Note sulla crisi sistemica del capitalismo occidentale e le tre via d’uscita che l’Italia ha davanti
(prima parte)

Com’è noto l’economia, la produzione e lo scambio di beni e servizi, solo con l’avvento della borghesia come classe dominante ha occupato il centro della scena storico-sociale. Nel capitalismo l’economia costituisce la piattaforma sulla quale si erge tutto il resto del sistema. Ciò che accade a questa piattaforma è destinato ad avere inevitabili ripercussioni sulla sovrastruttura che ci si appoggia sopra. Si capisce dunque che la conoscenza del mondo economico è fondamentale, sia per chi si pone l’arduo scopo di salvare il capitalismo dal suo incerto destino, sia per coloro i quali, tra cui ci annoveriamo, si pongono l’obbiettivo più modesto di trarre in salvo solo l’umanità lasciando che il suo involucro moderno vada alla malora.


Una crisi storico-sistemica, un passaggio epocale

 

 

Di contro le tesi minimaliste, noi siamo stati tra i primi a considerare come “strutturale” la crisi scatenata del crack finanziario esploso nel settembre 2008 e con epicentro il sistema bancario-finanziario  nordamericano.
Nel gennaio 2009 connotavamo infine la crisi come storico-sistemica,  senza tuttavia commettere l’errore di interpretare l’obamismo come una specie di resa dell’impero americano il quale, ben al contrario, avrebbe opposto la più tenace resistenza al suo declino – ciò che avrebbe causato l’inasprimento e non  l’attenuazione delle tensioni geo-politiche.
Nel giugno scorso avemmo modo di spiegare che l’eventuale agonia del capitalismo americano, e con esso quello occidentale, non sarebbe equivalsa per niente alla rovina del capitalismo in quanto tale.

Ciò che stava crollando, dicevamo, era precisamente il turbo-capitalismo, ovvero quel modello sui generis di capitalismo affermatosi nel dopoguerra e contraddistinto da due fattori intrinseci e uno geopolitico: il consumismo di massa come motore della crescita economica (con la relativa trasformazione del proletariato in “ nuova classe media”), il totale predominio della finanza speculativa sugli altri comparti economici con la  conseguente incorporazione degli Stati come criminogeni comitati d’affari, e quindi l’indiscussa supremazia planetaria degli Stati Uniti che di questo modello sono stati artefici e campioni.

Segnalavamo dunque che il tramonto di questo modello, ovvero dell’Occidente, avrebbe condotto allo spostamento ad oriente del baricentro del capitalismo mondiale, spostamento che avrebbe gettato l’umanità in un passaggio di fase di dimensioni epocali, delle stesse dimensioni dei tre che contrassegnarono le tappe fondamentali della storia moderna del capitalismo. Il primo, grazie alla rivoluzione industriale e alla sconfitta delle ambizioni francesi, pose le basi della supremazia del colonialismo inglese. Il secondo, quello tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, segnò il passaggio all’imperialismo e aprì il ciclo del predominio conflittuale euro-americano. Il terzo prese il via subito dopo la seconda guerra mondiale, con l’annientamento dell’egemonia tedesca in Europa e giapponese in Asia che spianò la strada al definitivo predominio dell’imperialismo a stelle e strisce, controbilanciato a sua volta dal momentaneo  condominio bipolare conflittuale con l’Unione Sovietica.
Concludevamo infine che questo spostamento di baricentro non sarebbe stato indolore poiché, come ogni passaggio epocale di queste dimensioni, anche questo è destinato a causare profonde fratture rivoluzionarie e controrivoluzionarie all’interno dei singoli paesi e gravissime tensioni geopolitiche, comprese guerre tra nazioni e tra coalizioni di nazioni.

Sono queste tesi corroborate o smentite dallo svolgimento dei fatti più recenti? In altre parole: ad un anno e poco più dal collasso sistemico del settembre 2008, avevamo ragione noi a parlare di crisi storico-sistemica, oppure i “minimalisti”, tutti protesi a ringalluzzire gli spiriti animali del capitalismo con l’idea che la crisi era solo un postema momentaneo? Andiamo dunque a leggere e soprattutto ad interpretare i dati macroeconomici che ci vengono forniti dagli stessi organismi sistemici.

