Riflessioni postume sulla sconfitta della Resistenza Irachena

Il nemico alle porte
Prima data spartiacque, 20 marzo 2003

 

Chi avesse assiduamente frequentato l’Iraq a ridosso dell’aggressione anglo-americana del 20 marzo del 2003, avrebbe avvertito finanche fisicamente la sensazione di un paese sotto assedio e mortalmente ferito da un decennio di crudeli sanzioni. Poi, ad uno sguardo più attento, avrebbe percepito quella di un paese profondamente spaccato, diviso tra due fronti ostili: gli avversari e i difensori del regime baathista, un regime ormai alle corde, segnato, sopravvivente grazie non solo alla sua ostinata tenacia, ma al suo pugno di ferro.

Solo dei ciechi  e dei sordi, oppure gli ultimi stolti accoliti del panarabismo, potevano negare: uno, che il fronte degli ostili era faceva cardine sulla maggioranza shiita e, due, che l’Iraq, dietro al velo del laicismo baathista, aveva subito un processo di profonda e capillare islamizzazione.
Processo di islamizzazione le cui scaturigini venivano da molto lontano ma che si era irrobustito nella devastante guerra con l’Iran, una guerra che il regime baathista, nel titanico sforzo di mobilitare pro domo sua la popolazione, poté condurre non solo alimentando l’atavico odio patriottico anti-persiano, ma trasfondendo quest’ultimo nel torrente in piena del risveglio dell’islam sunnita (risveglio che come Giano era bifronte: da una parte esso era antimperialista e antioccidentale, dall’altra salafita e dunque profondamente anti-shiita).

Che il paese fosse profondamente diviso, che nelle comunità shiite covasse un’ostilità irriducibile al regime di Saddam Hussein era chiaro da tempo, sin da quando, proseguendo sul solco tracciato dai domini ottomano e poi inglese, il Baath saddamizzato si appoggiò sull’élite e sui clan sunniti per fare dell’Iraq un paese moderno, per farne il nerbo del neonato Stato-nazione.
Che gli shiiti malsopportassero lo stato di minorità emerse in modo spaventoso nelle settimane immediatamente successive all’invasione del gennaio 1991, quando la gran parte di quelle comunità, sull’onda dell’avanzata delle truppe imperialiste, istigata dalle forze politiche filo-persiane,insorse nella speranza che fosse scoccata l’ora per liberarsi del “tiranno”. “Rivolta sporca” che fu repressa, sotto lo sguardo occhiuto degli invasori americani, in un bagno di sangue.
Non occorreva avere quindi una fervida fantasia per immaginare che l’invasione del marzo-aprile 2003 avrebbe innescato una dinamica simile di rivalsa. Una possibilità ben calcolata dagli invasori i quali, infatti, applicheranno una meticolosa campagna di de-baathificazione a favore dei notabili shiiti, non solo di quelli da tempo iscritti sul loro libro paga, ma pure dei movimenti al diretto servizio di Tehran come il Dawa o il Consiglio Supremo Islamico.
Né gli invasori avevano escluso, ove avessero incontrato insormontabili difficoltà a stabilizzare l’occupazione, di rinfocolare l’incancrenita ostilità politica tra le due comunità islamiche, ricorrendo, sull’esempio del Libano,  all’istigazione dello scontro fratricida inter-confessionale. Che è esattamente ciò che accadrà. Ma su questo torneremo più avanti.


La primavera gloriosa
Seconda data spartiacque, 4 aprile 2004

Ma un altro elemento non sarebbe sfuggito ad un attento osservatore che avesse frequentato l’Iraq: che l’occupazione avrebbe suscitato una tenace e, diciamolo, feroce Resistenza, di cui la comunità dei sunniti sarebbe stata il nerbo.
Così fu infatti. A poche settimane dallo sbandamento dell’esercito iracheno e della Guardia Repubblicana (speriamo un giorno sarà possibile sapere quanto pesò sul fallimento della difesa di Baghdad il tradimento di buona parte dello Stato maggiore baathista) la Resistenza entrò in azione, prima timidamente poi infliggendo le prime serie perdite agli occupanti. Fu un processo che in tempi fulminei prese una forma massiccia e si estese a vaste aree del paese, da sud a nord, da est a ovest, con Baghdad e la provincia di al-Anbar come epicentri.
Apparvero le prime sigle dei gruppi guerriglieri e subito fu chiaro che non si trattava solo e tanto di frazioni del vecchio partito Baath, ma di una serie di gruppi partigiani islamisti (come vedremo in buona parte salafiti), ancorati a potenti comunità tribali sunnite, ma anche formazioni nazionaliste di sinistra. Fu subito chiaro poi che il jihadismo, sotto la direzione di al-Zarkawi, stava mettendo velocemente piede grazie all’afflusso di centinaia di combattenti arabi subito apprezzati per la loro abilità tattica nel condurre una guerra di guerriglia essenzialmente urbana e in condizioni di schiacciante inferiorità di mezzi.

