Il 4 novembre 2008 Barack Obama veniva eletto presidente degli Usa. Un’isteria collettiva, quasi fosse arrivato un laico “Messia”, percorse gli Stati Uniti approdando fin da subito nella smarrita Europa. Da destra a sinistra si saltò subito sul cavallo vincente, colui che poteva ridare credibilità all’impero americano ed ai destini dell’occidente sprofondato in una crisi non soltanto economica.
Dicemmo subito (vedi Altro che “Altra America”) che la missione affidata ad Obama dall’establishment statunitense era quella di riprendere in mano la gestione dell’impero, passando una spessa mano di vernice sugli 8 anni della presidenza Bush e sui suoi fallimenti.

Ad un anno di distanza è tempo di bilanci, ed i quotidiani del 4 novembre scorso hanno dedicato un grande spazio a questo anniversario. I commenti sono stati in genere prudenti, e sintetizzati in qualche modo dal titolo del Sole 24 ore: «Mr. President, un anno da sei e mezzo». Com’era facilmente prevedibile l’entusiasmo è svanito, ma Obama resta ad un tempo l’uomo delle classi dominanti delle due sponde dell’Atlantico e quello a cui affida le sue speranze una sinistra europea sempre più esangue quanto più filo-americana.
Ci soffermiamo perciò su due articoli piuttosto significativi usciti nell’occasione: quello di Sergio Romano sul Corriere della Sera e quello di Marco d’Eramo sul Manifesto.

Sergio Romano affronta la questione con il suo solito stile asciutto ed essenziale, soffermandosi in particolare sulla politica estera per metterne in luce principalmente le difficoltà: «Gli americani abbandoneranno l’Iraq, ma resteranno verosimilmente in alcune basi e dovranno vivere con un regime traballante, continuamente insidiato da una strisciante guerra civile. In Afghanistan Obama è nelle stesse condizioni in cui fu il presidente Lyndon Johnson nel 1966 quando i soldati americani in Vietnam erano 200.000 e il generale Westmoreland chiedeva rinforzi: un ricordo che domina come un incubo le sue riflessioni. In Pakistan, dove il governo ha risposto alle sollecitazioni della Casa Bianca cercando di sloggiare i talebani dalle sue regioni occidentali, è scoppiata una ennesima guerra asimmetrica. Le truppe vincono bombardando il proprio Paese, ma i talebani colpiscono con i loro attentati le retrovie urbane delle forze combattenti. In Palestina la macchina dei negoziati di pace è continuamente inceppata dal rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti coloniali nei territori occupati».
Romano attenua un po’ questo quadro fosco ricordando il miglioramento dei rapporti con la Russia, l’apertura di un negoziato con l’Iran, il nuovo clima nei rapporti con l’America Latina. Ma sembra farlo più che altro per dovere d’ufficio. L’articolista non lo dice, ma in realtà i rapporti con il Cremlino sono sempre sul filo, ed il rilancio del progetto dello «scudo antimissile», di cui poco si parla, non potrà certo migliorarli. Con l’Iran non ci sono vere novità, ma solo la classica alternanza di bastone e carota dentro un quadro complessivo che tende all’escalation. In quanto all’America Latina l’apertura delle nuovi basi in Colombia non è stata certo accolta come un segno di multipolarismo.
La conclusione di Romano, al di là delle sue lamentele su un’Europa senza idee, è che gli Stati Uniti devono ancora decidere quale sarà il loro ruolo nel XXI secolo. A suo avviso, «Forse dovremmo giungere alla conclusione che la vera crisi dell’America, in questo momento, non è economico finanziaria ma identitaria».

Diverso l’approccio di d’Eramo, che dopo aver premesso che «Un anno è un periodo troppo breve per tracciare il bilancio di una presidenza», dedica molto spazio alla dimensione simbolica come terreno decisivo sul quale misurare i successi di Obama.
D’Eramo ricorda la novità di un presidente afroamericano, l’annuncio della chiusura di Guantanamo, il discorso del Cairo rivolto all’Islam, la reintroduzione del multilateralismo nelle relazioni internazionali. Novità che secondo l’autore gli avrebbero meritato il Nobel per la pace.
Nell’ultima parte dell’articolo d’Eramo è però costretto a riconoscere «che in gran parte della politica estera la svolta è rimasta più simbolica che reale».
Ora – per rimanere agli esempi citati dall’articolista del Manifesto – sappiamo tutti che su Guantanamo c’è stato sì l’annuncio ma non certo la chiusura, che il discorso del Cairo era infarcito di menzogne (vedi il nostro articolo del giugno scorso) e che comunque la politica Usa verso il Medio Oriente non è certo cambiata, che il “multipolarismo” formale di Obama è la maschera dietro cui gli Stati Uniti continuano a perseguire il loro disegno egemonico. Tutto ciò è noto, ma la sinistra europea deve continuare ad alimentare illusioni. Ed allora la causa del continuismo obamiano viene individuata da d’Eramo nell’incapacità di andare allo scontro con i repubblicani e con i settori più retrogradi della politica e della società statunitense.
Un alibi un po’ troppo comodo, ma un alibi necessario per continuare a tifare per un imperatore “buono” nonostante le critiche che ormai anche gli obamiani della prim’ora sono costretti a rivolgergli.