Il gigante dai piedi d’argilla

Dal crack finanziario americano del settembre 2008, è tutto un frenetico affastellarsi di dati e di previsioni sulla “ripresa”. Negli ultimi giorni un vero e proprio profluvio: il Dipartimento del Commercio americano, la Commissione Europea, l’OCSE, la Confindustria. Non poteva mancare Tremonti. Qual è il leit motiv? Che dopo averla tanto evocata, la “ripresa” sarebbe finalmente arrivata. Questo in effetti si capisce dai titoli dati in pasto alla pubblica opinione la quale, incapace a districarsi nel groviglio statistico di cifre che quei titoli accompagnano, ad essi si deve fermare.
Se poi si tenta di decodificare queste cifre, si capisce l’inganno, ovvero il disperato tentativo di tenere su il morale dei consumatori. E’ proprio come in certi film catastrofisti holliwoodiani, in cui le autorità, temendo che dicendo la verità si diffonda il panico, tengono nascosto l’imminente disastro.

Vediamoli questi numeri, partendo dalla cosiddetta “ripresa” americana.
Evviva! Il Pil sarebbe cresciuto, nel terzo trimestre 2009, del 2,8% rispetto a quello precedente. Prendiamo un attimo per buono il criterio di calcolo del Pil. Quest’aumento non ci dice tuttavia proprio nulla sull’effettivo stato di salute dell’economia USA, che è infatti più cagionevole e preoccupante dell’anno scorso.
La notizia del 2,8% è stata infatti giudicata negativamente dagli tessi “analisti”. Essi non hanno mancato di sottolineare due dati lampanti: che dato il -6% di Pil su base annua, e vista l’impressionante mole di denaro nel frattempo immessa dall’amministrazione Obama nel sistema economico per rilanciare l’economia (789 miliardi dollari!): un trimestrale +2,8% è una quisquilia, come se la montagna avesse partorito un minuscolo topolino.
Ma se i consumi boccheggiano, dov’è finita questa enorme massa di quattrini? Semplice, siccome furono fatti passare dalle banche, queste se li sono in gran parte intascati per sanare i loro bilanci, e poi per ricominciare a giocarseli nei casinò borsistici (ma su questo torneremo più avanti).
Per un’economia come quella americana, per cui i consumi contribuiscono per ben il 70% del Pil, l’incremento di quest’ultimo dopo che all’inizio dell’anno esso era sceso al –6,4, vuol dire solo che i consumi non si stanno affatto riprendendo. Un incremento “drogato”, che gli addetti ai lavori spiegano in buona parte con gli incentivi alla rottamazione (Marchionne aveva fiutato il business) e l’aumento delle spese militari (alla faccia della svolta di Obama!).
Se i consumi non salgono nonostante gli incentivi, malgrado parte del debito privato se lo sia addossato lo Stato, non è solo perché i cittadini temono il peggio (fattore psicologico) ma per due fattori di una brutale fisicità: la disoccupazione reale è salita al 17% e il potere d’acquisto degli occupati si è andato drasticamente riducendo. Ben Bernanke, che la sa lunga, parla di “ripresa anemica”, per dire che non crede affatto che i consumi potranno ritornare ad essere il motore della crescita, e che il Pil risalirà davvero soltanto cambiando musica, ovvero se sarà sostenuto anzitutto dagli investimenti delle aziende.
In altre parole ci sta dicendo che l’economia USA riconquisterà la sua supremazia mondiale solo a patto di cambiare paradigma, passando dal modello incentrato sul consumismo compulsivo (american way of life) a quello fondato sulla centralità della produzione di beni d’investimento.
Un passaggio che ammesso possa realizzarsi, ovvero non sia interrotto da nuovi collassi finanziari, necessita di tempi medio-lunghi e del ritorno dello Stato come principale attore economico. Che questa trasformazione non sarà indolore, che avrà enormi costi sociali, col relativo rischio che si accendano forti conflittualità interne, anche questo gli analisti l’hanno messo nel conto.