All’inizio del 2004, solo otto mesi dopo la caduta di Baghad, è già chiaro agli occupanti che la Resistenza è un fenomeno prorompente e dilagante, di fronte al quale, non senza prima ricorrere a mezzi di controinsurrezione spietati, scoprono di essere impreparati e indietreggiano, lasciando loro campo libero, in alcuni importanti quartieri di Baghdad e in buona parte dell’al-Anbar. Ramadi rappresentava in questo momento di slancio della Resistenza, il centro di irradiazione della guerriglia, mentre Falluja sembrava una città dormiente e pacificata. Invece fu qui che nell’aprile 2004 gli occupanti subirono una cocente sconfitta che li obbligò a ritirarsi lasciando la città in mano agli insorti.

Il 4 aprile fu una data simbolica straordinariamente importante. Mentre gli americani lanciavano la loro offensiva su Falluja contro i partigiani sunniti (Operation Vigilant Resolve), le milizie shiite del Jaish al-Mahdi facenti capo a Moqtada al-Sadr, scatenavano una furibonda offensiva contro le truppe occupanti, non solo a Baghdad, bensì a Najaf, Basra, Nasiriyah e altre città del paese, infliggendo pesanti perdite al nemico e costringendolo a ripiegare nei propri presidi. In tutto il paese la fiammata sembrava inarrestabile e appariva come un torrente in piena che univa entrambi le comunità contro il comune nemico e destinata a produrre promettenti frutti. Non fu così. La scintilla dell’unità interconfessionale venne presto spenta —e non certo a causa delle ingenti perdite subite in battaglia e delle crudeli ferite inferte dagli occupanti.

Sappiamo come, perché e da chi.
Come? Gli occupanti, in sodalizio con i fondamentalisti religiosi di entrambi i campi, affondarono la lama sulla ferita aperta del secolare conflitto intra-islamico tra sunna e shia. Rispondendo al perché? avremo la risposta al chi tramava contro l’unità antimperialista. La saldatura delle due Resistenze era una minaccia insopportabile, ovviamente per gli occupanti e per i loro lacché assetati di potere, poi per tutti i regimi dell’area (gli arabi intenzionati a contrastare l’egemonia iraniana in Iraq, i persiani decisi invece ad acquisirla), infine per gli stessi fondamentalisti religiosi iracheni di entrambi le confessioni che avrebbero con l’unità perduto forza e legittimità nelle loro comunità. Così l’esercito del Mahdi e Moqtada al-Sadr furono costretti a battere temporaneamente in ritirata sotto i duri colpi congiunti degli occupanti e delle milizie delle due principali forze shiite del Dawa e del Consiglio Supremo Islamico /ritirata auspicata anche dall’Iran, allora governato dal cosiddetto “blocco dei riformisti” di Katami e Rafsanjani.

D’altra parte la Resistenza sunnita (che dopo aver costretto gli americani e gli inglesi a ritirarsi da Falluja guadagnava terreno strappando il controllo  di vaste zone di Baghad come buona parte dell’al-Anbar, e dunque si rafforzava con la scesa in campo di nuovi gruppi guerriglieri), non seppe cogliere il momento propizio, non seppe gettare un ponte alla Resistenza degli shiiti del Mahdi, non approfittò dell’insurrezione di aprile per costruire quello che a noi parve l’arduo ma cruciale passaggio: la fondazione di un Fronte nazionale unito di liberazione.
Al contrario, come vedremo, la Resistenza sunnita, mostrando così i propri costitutivi limiti politici, non seppe unire nemmeno se stessa, rimase divisa, su linee di clan certo, ma anzitutto tra frazioni laiche e religiose, tra chi propugnava il puro e semplice ritorno al baathismo e chi propugna uno stato islamico, e tra gli islamisti tra jihadisti salafiti e il resto. In questa baraonda non era la politica che comandava il fucile, ma il contrario. Militarismo e salafismo finirono per prendere il sopravvento.

