A proposito del discorso di Obama

Che i leader politici siano demagoghi, maestri nell’arte della mistificazione e dell’inganno era cosa nota ben prima che Obama assurgesse alla carica di imperatore. Tuttavia è difficile nascondere il senso di viscerale disgusto all’ascolto del discorso che il presidente degli USA ha pronunciato rivolto ai cadetti di West Point. Un vero maestro nella tecnica dell’infinocchiamento delle masse.

Sarebbe interessante svolgere un’analisi semiotica. Ne verrebbe fuori questo: la tecnica è la stessa degli spot pubblicitari, che consiste nel presentare un prodotto come necessario a soddisfare un bisogno che in realtà non c’è, e lo spot consiste appunto nel fabbricare il bisogno stesso. Il raggiro non sta nel fatto che il prodotto non è efficace, sta nel far credere che esso è indispensabile.

Vogliamo invece mettere sotto la lente, non solo ciò che Obama ha detto, ma anche ciò che ha celato nel non-detto. 30mila soldati americani si aggiungeranno a quelli già operativi, molti di più tenendo conto di quelli che invieranno i suoi alleati-satrapi, tra cui l’Italia in prima fila con decisione bipolare. La grande menzogna è che essi andrebbero a debellare al-Qaida. Una menzogna palese quanto la famigerata fialetta che Colin Powell esibì alle Nazioni Unite, visto che tutti gli organismi di intelligence, americani compresi, non da adesso, vanno spiegando che quest’organizzazione non solo è stata fatta a pezzi, ma che i suoi rimasugli non si annidano più in Afghanistan, ma si sono dispersi tutt’attorno, pare soprattutto in Pakistan.
Una bugia che quindi molto malamente nasconde i reconditi scopi strategici che stanno dietro al rafforzamento dei dispositivi di occupazione dell’Afghanistan. Desta, non lo nascondiamo, un certo sconforto il pensare che il popolo da cui dipendono le sorti del mondo possa ancora, nella sua maggioranza, credere a simili fandonie. Non avevamo torto a sospettare che proprio per questo potenti lobbies avessero puntato tutto su Obama: era l’uomo giusto per prendere due piccioni con una fava dopo il fallimento di Bush, cioè per abbindolare meglio gli americani da una parte, e dall’altra fornire un alibi agli alleati il cui servilismo verso gli USA era sempre più impresentabile.

E’ sorprendente la similitudine del discorso di Obama, se non con lo stile primitivo di Bush, con i suoi contenuti. In maniera più infingarda e seducente, Obama ha fatto chiaramente intendere due cose: che i soldi che vengono spesi per fare le guerre sono necessari per tutelare la prosperità americana, e che essi sono ben spesi nonostante la grande crisi economica. E che il secondo scopo per cui invia i suoi sgherri a portare lutti in giro per il mondo è per i sacri valori americani della libertà e della democrazia. Medesimo è il missionarismo imperiale, identica la trama  escatologica e wilsoniana per cui gli USA, difendendo la loro supremazia, difenderebbero l’umanità tutta intera dal pericolo dell’abisso.

Decodificando il suo messaggio, è tuttavia chiaro quale sia il nocciolo geo-politico del suo discorso: “siamo  tenuti a dare una sonora lezione al popolo afgano affinché tutti gli altri si mettano in testa che non possono permettersi il lusso di fare come gli pare”, ovvero mettersi di traverso e assumere una posizione ostile all’impero. Esattamente come facevano i romani con certe insurrezioni locali: pur non essendo davvero minacciata,  Roma inviava sul posto forze ingenti per schiacciare la rivolta affinché fosse d’esempio, ovvero facesse desistere ogni altro popolo dal tentare di insorgere. La vittoria sui ribelli zeloti a Masada, in Palestina, fece scuola.

Di più. Non si tratta per gli americani solo di dare una lezione ai piccoli popoli ostili. Si tratta di mettere sull’avviso anzitutto quelli più temibili, come ad esempio l’Iran e, come colui che parla a nuora affinché suocera intenda, manda a dire a potenze regionali come Russia e Cina che non sarà tollerato alcuno sgarro. O con noi o contro di noi. E come si vede questo ricatto funziona, visto che l’escalation, con il fiume di sangue che essa causerà, non sarebbe possibile senza il lasciapassare di Mosca e Pechino.

Ma a causa della centrale posizione geo-strategica dell’Afghanistan non si tratta solo di cercare una vittoria simbolica. Il controllo di questo paese è indispensabile agli Stati Uniti e alla sua proiezione planetaria. Chi controlla questo paese non solo tiene sotto tiro l’Iran e il Medio Oriente, si mette di traverso all’eventuale saldatura strategica tra Mosca e Pechino, si mette nella posizione di tenere meglio sotto scacco entrambi.

Infine c’è di mezzo la solidità e il futuro della NATO. E’ vero che l’Europa è interamente soggiogata agli Stati Uniti, un alleato potente ma in condizioni di vassallaggio strategico. Ma proprio perché potente il vassallo potrebbe essere tentato di sganciarsi dalla posizione di subalternità e, un giorno, decidere di guardare ad oriente. Washington ha dunque bisogno di stringere la presa, di tenere, attraverso la NATO, ben salda la catena, sopprimendo sul nascere ogni velleità autonomistica.

Per quanto possa apparire sproporzionato, questo è il peso che grava sulla Resistenza del popolo afgano: dall’esito del conflitto dipendono in larga parte le sorti non solo sue, ma di tutte le resistenze popolari e delle nazioni che non vogliono sottostare al dominio imperialistico. Per di più la loro vittoria non sarebbe solo una sconfitta politica e militare per gli USA, ma un colpo letale alla NATO e alla ragnatela di alleanze che ha Washington come centro.