Economia-mondo

Mentre gli USA, l’Unione Europea e la corte di paesi imperialisti che hanno rappresentato il centro dell’economia mondiale dal dopoguerra ad oggi sono vittime della catalessi, leggi recessione piena, il resto del mondo è in piena ebollizione.
Una spia infallibile per capire l’andazzo è cosa si dicono in camera caritatis i grandi investitori finanziari. Essi parlano per bocca dei loro “analisti”. E cosa ci dicono questi ultimi? Che a causa dell’elevato indebitamento sia pubblico che privato nonché di altri handicap macoreconomici i paesi imperialisti difficilmente usciranno dalla crisi e se ne usciranno ci vorrà tempo e cure da cavallo. Ci dicono che la crisi sta causando un profondo riequilibrio di poteri per cui i “paesi emergenti” (così vengono chiamati i paesi capitalistici semi-coloniali di media potenza fino a ieri soggiogati da quelli imperialistici) usciranno mediamente rafforzati dalla crisi. I dati parlano chiaro: struttura economica più solida, maggiore competitività,  bassi livelli d’indebitamento, sia pubblico che privato, una struttura demografica dominata dalle fasce giovani, di qui i maggiori tassi di crescita attesi. Per questo i grandi investitori stanno voltando le spalle all’Occidente per puntare sugli “emergenti”, andare a fare profitti in Cina, in India o in Brasile.
Ci dicono che gli “emergenti” ospitano l’80% della popolazione mondiale, beneficiano di tassi di crescita cinque volte superiori a quelli dei paesi imperialistici e possiedono il 62,3% delle riserve di valuta estera. Ci dicono che “la chiave” per capire come fare soldi nei prossimi anni sono “gli alti livelli di risparmio e i bassi livelli di indebitamento”. Abbiamo che il debito estero in rapporto al Pil è del 128% in Germania e del 104% negli USA; mentre in Cina ammonta al 10%, in India al 20%, in Russia al 30%.  Sottolineano che le economie “emergenti” si caratterizzano per la minore dipendenza dalle economie dei paesi imperialistici (la tendenza sarebbe addirittura  all’inversione del rapporto di dipendenza) e per la crescente centralità della domanda interna che starebbe sostituendo le esportazioni come motore della loro crescita.
Alcuni dati aiutano a capire meglio questa tendenza: mentre negli USA i consumi rappresentano quasi il 70% del Pil e in Europa il 60%, in Cina non si arriva al 37%. Se nel 1991 il 23% delle esportazioni degli “emergenti” sono sbarcate nel mercato nordamericano, nel 2008 questa quota è scesa al 12%, mentre le esportazioni degli “emergenti” in terra cinese sono passate dal 2% al 16%. Un dato lampante: l’indice MSCI-Emerging Markets Index (l’indice creato dalla Morgan Stanley che designa e misura le performances dei mercati azionari dei 26 più importanti paesi “emergenti”) indica che dopo il tonfo dell’ottobre 2008 esso ha recuperato il 111% rispetto al 40% messo a segno dal MSCI-world (ovvero l’indice che misura le performances dei 23 paesi imperialistici).
Si capisce quindi come mai dal G7 si sia passati al G20 (con l’asse chinamericano del G2) e la prepotente ascesa cinese come grande potenza.
Dati empirici che ci pare confermino in maniera lampante la correttezza della nostra lettura della crisi, come “crisi storico-sistemica dei centri imperialistici”, e la cui conseguenza di portata epocale, a meno che il blocco imperialista capeggiato dagli USA non si decida a passare al redde rationem bellico, è appunto lo spostamento del baricentro dell’economia capitalistica mondiale dall’Occidente all’Oriente, Cina in primis.

Pulsione di morte

Sarà ora importante vedere come sta reagendo il capitalismo occidentale a questo terremoto globale. Noi azzardiamo una prima risposta: invece di liberarsi dalla piovra finanziaria, invece di tornare ai fondamentali esso, dopo il crack, sta bellamente tornando al suo modus vivendi, accentuando addirittura i suoi aspetti truffaldini e criminogeni, dedicandosi al puro e semplice aggiotaggio. Invece di liberarsi del turbo-capitalismo, questo pare avere deciso di curarlo e rimetterlo in pista (in gergo yankee: business as usual) per cristallizzarlo nella forma di un vero e proprio capitalismo-casinò.