La guerra civile
Terza data spartiacque, il 22 febbraio 2006

La luce abbagliante dell’insurrezione dell’aprile del 2004 accecò non solo noi (togliendoci dalla vista le profonde linee di frattura sociali, religiose e politiche che da tempo segnavano l’Iraq), ma la stessa Resistenza sunnita la quale, caduta preda di una specie di autoreferenziale delirio di onnipotenza, ritenne di essere autosufficiente a se stessa.
Tre le patologie effettive che impedirono sia la saldatura con la guerriglia shiita che la fondazione di un Fronte di liberazione anche solo delle formazioni sunnite: il salafismo il militarismo e il clanismo. Tre patologie che non cadevano dal cielo, ma che erano il fardello e il lascito del lontano e recente passato.
Il salafismo montante era figlio dell’onda lunga dell’islamizzazione della società civile araba di cui s’è detto;  il militarismo parto di una società blindata, in perenne stato di guerra e d’assedio, segnata dal prolungato letargo politico, anzi dell’analfabetismo politico, da questa subito a causa dell’isolamento dal mondo e del soffocante regime tramontante del Baath. Il clanismo, o l’arcaico tessuto sociale tribale e familistico che fu il solo a tenere e funzionare come collante e salvagente sociale durante il devastante quindicennio di aspre sanzioni che mise in ginocchio il paese.

Davanti ai rovesci subiti, di fronte all’impossibilità di tenere in piedi le istituzioni fantoccio, gli americani decidevano dunque di passare al “Piano B”. Esso contemplava due fasi. La prima: lasciare che le due principali comunità del paese si azzannassero a vicenda fino allo sfinimento, facendo in modo che gli occupanti, che in un primo tempo si sarebbero tenuti alla larga, poi sarebbero intervenuti massicciamente presentandosi nella veste di Esercito della salvezza e della pacificazione. La seconda: spaccare il variopinto fronte resistente sunnita per aver ragione, prima degli agguerriti jihadisti, poi di tutta la Resistenza. Un piano diabolico che si rivelerà vincente.

Il destro agli americani per passare al “Piano B” veniva offerto loro su un piatto d’argento, dalla stessa piega che avevano preso gli avvenimenti. Più precisamente dagli errori e dai crimini compiuti dai salafiti più intransigenti, ferventi sostenitori di un islam puritano e wahabbita: precisamente dall’organizzazione di al-Zarkawi, Jama’at al-Tawid Wal-Jihad, ovvero al-Qaida in Iraq. Dal punto di vista dottrinario per questa corrente la shia è un’eresia nemica del vero islam e gli shiiti sono kafir, apostati, per certi versi più perniciosi dei miscredenti.
Dal punto di vista effettuale al-Qaida in Iraq non esitava a prendere di mira la comunità shiita, ricorrendo ad attacchi terroristici indiscriminati. La sequela di attentati iniziò presto: il 19 dicembre 2003 veniva compiuto un massacro a Najaf durante un funerale shiita. Nel marzo 2004 attacchi simultanei con shaid o kamikaze erano compiuti a Karbala durante l’ ashura, celebrazione sacra agli shiiti.

Nel vortice della guerra di liberazione questi attacchi sembrarono incidenti di percorso. Si riveleranno invece come i primi atti della guerra civile che verrà, visto che le milizie shiite renderanno la pariglia, e che si dispiegherà con tutta la sua virulenza nel 2006-07. E’ degna di nota l’iniziale indulgenza delle forze non jihadiste della Resistenza davanti ai primi attacchi di matrice settario-religiosa. Può aiutarci a dare una spiegazione il radicato e atavico odio nazionalistico anti-persiano, quindi la sciagurata idea che tutti gli shiiti fossero, alla fin fine, dei lacchè dei Tehran. Un’odio che non era solo viscerale o passionale ma che si condensava politicamente nella folle tesi (che nella comunità arabo-sunnita è più o meno senso comune) per cui l’Iran era per la patria irachena un nemico ancor più pericoloso degli Stati Uniti, anzi il nemico principale. Una tesi che ha impresso in fronte il suo marchio saddamita e che si rivelerà assolutamente catastrofica.

Affinché il “Piano B” o di seconda istanza avesse successo occorreva, da una parte che i jihadisti-takfiriti scatenassero sugli shiiti tutta la loro fanatica potenza, dall’altra che l’ala antiamericana dei combattenti shiiti, ovvero il Mhadi, decidessero a loro volta voltare i loro fucili, puntandoli sulle comunità sunnite. E’ esattamente quanto accadde. Indiscutibili sono dunque le sanguinose responsabilità dei qaedisti di al-Zarkawi e dei loro satelliti iracheni, così come del Mhadi e di altri gruppi radicali shiiti i quali si macchiarono di crimini non meno orrendi.

