Raggiunto l’accordo per formare il governo di unità nazionale
A quattro mesi dalle elezioni del giugno scorso (nonostante l’alleanza capeggiata da Hezbollah avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei voti la vittoria in seggi andò alla alleanza filo-occidentale) sembra imminente a Beirut l’annuncio ufficiale della nascita del nuovo governo di “unità nazionale”. Che sarebbe stato di “unità nazionale” non c’erano dubbi. Lo prevedevano gli “Accordi di Doha” sottoscritti il 21 maggio 2008, dopo diciotto mesi di acutissima crisi culminati negli scontri del 7 maggio 2008, quando le milizie del blocco filo-occidentale capeggiato da Saad Hariri subirono una fulminea e sonora lezione da parte di Hezbollah.
Gli “Accordi di Doha”, sottoscritti dai due contrapposti blocchi politici libanesi (quello del 14 marzo, sostenuto dagli imperialisti e dai loro lacché arabi, e quello dell’8 marzo sostenuto da Siria e Iran), che non contemplavano il disarmo della Resistenza nazionale guidata da Hezbollah, in barba alle clausole formali anti-settarie, riconfermavano l’assetto confessionale delle istituzioni e del sistema elettorale libanesi, e stabilirono che il governo sarebbe stato composto da 30 ministeri: 16 alla eventuale maggioranza, 11 alla minoranza mentre 3 li avrebbe designati il presidente della repubblica.
Ma proprio questa ripartizione ha impedito ogni accordo e paralizzato le istituzioni libanesi negli ultimi 4 mesi. Dopo snervanti negoziati lo schema è stato infatti ritoccato e modificato come segue: 15 ministeri alla maggioranza, 10 all’opposizione e 5 conferiti al presidente, nella formula calcistica 15-10-5, che de facto impedisce ad entrambi gli schieramenti la maggioranza assoluta e/o potere di veto, mentre assicura al presidente il ruolo di ago della bilancia.
Tuttavia, come già segnalato, l’accordo su questo schema era già stato raggiunto da tempo. Come mai la crisi si è trascinata tanto a lungo? Non solo perché il primo ministro in pectore, Saad Hariri voleva arrogarsi la facoltà di scegliere lui i ministri, anche nel campo avversario, più precisamente perché Hariri non voleva affidare ai suoi avversari il ministero delle telecomunicazioni —ministero delicatissimo visto che in un paese che è al centro delle ossessive attenzioni belliche e spionistiche degli occidentali e di Israele, da questa postazione è possibile smascherare le reti di spionaggio, snidare lo sciame di agenti segreti, e prevenire le trame eversive. Alla fine questo ministero è stato si assegnato al blocco del “4 marzo”, ma ad un cristiano vicino a Michel Aoun.
La vera ragione dell’impasse, il pomo della discordia, restano quelli della forza armata della Resistenza, anzitutto di Hezbollah. Il blocco filo-occidentale suona da tempo lo stesso spartito: in nome della sicurezza e della sovranità dello stato, Hezbollah dovrebbe deporre le armi e smobilitare il suo esercito, proprio quello che nell’estate del 2006 inflisse un colpo micidiale agli invasori sionisti). Richiesta ovviamente, e per fortuna aggiungiamo noi, ritenuta irricevibile, non solo da Hezbollah, ma all’unanimità dal resto dei 35 movimenti, grandi e piccoli, le sinistre comprese, che compongono il blocco dell’8 marzo.
Questa dirimente questione, per la verità, non è stata rimossa, ma solo rimandata, consegnata al cosiddetto tavolo del “Dialogo nazionale” che verrà riattivato quanto prima. Ciò significa che l’accordo raggiunto per formare il governo non pone fine al dissidio, poiché questo resta, e non solo sullo sfondo, irrisolvibile.
La ragione per cui la questione è dirimente è presto detta: la situazione in Medio Oriente resta in bilico tra pace e guerra. Un nuovo conflitto, forse più devastante dei precedenti, è nell’ordine delle cose. Dunque, solo chi detiene una consistente forza armata, sia esso Stato o movimento di Resistenza, ha peso politico e una speranza di non soccombere all’avversario. Proprio l’altro ieri, 8 novembre, Sayyed Fadlallah, uno dei maggiori dirigenti di Hezbollah, ha così descritto l’atmosfera che si respira in Medio Oriente: “ Tutti in questa regione si stanno preparando alla guerra, anche se a parole, nei convegni, parlano di pace. (…) L’amministrazione di Obama prevede l’escalation militare, non differisce da quella precedente, fatta eccezione per i metodi con cui ci si prepara”. (The Daily Star del 9 novembre).