Un’altra guerriglia dimenticata

 

Il 21 aprile scorso davamo conto della profonda crisi politica e istituzionale che viveva la Thailandia. Una crisi segnata dalla scontro frontale tra i “gialli” del PAD (Alleanza Democratica del Popolo), il blocco reazionario monarchico e filoamericano, e i sostenitori di Thaksin Shinawatra, i “rossi”, il leader populista destituito dai militari con un colpo di Stato il 19 settembre del 2006, con contestuale scioglimento del suo partito, il Thai Rak Thai. Uno scontro che rischia di riesplodere a causa della seria crisi diplomatica con la vicina Cambogia, che si è rifiutata di accettare la richiesta di estradizione dell’ex premier Shinawatra.

Contro la decisione delle autorità cambogiane il governo di Bangkok non si è limitato a recapitare a quello di Phnom Penh una durissima nota di protesta, ma ha promesso serie ritorsioni le quali, visti i contenziosi territoriali e la disputa su chi abbia la giurisdizione sul tempio di Preah Vihear, potrebbero sfociare in veri e propri incidenti armati. Il governo di Bangkok, non solo ha ritirato il proprio ambasciatore da Phnom Penh, ma ha pure mobilitato per le strade i suoi sostenitori, i “gialli”, al grido “Lottiamo per la Thailandia, lottiamo per il nostro Re!”. I manifestanti non hanno risparmiato pesanti accuse sia contro il primo ministro cambogiano Hu Sen che contro l’ex premier Shinawatra. La manifestazione dei “gialli”, svoltasi il 15 novembre, è stata a sua volta presa di mira dai “rossi”, col risultato di dodici feriti.

Ma non è di questo che vorremmo parlare oggi, quanto della guerriglia islamista nel sud della  Thailandia, precisamente nelle province meridionali di Yala, Pattani, Narathiwat e Songkhia (si veda la cartina). En passant: si tratta proprio delle zone più battute dal corruttivo turismo occidentale. In queste province i musulmani costituiscono quasi il 90% della popolazione, una minoranza che soffre di una profonda emarginazione nella buddista Thailandia. Quest’area, tra l’altro popolata da minoranze etniche, è stata un sultanato indipendente fino al 1902, quando venne annessa da Bangkok. Da allora e per tutto il secolo scorso, non si è mai placata la resistenza di queste minoranze, anzitutto di nazionalità malese, resistenza che recentemente si è tinta anche di coloriture religiose. Numerose rivolte armate sono state soppresse dall’esercito, fino all’ultima sommossa del gennaio 2004 repressa nel sangue. Da allora vige nella zona la legge marziale e decine di migliaia di soldati presidiano le città più importanti, fatto che non ha comunque debellato la guerriglia islamica. Si calcola che dal 2004 ad oggi 3.700 persone hanno perso la vita a causa del conflitto.

Il 16 novembre scorso, in un villaggio della provincia di Pattani, le forze speciali thailandesi hanno ucciso, dopo un duro scontro a fuoco, sei “sospetti separatisti”. Due militari sono rimasti feriti. I media thaliandesi hanno dato grande risalto a questa notizia, accusando i ribelli di voler “terrorizzare i cittadini buddisti” affinché abbandonino per sempre la zona, nonché di volere “fondare uno stato islamico indipendente”. In verità quest’accusa non è provata da alcuna dichiarazione dei guerriglieri, i quali invece insistono contro il governo di Bangkok perché persegue  una politica di discriminazione verso le minoranze etniche e religiose, cittadini di serie B. Un’accusa fondata sul dato storico che tutte le leve del potere e il predominio sociale sarebbero nelle mani dell’etnia dei Thai centrali, i quali in effetti non rappresentano che un terzo della popolazione thailandese.