Il sintomo più infallibile di quanto diciamo è il vero e proprio boom che le borse hanno conosciuto nel 2009. Il flusso degli scambi finanziari a Wall Street è cresciuto dopo il tonfo del settembre dell’anno passato del 55%, la borsa di Milano addirittura del 77%. Il che vuol dire che gli investitori stanno facendo soldi a palate. Secondo alcuni analisti finanziari le borse sono attualmente un vero e proprio paese del Bengodi. Questi straordinari risultati delle borse significano forse che l’Occidente sta uscendo dalla recessione e ha imboccato la strada della “ripresa”? Al contrario, essi dimostrano che esso non solo per “ripresa” intende fare soldi “tanti, maledetti e subito”, ma che è prigioniero di una vera e propria sindrome da pulsione di morte.
Da cosa infatti è causato questo boom? Cosa esattamente viene scambiato nelle borse? E chi sono i principali investitori? Com’è possibile che la sfera finanziaria sia tanto feconda mentre produzione e scambi sono crollati, mentre siamo in piena recessione e gli utili delle aziende non risalgono?
La risposta, ed è bene ficcarselo in testa, non può prescindere dal fenomeno che ha caratterizzato il turbo-capitalismo, ovvero l’autonomizzazione, il distacco totale della sfera finanziario-speculativa dall’economia che per convenzione semantica chiamiamo “economia reale”. Una volta il grosso degli scambi azionari era legato alle prestazioni delle grandi aziende produttive di merci, ovvero alla loro capacità di fare profitti dall’investimento di capitale nel mondo della produzione e degli scambi. Da tempo questi scambi, il grosso dei flussi finanziari, dipendono dagli scambi di denaro con denaro, dal puro e semplice gioco d’azzardo, dalle prestazioni dei soggetti capaci di fare denaro col denaro.

Per dare un’idea precisa di quanto stiamo dicendo basti pensare ai “derivati” (quelli scambiati nell’ultimo anno nelle borse ammontano a tre volte il Pil mondiale). Sarebbe lungo decifrare i tecnicismi relativi alla natura dei “derivati”. Tagliando con l’accetta: si tratta di pacchetti di contratti e titoli d’acquisto, siano essi riferiti a prodotti finanziari o a  merci, che vengono transatti nelle borse e che possono passare più volte di mano fino al contraente finale. Il guadagno (e di converso la soglia di rischio), può essere molto alto data l’alta differenza di valore tra l’investimento iniziale e il paniere sottostante di prodotti (in gergo: effetto di moltiplicazione dell’investimento).
Se poi guardiamo chi sono coloro che si dedicano al gioco d’azzardo dei “derivati” per fare quattrini “tanti, maledetti e subito”, scopriamo che si tratta anzitutto di banche, le scatole cinesi degli hedge fund, fondi pensioni, stati ed enti pubblici, ed infine le stesse aziende capitalistiche. Tutti attratti dalla allettante possibilità di far soldi, tanti e in fretta, anche a costo di correre altissimi rischi, invece che investirli nel mercato azionario tradizionale che da tempo offre rendimenti molto bassi.

Ma anche coi “future” non andiamo meglio. E’ vero che a differenza dei “derivati” sono contratti di compravendita agganciati al valore di un bene fisico (merce) sottostante, o ad un paniere di beni (commodity future). Ma se andiamo ad osservare quale perverso meccanismo (sorvoliamo sui Financial future perché questo ci porterebbe ancor più lontano) abbiamo un’altra prova che il grande flusso di scambi borsistici è rappresentato dalla pura speculazione finanziaria.

