Intervista a Juliano Mer – Khamis, fondatore del Teatro della Libertà di Jenin, realizzata lo scorso ottobre a Graz, in Austria, da Bjarne Köhler, per il n. 30 di “Intifada”, periodico del Campo antimperialista a cura della sua sezione austriaca.

 

Juliano Mer-Khamis è nato nel 1958 a Nazareth, da un matrimonio misto. Suo padre, arabo, e sua madre, ebrea, erano attivisti politici. Sua madre, Arna Mer, era una notissima attivista politica. Il suo ruolo nel teatro dei bambini del campo profughi di Jenin è il soggetto del film di Juliano “I bambini di Arna”.

 

Suo padre, Saliba Khamis, era un importante esponente arabo del Partito Comunista Israeliano negli anni ’50 e ’60. Entrambi i suoi genitori lasciarono il partito nel 1968, a causa del suo rifiuto della proposta di un unico stato laico democratico su tutta la Palestina, proposta avanzata dal nuovo movimento di liberazione palestinese. Essi parteciparono alla lotta politica dei palestinesi.


La carriera di Juliano come attore ebbe inizio nella televisione e nel teatro israeliani. Egli ottenne il suo primo ruolo cinematografico nel film americano “The Little Drummer Girl” di G.R. Hill. Il suo lavoro più famoso è il documentario “I bambini di Arna”, che narra le attività di sua madre durante la prima Intifada (1987 – 1993) nel teatro dei bambini del campo profughi di Jenin, per volgersi poi ai combattimenti che si svolsero nel campo nel 2002. La realtà del campo ha trasformato i principali personaggi del teatro dei bambini nei principali protagonisti della resistenza contro l’occupazione israeliana. Zakaria Zubaide, leader delle Brigate al Aqsa, è il protagonista in entrambi gli episodi.


Quando “I bambini di Arna” fu diffuso, suscitò un’ondata di sostegno internazionale, permettendo a Juliano di riavviare il progetto del teatro a Jenin. Nel 2006 egli ha aperto il Teatro della Libertà di Jenin insieme agli attivisti israeliani Jonatan Stanczak e Dror Feiler.
Durante il programma culturale annuale “Salam Orient”, il Teatro della Libertà si è esibito in Austria, lo scorso ottobre. Intifada ha incontrato Juliano Mer-Khamis prima dello spettacolo al Grazer Orpheum.


D: Nel 2006 tu hai fondato il teatro della Libertà a Jenin. Quali sono stati il principale obiettivo e l’idea generale di tale progetto?
R: Il teatro per me è una fabbrica di idee, aporie, argomenti, conflitti, pensiero critico, ricostruzione della tua identità o riscrittura dei tuoi racconti, è inventare te stesso come artista, come essere umano, come nazione, come cittadino di un’area che è stata distrutta dagli israeliani dopo sette anni di invasioni, coprifuoco e assedi. Io penso che Israele è giunto a demolire la struttura culturale del popolo palestinese e noi stiamo cercando, almeno a Jenin, di ricostruirla. Per cultura io intendo non solo musica o teatro, ma cultura come strumento sociale e politico per generare solidarietà, reciprocità, cooperazione; tutto questo è cultura per me, non solo Tchaikovsky: essa è la struttura sociale più delicata di un popolo.

D: Tu lavori con i bambini da più di 15 anni. Puoi descriverci come l’occupazione israeliana colpisca la loro crescita?
R: Io posso parlare solo relativamente al campo profughi di Jenin. Nel campo il 58% della popolazione, cioè circa 8.500 persone, ha un’età inferiore ai 18 anni. Circa 3.000 di esse sono state in analisi in quanto affetti da sindrome post traumatica da stress. Io veramente dico sempre che la sindrome non è post traumatica, ma da trauma in corso. E trauma non vuol dire che il bambino vede una disgrazia e poi sogna di essa, questo è un problema facile.
Perché trauma in corso, nella situazione di Jenin, significa persone che perdono la loro ragion d’essere come esseri umani. Ragion d’essere che significa la tua capacità di muoverti nello spazio e nel tempo. Sapere da dove vieni e dove sei diretto. Muoverti nella sicurezza della tua esistenza. Questa corazza che voi, in quanto creature occidentali, avete per scontata, noi non l’abbiamo. Per noi la morte è come per voi la vita, qualcosa che affrontiamo quotidianamente. E questo non è normale, soprattutto per i bambini. Bambini che tutti i giorni si confrontano con la morte stanno diventando morti che camminano. Persone che non hanno alcun tipo di sicurezza, alcuna fiducia in se stessi, nella loro stessa esistenza. Non hanno alcuna cognizione del tempo, il che significa che non hanno futuro. Io li chiamo morti che camminano. Da questi morti che camminano viene fuori il fenomeno del suicidio. Dietro gli attacchi suicidi, che sono il risultato di questa devastazione del sistema nervoso causata dall’occupazione, ci sono bambini che balbettano, che non possono parlare, che sbattono forte gli occhi, che non sono capaci di concentrarsi. Tutti i loro rapporti con  ciò che li circonda sono violenti: con i loro genitori, con i loro amici, con i loro insegnanti…. è tutto violento, perché non c’è niente altro. Tutto ciò che hanno potuto interiorizzare durante gli anni è la violenza dell’occupazione e la violenza è divenuta il loro unico mezzo di comunicare con la loro stessa società, con il loro contesto. Attraverso la violenza.