A partire all’incirca dalla fine del 2005 i seguaci di al-Zarkawi (contravvenendo agli avvisi in senso contrario di quello che si presume sia il teorico di al-Qaida, ovvero al-Zahawiri) stabiliscono un cambio strategico che si rivelerà disastroso. Prima gli attacchi alle comunità shite erano l’eccezione, dopo la norma, e questo in base al ragionamento per cui  il nemico principale da colpire non erano più le truppe occupanti, ma la comunità shiita in quanto tale, in quanto comunità di kafir, tanto più che, parole di al-Zarkawi, essa era il principale cardine su cui poggiava l’occupazione, demolito il quale sarebbe stata la fine per gli americani. Nessuna differenza a questo punto veniva fatta tra i lacché in divisa degli occupanti, normali dipendenti pubblici e milizie come quella del Mhadi. La shia andava annientata in quanto tale. Chiamiamo dunque takfirita questa strategia.
L’evento catastrofico che segnò il definitivo passaggio a questa strategia takfirita di annichilimento degli shiiti, fu l’abbattimento, il 22 febbraio 2006, della moschea di al-Askari a Samarra, tra le più sacre agli shiiti medesimi. Per quanto l’attacco non avesse provocato vittime esso, a causa della sua dirompente potenza simbolica, scatenò una rabbiosa risposta da parte delle milizie shiite, che improvvisamente e come per miracolo misero da parte i loro dissidi e si unirono nel dare la caccia non solo ai sospetti qaedisti, ma a tutti i sunniti in odore di sostenere la Resistenza, ovvero la grande maggioranza. La guerra civile, da latente, diventa d’ora in avanti dispiegata. La pulizia comunitaria dilaga, i quartieri misti scompaiono, migliaia di cittadini vengono rapiti e i loro corpi mutilati gettati nel Tigri, Baghdad conosce l’erezione di muri e di cavalli di Frisia a dividere una comunità dall’altra. Ed è qui che i mercenari americani entrano in gioco come finti paceri, come forze di interposizione o di peace-keeping e possono uscire dai loro covi, ristabilire chek-point, riprendere il controllo delle strade e dei crocicchi, qui accanto a miliziani shiiti, a duecento metri di distanza a spalleggiare quelli sunniti.

A partire dalla primavera del 2006 abbiamo dunque avuto una duplice guerra, una guerra nella guerra, il devastante conflitto tra le due principali comunità religiose che si consumava accanto alla Resistenza contro gli occupanti.
Avremo anzi che la guerra civile prenderà il sopravvento sulla guerra di liberazione causando, con gioia degli occupanti ormai impaludati, la paventata libanizzazione del conflitto, provocando quindi una “pulizia comunitaria bilaterale”, una frattura su linee confessionali della nazione. Una tragedia senza precedenti nella storia dell’Iraq.

La battaglia contro i jihadisti e la spaccatura della Resistenza
Quarta data spartiacque, il settembre 2006

La strategia takfirita, per quanto immediatamente contestata dal grosso delle formazioni resistenti nonché dai clan sunniti schierati con la Resistenza, determinerà quindi un cambio decisivo nella guerra. Ad un certo punto i qaedisti, che nel frattempo si erano decisamente rafforzati (è del gennaio 2006 la costituzione del Mujahideen Shura, il blocco tra i qaedisti e cinque organizzazioni guerrigliere irachene) riuscirono a dettare il ritmo delle danze, spingendo le altre formazioni resistenti che non accettavano questo spostamento del bersaglio, a  rompere definitivamente ogni alleanza con essi. Per nulla impensieriti da questa frattura, accentuando il loro estremo settarismo, i qaedisti, si era nell’ottobre del 2006, proclamarono, nelle vaste aree sotto il loro controllo, la fondazione dello Stato Islamico dell’Iraq, che nell’aprile successivo si autonominò vero e proprio Emirato Islamico, con tanto di governo provvisorio, primo ministro e ministeri.