Ci spostiamo quindi al LME, al London Metal Exchange di Londra, da dove passa il grosso dello scambio mondiale di metalli e petrolio. L’anno in corso, malgrado la recessione, è stato un vero anno boom al  LME. Come mai? Prendiamo un esempio, quello del rame. Il suo prezzo è aumentato del 30%, malgrado con la recessione gli scambi di questo metallo siano del 15%. La regola vorrebbe che a domanda calante e offerta crescente i prezzi di un bene scendano. Cos’è accaduto? Dobbiamo appunto chiamare in causa i future, ovvero quei contratti con cui un soggetto si impegna a comprare un determinato quantitativo di beni ai prezzi in quel momento vigenti sul mercato e a farselo consegnare entro un dato lasso di tempo. Dove sta l’arcano? Che quel soggetto acquirente ha la facoltà di rivendersi il suo contratto d’acquisto, ovviamente ad un prezzo maggiorato, ad un secondo soggetto, questo ad un terzo, e il terzo ad un quarto, e così via. Tutti comprano attendendosi un aumento del prezzo finale di realizzo. Nel frattempo il rame non è forse neanche stato estratto dalla miniera.
Alla fine, dopo questi numerosi passaggi di mano dei contratti future che hanno fatto ingrassare i loro diversi momentanei titolari, giunge sul mercato, e chi volesse acquistarlo, ad esempio un’industria, dovrà pagarlo al prezzo finale, lievitato blindato. Il meccanismo è chiaro: produttori di materie prime e industrie finali di trasformazione del rame avranno pagato loro la catena di S. Antonio dei parassiti, che non hanno aggiunto un centesimo al valore reale del metallo, ma solo speculato sul suo prezzo. Facile immaginare come, capitalismo per capitalismo, le aziende estrattrici e quelle trasformatrici siano strozzate e per tenersi a galla si può esser sicuri che scaricheranno questi costi sugli ignari operai (Marx avrebbe detto che il lavoro vivo deve soggiacere a quello morto). Per avere un’idea delle dimensioni di questo fenomeno dei future, che altro non riusciamo a chiamare se non aggiotaggio, si tenga presente che gli scambi di future sulle materie prime al LME di Londra, nell’anno in corso, ammontano ad un valore nominale di 10 volte superiore a quello delle materie prime effettivamente in circolazione.

Abbiamo quindi che nonostante il crack del settembre 2008, gli sciacalli sono tornati alla grande e hanno riconquistato il bastone del comando. Ma come? si chiederà il lettore, i governi non erano intervenuti con faraonici piani d’emergenza? Non avevano assicurato un radicale aggiustamento delle regole? Non solo di regole severe per stroncare il capitalismo-casinò non se n’è vista neanche l’ombra. Abbiamo il paradossale risultato per cui la montagna di denaro fresco immesso in circolazione dalle banche centrali (la quantità di denaro circolante nel mondo dopo il crack del 2008 è raddoppiata del 100%) è stata utilizzata dalle banche, che l’hanno acquistato a prezzi praticamente stracciati, proprio per reimmetterli nel casinò dei derivati e dei future. Senza dimenticare che questa montagna di denaro è stata stampata ricorrendo al debito pubblico, senza che ad essa corrisponda una equivalente ricchezza reale.

Chiediamoci: Adam Smith avrebbe accettato di chiamare questa truffa economia di mercato? Avrebbe accettato di chiamare capitalista colui che ottiene utili senza alcun reale investimento di capitale? Certo che no! Avrebbe preso atto che nella sua fase senescente, il capitalismo, ha dismesso la sua mano “invisibile” per passare a quella ben materiale e furfantesca.

Italia: aspettando Godot

Venendo al nostro paese è di questi giorni la confortante notizia che “la nostra ripresa è più consistente rispetto agli altri paesi dell’Unione ”. Ma di che stiamo parlando? Che nel terzo trimestre c’è stata una crescita del Pil dello 0.6%. Tenendo conto che Pil italiano era sceso del 6,5% vuol dire che su base annua il Pil si attesta ad un secco -5%. Insomma, la situazione è più che pessima, anche tenendo conto che la cifra potrebbe essere mitigata dalla ricchezza che sfugge alle verifiche statistiche, ovvero prodotta dall’economia sommersa.