D: Il lavoro teatrale è riuscito a superare questi problemi?
R: Questo genere di cose sono sempre piccole e lente, perchè affronti una distruzione totale. E’ un piccolo teatro e un piccolo campo profughi… è una goccia nel mare, ma è pur sempre una goccia. Crediamo e speriamo sempre che, se ognuno farà cadere la sua goccia, ci sarà un’ondata, se Allah vuole! Ma è molto difficile stabilire l’evoluzione di questo tipo di progetto e vedere un progresso lineare, perché ci sono anche sbalzi.
C’è una stagnazione della nostra società. Noi abbiamo sviluppato la mentalità del ghetto, il sentimento xenofobico, il ritorno alla tradizione, ai rapporti tribali perché la struttura sociale è stata distrutta. In Palestina siamo tornati ad un’epoca feudale. Israele è riuscito a rimandarci indietro di cento anni. Siamo tornati sul somaro, mentalmente e psicologicamente, ad una situazione molto primitiva, dove le donne portano la maggior parte del carico. La condizione femminile è un indicatore del ristagno della nostra società.
Alle donne non è consentito uscire. Il motivo è che è pericoloso, esse sono deboli, possono essere ammazzate o rapite soprattutto di notte, perché la notte in Palestina è la morte. E le donne non possono fare le attrici. Non è bello per una donna stare sul palco, mostrare se stessa, stare a contatto con gli altri attori o danzare. Non è accettabile per l’Islam, per la tradizione. Ecco: da noi quattro anni fa è arrivata una donna, e ora abbiamo più donne che uomini. Questo è un indicatore. Nessuno lo avrebbe potuto prevedere, ma improvvisamente abbiamo un po’ di donne, improvvisamente le persone che rifiutavano il teatro ora lo accettano, improvvisamente siamo in tour e viaggiamo per il mondo. Immagina! Questi ragazzi non hanno mai lasciato il campo. E’ la prima volta che vedono un treno. Guarda Feisal, uno degli attori! Ha vent’anni e per la prima volta è uscito dal campo.

D: Oltre al teatro, come descriveresti lo spirito della popolazione di Jenin in questo momento? Ci sarà una nuova Intifada nel prossimo futuro?
R: Buona domanda! Io penso che non c’è più alcuno spirito. Stiamo cercando di far tornare lo spirito, ma sai bene che questa è una nazione distrutta, sicchè la maggior parte di noi sta cercando di ricostruire le cose basilari della vita: abitazione, elettricità, acqua, scuole. Non c’è molto spazio per lo spirito. Lo spirito è ancora  sepolto sotto le macerie, macerie di edifici ma anche macerie dell’anima. Però sta tornando. Sta tornando lentamente.
Ma anche se tornerà, esso è costretto fra recinzioni elettrificate e muri di cemento. Sicchè qualunque cosa accada un giorno, non so quando, cercheremo di uscire di nuovo da questa prigione. Logicamente ritengo che affronteremo una nuova Intifada fra pochi anni. Il popolo non vorrà sottostare alle condizioni di apartheid imposte da Israele. Si ribelleranno. Speriamo che i nostri bambini e la nostra gioventù si rivolteranno con i mezzi che il Teatro della Libertà sta fornendo. Spero che essi sparino con le telecamere e non con le pistole, che usino i valori della libertà contro i carri armati israeliani. Può accadere. Io appaio un po’ ingenuo, ma  è stato così negli anni ’90. Un bambino con una pietra ha combattuto con uno dei più grandi e sofisticati carri armati dell’occidente, il carro armato israeliano. Sicchè è possibile, non è un mio sogno ingenuo. Si può vincere contro il peggior nemico anche a mani nude.

D: Quale è il tuo punto di vista per risolvere il conflitto in Medio Oriente? La soluzione di un unico stato o quella di due stati?
R: Io non sostengo alcuno stato. Io sostengo solo le persone che vivono insieme. In che non mi interessa molto. L’essenza del vivere insieme – si chiami due stati, quattro stati, uno stato, sei stati, federazione, cooperazione, io non ci bado – per me è chiara: io sono figlio di un arabo e di una ebrea, sono figlio di un palestinese e di una israeliana e credo che questa sia la nostra sorte come palestinesi e come israeliani. Andare non solo a letto insieme, ma anche vivere insieme. Il principio base della politica e dell’ideologia israeliana si fonda sulla separazione, è l’apartheid, è ancorato alle entità etniche: etnocrazia, muri, recinzioni. Qualsiasi cosa io faccia, è contro la separazione. Come e quando non ha importanza, è invece rilevante la prospettiva di come vivremo insieme: fianco a fianco, oppure uno sopra l’altro.

