assume una valenza positiva; curiosamente, però, l’autore fa un paragone che sottende la difesa dello stato-nazione in astratto nonostante la premessa di voler evitare tale errore: se è giusto difendere il diritto della nazione di difendere le prerogative sovrane nei confronti di organismi sovrastatali come la UE o la NATO, è giusto anche difendere tali prerogative nei confronti dei flussi migratori.
O meglio, sembra di evincere che se non esercita quest’ultima funzione restrittiva, lo stato nazione scompare in quanto tale e non è in grado di esercitare anche tutte le altre (“E’ del tutto evidente che le rivendicazioni, «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti», non sottendono solo un giudizio etico ma implicano un principio politico: la condanna degli stati-nazione come illegittimi e la loro negazione qui e ora. Chiediamoci: è nell’interesse del movimento rivoluzionario e antimperialista mondiale battersi per sopprimere gli stati-nazione? Forse che non dobbiamo distinguere tra stati imperialisti dominanti e stati semicoloniali dominati? “).
Tuttavia, occorre per prima cosa sottolineare che né la nazione ha tale funzione come carattere essenziale, né ce l’ha lo stato: quest’ultimo è definito come quell’organismo dotato del monopolio della violenza legittima, monopolio che non viene necessariamente scosso dall’arrivo di proletari da altri luoghi, semmai dall’arrivo di uomini armati che in quanto tali contendano tale sovranità; la nazione poi, in quanto identità storico culturale, è in quanto tale soggetto a divenire: la nazione basca, ad esempio, è stata caratterizzata da una forte immigrazione negli anni dell’industrializzazione, ma ha altresì saputo coniugare la sua improvvisa modificazione genetico-culturale con una radicalità nella difesa dei propri diritti identitari che ha coinvolto anche e soprattutto questi nuovi arrivi (vi sono ricerche sull’elettorato abertzale che confermano tale tesi).
Il ragionamento di Pasquinelli si sposta poi su un ulteriore piano: quello della lotta di classe in Italia in rapporto al fenomeno dell’immigrazione di massa; qui bisogna premettere che l’immigrazione, nei suoi tratti odierni (dai paesi poveri verso quelli ricchi), è un sottoprodotto dell’imperialismo, fase capitalistica caratterizzata dall’esportazione di capitali verso la periferia e dalla creazione delle condizioni per lo sfruttamento in essa delle risorse a buon mercato, prima di tutto la forza lavoro: è questa la fase in cui le differenze di sviluppo si traducono in differenze salariali. Queste sperequazioni sono al contempo il prodotto della creazione di una estesa massa disoccupata e sottoccupata attraverso l’impedimento di uno sviluppo autonomo delle colonie (lo “sviluppo del sottosviluppo”, come ha scritto qualcuno) e la base per una nuova forma di trasferimento di valore dalla periferia al centro, come ha suggerito Emmanuel in un suo celebre scritto. Vista in quest’ottica l’emigrazione non può che essere vista come la reazione del proletariato della periferia a questa situazione di subalternità impostagli. Eppure MP fa l’errore di invertire causa ed effetto: vede la relazione fra imperialismo e movimenti dell’esercito di riserva da esso creato, ma vede in questi ultimi uno dei motori del primo; questa confusione crea come corollario l’illusione che i limiti legali agli ingressi non siano una “contromossa” dei potenti in risposta alla messa in discussione dell’impenetrabilità dei confini data dalla divisione internazionale del lavoro, ma in qualche caso una legittima aspirazione dei proletari europei di fronte alla “congiura” imperialistico-migratoria: ma come non vedere che tali differenziazioni politiche siano servite proprio a riprodurre sul suolo europeo quelle sperequazioni già presenti a livello internazionale fra proletari? Dati questi presupposti, era legittima anche l’aspirazione di una parte considerevole del proletariato tedesco alla spartizione del bottino coloniale durante la prima guerra mondiale? E come non vedere che l’intensificazione dello sfruttamento del lavoratore europeo e l’ipersfruttamento di quello migrante sono un prodotto più di una differenziazione legale fra i due che non dalla pressione numerica dell’esercito di riserva in Europa?
Appare chiaro che se l’immigrazione ha costituito un fattore di attacco al salario europeo, ciò è dovuto principalmente al fatto che una parte della forza lavoro è obbligata ad accettare qualsiasi retribuzione perchè la propria permanenza è legata al rapporto salariale. Insomma, il limite politico posto all’immigrazione svolge la stessa funzione del lavoro coatto e delle riserve di sudafricana memoria. Se ci si dovesse basare sul piano delle forze “di mercato”, l’emigrazione di forza lavoro dalla periferia verso il centro dovrebbe provocare una pressione sui salari del centro compensata almeno in parte da un fenomeno opposto sui redditi da lavoro della periferia, fenomeno che avrebbe a sua volta una ripercussione positiva sui salari del centro attraverso una diminuzione dell’appetibilità della delocalizzazione.
Quest’ultima è evidentemente una semplificazione meccanicistica, ma è utile per mostrare che il contenimento politico del movimento della forza lavoro rappresenta sempre e comunque la preservazione dei dislivelli voluti e difesi dall’imperialismo, sia quando tale contenimento viene realizzato in toto (la situazione puramente teorica nella quale vengano respinti tutti i proletari allogeni in esubero) sia in quella ben più realistica in cui tali respingimenti siano limitati e selettivi e servano soprattutto come subdola forma di ricatto.
Mi sembra evidente che sia nostro dovere, oggi come sempre, astenerci dal metterci alla coda di rivendicazioni da parte di settori minoritari basate sul tentativo di schiacciare masse ipersfruttate al di là dei confini e di perpetuare il sogno di una aristocrazia operaia di massa di contro a un orizzonte di miseria imposto alle aree territoriali cui è stato assegnato il ruolo di pattumiera dell’economia mondiale, di recettore degli effetti più schifosi della crisi permanente del capitalismo: disoccupazione,bassi salari, industrializzazione limitata…
Lo stesso Lenin, nell’individuare i motivi del sostegno alle lotte di liberazione nazionale, segnalava la necessità di respingere il tentativo capitalista di frammentare le condizioni e gli obiettivi del proletariato mondiale (“un popolo che opprime gli altri può essere libero? No”); ribadisco: oggi, nel momento in cui la crisi esplode nei centri capitalistici dai quali si era voluta esportare, nel momento in cui l’illusione del benessere è minacciata anche nelle aree in cui tale prospettiva pareva a molti intangibile, nel momento in cui tale mutamento di prospettiva appare a strati sempre più vasti della popolazione come effetto strutturale del capitalismo… oggi più che mai bisogna combattere chi spiega l’impoverimento delle masse europee con cause quali la sovrabbondanza di braccia data da una immigrazione eccessiva rispetto ai limiti “naturali” del territorio: questi limiti di assorbimento non sono per nulla naturali, ma sono dati dall’incompatibilità fra capitalismo, sviluppo e prosperità generalizzata, e non c’è bisogno in questa sede di scendere nel dettaglio.
E’ quindi un errore madornale prendere in mano le armi della reazione per impedire che se ne servano forze fasciste: quelle armi sono fatte per colpire l’unità dei proletariato, indipendentemente da chi le impugni. La mobilitazione sciovinista è un segno dei tempi, e proprio per questo va respinta, non assecondata: se si ritiene che l’impoverimento generalizzato, portato specifico del capitalismo, provochi ineluttabilmente il caos di guerre interetniche e che la costruzione di un movimento proletario internazionale sia un sogno d’altri tempi, bisogna seriamente ripensare cosa vuol dire essere rivoluzionari e comunisti.