Il 23 novembre scorso, nella provincia di Maguindanao, una delegazione di sostenitori del candidato a governatore Esmael “Toto” Mangundadatu è stata preso d’assalto da un nutrito gruppo armato. L’imboscata ha fatto 57 morti e decine di feriti. L’indignazione popolare che ha scosso il paese ha impedito alle autorità di procedere, come di consueto, all’insabbiamento. Accusato del massacro Andal Ampatuan, figlio dell’attuale governatore provinciale e potente notabile del partito Lakas-Kampi, lo stesso del partito della primo ministro Arroyo. Ma cosa si nasconde davvero dietro a questo eccidio?

La provincia di Maguindanao è una delle cinque province che fa parte della Regione Autonoma del Mindanao Musulmano (ARMM). L’area di Mindanao è popolata in maggioranza dal gruppo etnico moro, di religione musulmana. Una zona mai domata da conquistatori stranieri, storicamente segnata da movimenti di resistenza, prima ai colonialisti spagnoli, poi agli imperialisti giapponesi (che mai riuscirono ad occupare stabilmente).
Oggi nella zona è attivo e gode di un ampio seguito popolare il Fronte di Liberazione Islamico dei Moro (MILF). Un movimento di guerriglia da non confondere con quello salafita di Abu Sayyaf (col quale spesso ha conosciuto momenti di scontro) e che ha spesso cooperato con la guerriglia maoista del Nuovo Esercito Popolare (NPA).

Proprio nella provincia di Maguindanao il MILF è molto forte e da sempre ha dovuto combattere contro il potentati locali prezzolati da Manila.
Il principale clan della provincia, contro cui il MILF conduce da tempo una lotta senza quartiere, è proprio quello del governatore Andal Ampatuan, il padre del mandante del massacro del 23 novembre. Ampatuan è un vero e proprio “signore della guerra”. Il suo clan non ha dalla sua soltanto le truppe governative, esso si fa pure forte di una milizia armata che ubbidisce ai suoi ordini personali. Il commando che ha compiuto il massacro era composto proprio da questi mercenari, ben addestrati nella lotta di contrasto alla guerriglia e responsabili di diversi crimini contro i villaggi accusati di sostenere il MILF (i 193 arrestati per il massacro sono tutti membri di questa milizia).
Gli abitanti della provincia sanno bene con quali metodi questo signore della guerra governi: metodi  mafiosi, illegali e apertamente terroristici. Questo spiega l’alta densità di violenza che caratterizzano la zona come gran parte dell’isola di Mindanao (in altre province di Mindanao c’è una presenza storica del NPA maoista, come pure dei guerriglieri salafiti del gruppo Abu Sayyaf).
Che la milizia privata di Ampatuan sia giunta a massacrare, non degli irriducibili guerriglieri, ma sostenitori del signore della guerra avversario, candidato alle prossime elezioni provinciali, la dice lunga non solo sui metodi di governo del clan in questione (un clan che da sempre è al servizio del potere centrale di Manila, per essere precisi della Arroyo), ma svela anche quali loschi interessi siano in gioco e fino a che punto si possa giungere per non perdere il potere. Il governatore provinciale è infatti non solo un proconsole del governo centrale, ma anche il primo tra i signorotti della guerra locali, il primo collettore delle tangenti e del pizzo che chiunque è obbligato a pagare. Si comprende dunque la guerra per bande in corso in questa zona turbolenta delle Filippine.

C’è chi insinua che il massacro sia stato perpetrato anche per sabotare gli accordi siglati il 27 ottobre in Malesia, tra il governo centrale e il MILF, accordi in base ai quali le parti si sono impegnate a non attaccare i civili, ad assicurare il funzionamento delle scuole, degli ospedali e dei servizi pubblici, nonché per consentire ai 250mila sfollati di far ritorno ai loro villaggi. Un accordo che toglierebbe ai signori della guerra locali il potere di veto, d’interdizione e di ricatto su cui si basa la loro forza.