Ma vediamo di capirci di più. Solo un quinto di questo crollo del Pil è stato causato dalla riduzione dei consumi, che in Italia, essendo già più bassi che in altri paesi europei, sono diminuiti di meno rispetto a questi ultimi. Quasi il 60% della recessione è stato causato dalla diminuzione delle esportazioni (-24,5%) e da quello di investimenti in capitale fisso (macchinari e mezzi di trasporto). Non è che la competitività rispetto alla concorrenza sia diminuita (visto che qui abbiamo i salari più bassi dell’Unione), è che tra la fine del 2008 e la prima parte del 2009 il commercio mondiale ha subito la profonda contrazione di 1/3. In termini monetari l’export italiano è diminuito di circa 67 miliardi di euro. Più precisamente l’economia italiana paga la recessione che ha colpito i primi cinque mercati d’esportazione: in particolare Stati Uniti, Regno Unito e Spagna, subito dietro Germania e Francia.
In altre parole la possibilità che l’Italia esca dalla recessione viene a dipendere, più ancora che dal rilancio dei consumi interni, dalla ripresa mondiale e in particolare dall’uscita dalla recessione dei paesi imperialisti con cui è più forte l’interscambio commerciale. Ipotesi altamente improbabile visto che il vero e proprio boom esportativo italiano del biennio 2006-2007 (+22% in due anni, un risultato superiore a quelli tedesco e giapponese), fu determinato dalla “bolla globale” dei consumi drogati e degli investimenti a debito.

Vista da questo punto di vista la politica economica del governo Berlusconi-Tremonti consiste nel banale navigare a vista, ma dato che la costa non si vede a causa della nebbia fittissima, si dovrebbe dire che si gioca a mosca cieca. Il rischio di naufragio è dunque altissimo. Ma sarebbe un errore pensare che solo il governo si affidi alla Divina Provvidenza della ripresa mondiale. Con sottili differenze liturgiche anche l’opposizione (sindacati compresi), la Banca d’Italia, il circuito della grande finanza, la Confindustria, tutti recitano il medesimo rituale spiritistico.

Nessuno, nel circo Barnum delle classi dirigenti italiane, vista la probabile catastrofe incombente, ha il coraggio di dire le cose come stanno, tanto meno di suggerire quali dovrebbero essere le vie d’uscita. Tutte occupate a farsi gli sgambetti tra loro, le diverse frazioni di cui si compone il mono-blocco sistemico sanno tuttavia che le alternative sono due e solo due: o si cambia radicalmente modello economico-sociale, il che implica un radicale riposizionamento geo-politico del paese, cioè lo sganciamento dal rapporto di sudditanza con gli USA e con l’asse anglo-renano dell’Unione Europea, oppure il solo modo per tenersi a galla, sperando di agganciare l’agognata ripresa altrui, è un ulteriore aumento della capacità competitiva, che in poche parole significa ridurre drasticamente salari e diritti dei lavoratori e quindi accrescere l’esercito industriale di riserva affinché chi lavora accetti di continuare a prestare servizio come uno schiavo.

Siccome non si vede neanche l’ombra di qualche forza sistemica che osi avventurarsi sul primo sentiero, il secondo è ineluttabile come la morte. Domanda: potrà resistere indenne il tessuto sociale italiano al massacro di massa che si prospetta? Potrà resistere l’attuale pace sociale? La massa di proletari resteranno inerti davanti alla loro schiavizzazione? E tutto il sofferente e indebitato conglomerato di piccole e medie aziende, riuscirà a valicare i prossimi mesi?

Ma c’è un’altra possibilità, con o senza un altro crack finanziario: che la ripresa mondiale tanto attesa non si faccia viva, che la recessione si trasformi in una “depressione” prolungata, addirittura accompagnata da inflazione dei prezzi. In queste circostanze il fallimento delle politiche economiche sarebbe totale, la credibilità delle classi dominanti col loro stuolo di politicanti travolta, il sistema, già oggi in via di disfacimento, destinato a crollare su se stesso. Allora, e solo allora, terremotato il panorama politico, la pressione popolare farà emergere non solo nuove idee di società ma anche le forze che se ne faranno portatrici. Ma su questo torneremo più avanti.