Ed è attraverso questa fessura che si insinueranno gli americani, passando alla seconda fase del “Piano B”.
C’è un detto in Pakistan: “Non puoi comprare un pashtun, però puoi affittarlo”. A questa massima sembrano essersi ispirati gli americani quando, dopo le sonore legnate subite nel triennio 2004-2006, decisero di agganciare su larga scala i clan sunniti col motivo di isolare e dare la caccia ai qaedisti e ai loro alleati in Iraq. Era l’ammissione di una sconfitta e di un radicale e diabolico cambio di tattica.
C’erano stati alcuni precedenti a indicare lo scontro tra jihadisti e comunità sunnite ad essi ostili. Nell’autunno del 2005 la tribù Abu Mahals dedita al contrabbando ai confini con la Siria, entrata in contrasto con un clan alleato ai jihadisti, accetto le armi e l’assistenza degli americani per cacciare la tribù avversaria. Nell’ottobre del 2005, nell’al-Anbar alcuni sceicchi sunniti decidono di partecipare al Referendum costituzionale per esprimere un secco No. Ciò fu considerato dai qaedisti come un vergognoso cedimento agli occupanti, ben presto si passò alle vie di fatto e in alcune zone gli scontri armati produssero diversi morti. Notizie che si perse nel vortice del conflitto e a cui pochi fecero caso. Si trattava invece di una sinistra anticipazione degli eventi. Era solo l’inizio.

Quello dell’aggressione sistematica alla comunità shiita era infatti solo un lato della prassi paranoica dei qaedisti, l’altro essendo una rigida applicazione della sharia nelle zone da essi controllate o semi-controllate, l’imposizione ultimativa delle proprie direttive sociali e politiche e militari, pena severe misure repressive che giungevano fino all’eliminazione fisica degli oppositori. Una simile prassi settaria non era solo malvista dalla popolazione sunnita (ben distante per tradizioni al salafismo puritano), significava anche demolire la tradizionale gerarchia sociale incarnata nei clan e, di conseguenza, minare la fonte di legittimità dei capi tribù e quindi l’autorità dei potenti sceicchi locali. Una prassi, quest’ultima, giustificata in nome del puro Islam, dove la fonte di legittimità del comando viene a dipendere non dalla tradizionale gerarchia sociale, ma dal ruolo svolto nel jihad. Una prassi sovvertitrice delle gerarchie e del vecchio tessuto sociale di origine beduina la quale, assieme a quella di sterminio ai danni degli shiiti, dopo latenti dissidi sfociò dunque nella guerra aperta tra popolazioni locali e i jihadisti.

Gli scontri tra jihadisti-takfiriti e il grosso delle milizie sunnite facenti capo agli sceicchi locali e all’Esercito Islamico dell’Iraq, cresceranno di intensità fino alla definitiva espulsione dei qaedisti da Ramadi, Falluja e tutto l’al-Anbar, cacciata completata sul finire del 2006.
Quando nel settembre trenta tribù dell’al-Anbar (prima di tutto i Dulaim) formano il Consiglio di Salvezza dell’al-Anbar, altrimenti noto come Consiglio del Risveglio, è già noto che l’appoggio logistico, militare e finanziario degli americani alla lotta armata contro il blocco dei jihadisti, ha avuto un ruolo preponderante. Questo aperto sostegno degli americani si materalizzerà poco dopo col diretto stipendiamento di circa 100mila guerriglieri sunniti, a fare premio della loro sistematica espulsione dei jihadisti-takfiriti dall’al-Anbar.

Da questo momento (fine del 2006)  il grosso della Resistenza sunnita irachena subisce un veloce processo di degenerazione e di corruzione: da forza di combattimento contro gli occupanti diventa una specie di forza ad essi ausiliaria, di complemento. E’ questo passaggio armi e bagagli con gli occupanti che è stato eufemisticamente chiamato, con aggettivo certo non neutrale, Sahwa, o Risveglio.
I gruppi guerriglieri che pur avendo osteggiato e poi combattuto il takfirismo non intendono cessare la lotta contro gli occupanti vengono isolati, spesso anch’essi vittime di delazione da parte dei vecchi compagni e subiscono una fase di sbandamento e di disgregazione. L’area politico-militare che più di tutte paga lo scotto del salto della quaglia promosso dal Sahwa e dai suoi tanto cari sceicchi è proprio quella baathista facente capo a Izzat Ibrahim al-Douri: numerosi gruppi armati filo-baathisti, dopo essere stati determinanti nel contrastare il takfirismo, mollano infatti al-Douri e passano con il Sahwa.