D: Sei fiducioso che un giorno nella società israeliana ci sarà una maggioranza favorevole alla convivenza con i palestinesi?
R: Essi vivono già insieme. In regime di apartheid ma insieme. Non possono evitarlo. Alla fine dovranno confrontarsi con questa situazione. Su che tipo di convivenza ne stiamo discutendo: no, non c’è una maggioranza, ma su questo  non c’è una maggioranza neppure fra i palestinesi. E’ un problema di fasi. Ritengo che ci vorrà del tempo, e che il principio base dovrebbe cambiare. Gli israeliani non sono in alcun modo pronti ad accettare che essi saranno parte del Medio Oriente. Essi stanno costruendo e fomentando timori di sterminio: Hitler, olocausto, Ahmadinejad, Iran, armi nucleari…Questo significa andare in direzione opposta. Non stanno rafforzando una nazione che dichiara: “Bene, siamo venuti qui dall’Europa, siamo stati sterminati dai tedeschi e dagli austriaci,  adesso dobbiamo mettere da parte la storia e avviare nuovi rapporti in Medio Oriente, altrimenti davvero un giorno ci faranno fuori.”
Voglio dire: quanto a lungo Israele sopravviverà sui suoi F16? Per sempre? Vivranno per sempre sopra la loro spada? No, ritengo che cambieranno atteggiamento. I palestinesi non hanno problemi, perché mentalmente essi sono ancora una società contadina. Sono meno razzisti, sono quelli che in minor misura minacciano il mondo nel senso del mio e del  tuo. E’ una società più aperta, più volenterosa nell’accettare l’altro e meno edificata su sistemi, concezioni e ideologie etnici e razzisti. Sono sempre stati sotto occupazione. Non hanno mai avuto la possibilità di consolidare atteggiamenti etnici nevrotici, narcisistici. Pertanto logicamente essi sono più disposti ad accettare gli israeliani come partner, più di quanto lo siano gli israeliani ad accettare loro.

D: Nel tuo film “I bambini di Arna” tu mostri come i bambini sotto l’occupazione si trasformano da attori in un teatro fino a combattenti della resistenza e magari fino ad attentatori suicidi. Pensi che il tuo film possa far cambiare idea alla pubblica opinione israeliana sulla resistenza palestinese? Più in generale, l’arte è una chiave per portare i due popoli alla convivenza?
R: Naturalmente, come regista del film, spero e credo che esso possa cambiare qualcosa. E ho incontrato alcune persone che mi hanno detto che li ha cambiati. Ma non ritengo che un film possa cambiare più di tanto. Inoltre, in generale, è un’ingenuità pensare che la cultura, che Bach e Chopin possano unificare i popoli. Non dimentichiamo che Goebbels e Eichmann erano appassionati di Mozart. Ciò non ci può proteggere da nulla, da nessuna barbarie. Penso che l’arte può essere un luogo, può rispecchiare, può produrre idee, può rifondare lo spirito critico del popolo. Può rendere fornire la gioventù, soprattutto in posti come questo, di strumenti per esprimersi, della capacità di saper lanciare un messaggio, di parlarti, di confrontarsi con te. Ma questa non è la soluzione. Il problema in Medio Oriente fra Palestina e Israele non questione di cuori o di arte, è un problema politico.
Alcuni provano a introdurre tale profilo in un problema fra due popoli, ma non è il caso. La questione non riguarda il dialogo, o tenersi per mano o pisciare insieme. Questo è il problema politico di una nazione che ha occupato e ha ripulito etnicamente un luogo esclusivamente per se stessa. Questa è la situazione in Palestina. E’ un caso molto semplice. Si è complicato negli anni, ma la sostanza è che c’è chi subisce l’occupazione e chi occupa. E se tu chiudi l’occupato e l’occupante per 24 ore dentro una sauna, non risolverai il problema, perché ne usciranno nella stessa condizione in cui ci sono entrati. Forse saranno più comprensivi, ma l’occupante occuperà ancora l’occupato. Quindi il problema è politico. Non credo che questo scambio artistico e il dialogo possano aiutare la maggioranza di entrambe le parti a saper negoziare una soluzione, la soluzione non verrà fuori dal teatro. La soluzione uscirà dalla resistenza all’occupazione.

D: Pensi che il boicottaggio culturale è un mezzo ragionevole per fare pressione su Israele?
R: Sono senza alcun dubbio favorevole al boicottaggio. Penso che le persone dovrebbero premere su Israele, che non potrà agire come se nulla stesse accadendo, perché questa situazione non è normale. Ma sarei molto cauto su cosa e chi boicottare. In particolare non credo che dovremmo boicottare la cultura. Boicottiamo l’economia, le istituzioni che usano la cultura come mezzo propaganda, boicottiamo le istituzioni accademiche che sostengono l’occupazione, ma non penso si tratti di boicottare un film. Boicotterò il regista che lo usa per favorire la propaganda israeliana. Ma non si deve boicottare la cultura per principio.