D’Eramo è tra questi e deve esplicitare rilievi di non poco conto, sempre però concedendogli notevoli attenuanti:
«Obama e i suoi consiglieri sono rimasti prigionieri dell’idea liberista che per far ripartire l’economia, bisogna finanziare i ricchi e sgravare i miliardari: da qui la rabbia di tanta sinistra Usa che si è sentita tradita dalla munificenza con cui la presidenza Obama ha ricoperto d’oro le banche mentre ha solo tamponato il disagio sociale: ma senza il pacchetto obamiano, metà degli insegnanti Usa sarebbero per strada».

«Una qualche riforma sanitaria vedrà probabilmente la luce, ma a prezzo di una formulazione che tutti prevedono abborracciata e costosa: anche qui si tratta di vedere se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto».

«Anche sul tema dell’immigrazione Obama paga lo scotto del piede in due staffe, per cui non riesce a portare avanti la regolarizzazione dei clandestini, mentre deve rassicurare le frange xenofobe dell’elettorato punendo gli imprenditori che assumono immigrati in nero».

Barcamenandosi in mezzo a tanti «vorrebbe ma non può», d’Eramo è costretto ad un’ammissione postuma, impronunciabile all’epoca dei fatti: «D’altronde solo un errore prospettico aveva permesso di non cogliere il vistoso appoggio di Wall Street alla candidatura di Obama».
Eh già, un «errore prospettico»! Bella definizione per questa interessata omissione di una “sinistra” alla quale non è rimasto altro che tifare e sperare nell’imperatore “buono”.

Il succo del ragionamento del commentatore del Manifesto è condensato nella conclusione dell’articolo, che è utile citare nella sua interezza, dato che il nuovo approccio realista (un anno non è passato invano) gli serve solo per rinnovare il sostegno ad Obama, imperatore “buono” alla guida di un capitalismo altrettanto “buono”.
Scrive infatti d’Eramo: «L’unico equivoco definitivamente chiarito è quello in cui era caduta la sinistra mondiale che aveva investito Obama di attese messianiche, addirittura rivoluzionarie, quasi che gli Usa avessero eletto un presidente antiamericano, una sorta di Gorbaciov statunitense che distruggesse dall’interno il suo impero. Ma a differenza che in Urss, negli Usa un siffatto leader verrebbe cancellato subito, con uno scandalo o una pallottola. E in realtà lo scopo più volte dichiarato di Obama è di rafforzare la potenza Usa, di fare in modo che anche il XXI sia un «secolo americano». Solo che aspira a «un impero del bene», crede sinceramente che il modello americano possa portare pace e prosperità al mondo. Ambisce a essere il leader del capitalismo buono. Più di questo non gli si può, anzi è sbagliato chiedere, ed è già tanto se riuscirà a realizzare almeno una parte del suo progetto».

Gli articoli citati sono interessanti per diversi motivi. Entrambi ci dicono che l’ubriacatura obamiana è finita, anche se a sinistra i fumi dell’alcool tendono ancora a ristagnare. Entrambi ci consegnano un quadro dominato dalla massima incertezza su tutti fronti. Al di là delle differenze politiche dei due autori, Romano si concentra sui nodi strategici irrisolti della politica imperiale di Washington, mentre d’Eramo tende a metterli sullo stesso piano delle questioni interne e delle scelte di politica economica.
Ma l’aspetto più interessante è che per due vie così diverse sia Romano che d’Eramo vanno a parare sull’aspetto ideologico, su che cosa sarà (e su come si presenterà) l’America del XXI secolo. Romano vede un’America ancora incerta tra la visione del mondo dei neocons e quella obamiana, ed i risultati delle elezioni in New Jersey ed in Virginia – che proprio il 4 novembre scorso hanno visto il successo dei candidati repubblicani – sembrano essere il segno di una partita tutt’altro che chiusa. D’Eramo insiste invece sull’aspirazione sincera (sic!) ad un «impero del bene» e tanto gli basta.

Ma gli «imperi del bene» sono quelli che vincono. Quello americano si concepì come rivale dell’«impero del male» sovietico (questa fu la definizione del periodo reaganiano) durante la guerra fredda. Poi con George W. Bush arrivò la guerra di civiltà. La sua politica incontrò troppe sconfitte e dal cilindro spuntò Obama, il presidente nero.
L’idea di un «impero buono» non è certo migliore, né meno ideologica, di quella di un impero semplicemente forte. Sicuramente questa idea sosterrà i nuovi impegni militari, dall’escalation in Afghanistan, al Pakistan, all’Iran. Solo se sarà vincente su quei fronti così centrali nella geopolitica americana l’obamismo potrà stabilizzarsi. In caso contrario riemergeranno in qualche modo le tendenze incarnate fino ad un anno fa dai neocons.

L’unica cosa certa è che gli USA non rinunceranno in nessun caso alla loro condizione di dominanti. Per non perderla sono disposti a tutto: dalle verniciature “buoniste” alla legalizzazione della tortura, dalle panzane pacifiste all’uso dell’atomica, dalla propaganda sui diritti umani alle esecuzioni mirate, dagli accordi temporanei alla preparazione di un nuovo conflitto mondiale.
La politica di Obama può essere letta correttamente solo in questo contesto. I popoli di buona parte del mondo lo sanno già senza bisogno di analisi troppo sottili, mentre l’opinione pubblica occidentale appare ancora narcotizzata dai media e dal consumismo.

Ma il tempo non passa invano, ed a volte è davvero galantuomo. Ed è ragionevole pensare che i conti della politica obamiana risulteranno assai più chiari nei prossimi mesi, senza dover aspettare il secondo anniversario del 4 novembre 2010.