Tra le formazioni guerrigliere sunnite che non si associarono al Consiglio del Risveglio e si rifiutarono di passare nel libro paga degli americani, che sopravvissero al processo di dispersione e spappolamento della Resistenza vanno segnalati i piccoli gruppi della sinistra rivoluzionaria (ad esempio Resistenza Rivoluzionaria Armata Irachena – RRAI), le frazioni collegate all’Opposizione Patriottica di Jabbar al-Kubaysi ed infine, malgrado le defezioni, organizzazioni ben più consistenti come la nazionalista Brigate della Rivoluzione del 1920, Hamas in Iraq (da non confondere con l’Hamas palestinese) o l’Esercito di Maometto. Ma questi segnali di reazione (tra i quali va segnalata la costituzione, nell’ottobre del 2007 e sotto la guida di al-Douri, del Comando Supremo per il Jihad e la Liberazione) è evidente che il tratto dominante è il cedimento, la crisi della Resistenza, che entra in una fase difficilissima di ripiegamento e ritirata. Il 2007 chiude quindi il ciclo dei  quattro anni eroici apertosi nel 2003.

Respinti dall’estate del 2006 dall’al-Anbar i jihadisti-takfiriti, nonostante i durissimi colpi ricevuti, ripiegarono su Baghdad e verso nord, a Mosul e Kirkuk. Qui accrebbero la loro potenza distruttiva e non esitarono a scagliarsi, con odioso settarismo. contro ogni gruppo della Resistenza che pur continuando a combattere contro gli occupanti non accettava le loro direttive sociali, politiche e militari. Tra il giugno e l’autunno del 2007  lo scontro ha Baghdad come epicentro, e vede i qaedisti oramai isolati e in aperta ritirata, avversati da tutti: dagli americani, dal Sahwa, dalle forze del governo fantoccio, dalle milizie shiite, dagli irriducibili gruppi della Resistenza.

La propaganda americana tende a spiegare la vittoria sulla Resistenza sunnita grazie alla cosiddetta svolta strategica del “Surge”, ovvero la decisione di Bush, annunciata nel gennaio 2007, di inviare in Iraq altre decine di migliaia di soldati. Falso! La vittoria la devono anzitutto alla Sahwa o Risveglio, ovvero al passaggio dalla loro parte della gran parte della guerriglia sunnita, che da Resistenza divenne, col motivo di isolare e combattere il jihadismo-takfirita, soldataglia ascara degli occupanti. Un esito inatteso quanto inglorioso.

Una sconfitta tragica che, fatti salvi numerosi fattori certo non meno importanti (isolamento internazionale, disparità di potenza di fuoco, natura e morfologia sfavorevole del terreno, assenza di fondi per finanziare la guerra, ecc.), sono dipese dalle cause che abbiamo più sopra spiegato.
La Resistenza irachena ha pagato dunque a carissimo prezzo il lascito della storia antica a recente, anzitutto la propria islamizzazione, che si è rivelata alla fine un’infezione letale che non solo ha impedito ogni affratellamento e  unità  in un movimento di liberazione nazionale, ma ha sprofondato il paese, per la gioia degli occupanti, nello scontro fratricida tra sunna e shia. Da questo punto di vista l’esito della tragedia irachena mette la parola fine al jihadismo-takfirita e obbliga l’islam politico antimperialista a ripensare se stesso, la sua strategia globale, il discorso delle alleanze. Una lezione che è un monito a tutte le resistenze operanti e future, e che pare l’abbiano già compresa.
Ha poi pagato a caro prezzo il tradimento ordito alle sue spalle dalla sinistra internazionale, cosiddetti comunisti in primis, che si sono ben guardati dal sostenerla davvero.
Ha pagato a caro prezzo l’eredità politica del saddamismo: il nazionalismo panarabista esasperato quanto demagogico, l’irriducibile e accecante odio anti-persiano, il populismo in salsa kemalista (il tutto fatta salva la maniera onorevole con cui  Saddam Hussein è andato incontro ai suoi aguzzini).
Ha pagato infine il suo primitivismo politico, la sua ossessione militaristica per cui il fucile comandava la politica e non viceversa. Per dirla tutta: la lotta di liberazione nazionale è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari.

Ma gli americani e i loro satrapi sappiano che se hanno preso in affitto la Resistenza, essi non l’hanno per questo comperata. Il futuro riserverà loro amarissime sorprese. Se è vero che l’Iraq ha fatto un salto nel buio accettando la tutela degli americani, questi ultimi sappiano che non sarà facile conservarla, poiché la storia non è affatto finita.