Note sulla crisi sistemica del capitalismo occidentale e le tre possibili strade che l’Italia ha davanti
Nella prima parte concludevamo che la crisi storico-sistemica pone l’Italia (anello debole della catena imperialistica), davanti a tre possibili sbocchi: (1) galleggiamento: si agisce di rimessa per agganciare la ripresa dei partner principali (USA e UE) facendo dell’esportazione (e non dell’aumento dei consumi interni) la leva principale per uscire dalla recessione; (2) affondamento: la recessione si trasforma in depressione poiché la ripresa dei principali mercati d’esportazione (USA e UE) non ci sarà; (3) cambio di rotta: si adotta un diverso modello sociale il che implica un radicale riposizionamento geo-politico del paese (sganciamento dal centro sistemico USA e UE, agganciamento invece degli “emergenti” e delle periferie).
Prepararsi allo sbocco più probabile, non escludere quello possibile, perorare quello auspicabile
Abbiamo anche detto che il “terzo sbocco”, per quanto possibile, è nel breve-medio periodo, in questa prima fase della crisi storico-sistemica, altamente improbabile. Affinché lo diventi sono necessarie almeno due condizioni, la prima soggettiva, la seconda oggettiva. Per quanto attiene a quella soggettiva: nessuna svolta sociale di grandi dimensioni è possibile senza l’esistenza di una compagine politica (forte di un correlativo blocco sociale di massa) che impugni la svolta e la rappresenti strategicamente. Ciò implica un gigantesco mutamento politico: la trasformazione del debole in forte e di converso del forte in debole. Altrimenti detto: piccole minoranze diventano maggioranza e la tradizionale maggioranza diventa minoranza. Un simile capovolgimento politico non matura mai a dosi omeopatiche, come risultato della crescita inesorabile della minoranza e la simmetrica decrescita della maggioranza. Un simile capovolgimento implica uno sconvolgimento, che si dispieghi una preliminare condizione oggettiva. Senza tante ambagi: un cataclisma economico-sociale del sistema. Ossia: il terzo sbocco diventa pensabile solo a patto che il sistema affondi, che occluso il primo sbocco la società precipiti nel secondo.
Lo sbocco più probabile è dunque il primo, il galleggiamento.
Ma galleggiamento non significa né stasi, né equilibrio né, come vedremo, pace sociale. Anche solo per galleggiare, per agganciare la “ripresa” dei principali partner e rilanciare le esportazioni, l’Italia dovrà sottoporsi ad una cura da cavallo e pagare costi sociali ingenti. Non conoscerà dunque un nuovo periodo di prosperità generale. Il sistema dovrà infatti accrescere la propria competitività, la quale si ottiene, in condizioni di mercato, solo con l’aumento forte dell’esercito industriale di riserva e la relativa riduzione dei salari. Ma deve anche contrarre la spesa pubblica se vuole evitare un vero e proprio default (ci vuole poco a far sì che i titoli di stato italiani siano considerati non più esigibili).
In altre parole il galleggiamento implica: un aumento inevitabile e non momentaneo della disoccupazione, un peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita di chi resterà occupato, un’espansione massiccia dell’area dell’esclusione sociale (delle fasce di popolazione che vivranno al di sotto di quella che viene chiamata soglia di povertà). Il galleggiamento porta dunque con sé un disfacimento inesorabile del tessuto sociale, che sarà aggravato da due fattori collaterali: dall’esaurimento dei risparmi che hanno consentito alle famiglie di fungere da supplente del rachitico welfare state e dall’incapacità dello Stato e delle sue articolazioni amministrative locali di assicurare un livello accettabile di prestazioni e servizi sociali.
Chiediamoci: è plausibile immaginare, date queste condizioni, che la pace sociale possa reggere? che i proletari gettati sul lastrico non si sollevino? che milioni di giovani precari spinti all’elemosina di un lavoro qualsiasi non si sollevino? che i piccoli industriali trasformati in proletari non si ribellino? Che larghe masse di cittadini toccate sul nervo scoperto dei loro interessi vitali ed esistenziali non usciranno dalla narcosi sociale? Che interi distretti e comunità desertificati non insorgano?
Certo, nulla è ineluttabile nella storia sociale, tuttavia è facile dare una risposta negativa. Siamo però dell’opinione che quando un sistema si pianta, dal momento che getta larghe fasce sociali sotto la soglia di povertà, la rivolta diventa altamente probabile. Questa probabilità è tanto più forte per due ragioni collaterali. La prima è che come ogni crisi essa accrescerà le disuguaglianze sociali: alle disgrazie dei più corrisponderà la fortuna dei meno, una minoranza capitalista, affiancata da speculatori e aggiotatori, continuerà ad arricchirsi, mentre la maggioranza del popolo subirà un processo di pauperizzazione. Ciò causerà in chi sta sotto, a cui soltanto vengono chiesti pesanti e ingiusti sacrifici, un’infiammabile sentimento d’indignazione. La seconda ragione è che in questo contesto solo questa minoranza di nuovi aristocratici sarà decisa nel difendere e nel conservare l’ordine costituito, di qui la prevedibile funzione dello Stato, che per sua stessa natura, agirà come sentinella di questa minoranza. E’ a questo punto che il più piccolo errore dello Stato rischierà di fungere da scintilla, con la probabilità che si incendi tutta a prateria.
Se non è possibile prevedere con certezza tempi e modi della rivolta sociale, si deve quindi essere sicuri che essa ci sarà.
Dal seminare caos nell’ordine all’introdurre ordine nel caos
Se diciamo che l’Italia è l’anello debole della catena imperialistica è perché la crisi economica sopraggiunge e si accavalla alla acuta crisi istituzionale e politica che si trascina ormai dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso. L’attuale guerra per bande tra le frazioni politiche della classe dominante non a caso sta subendo in questi ultimi mesi una recrudescenza. Questa si spiega proprio perché, col sopraggiungere della fase delle vacche magre e delle misure sociali draconiane, ogni frazione cerca di scaricare sull’altrui base sociale le pesanti conseguenze della cura da cavallo. La conclusione più probabile è che questi due comitati d’affari continueranno a bisticciare fino a quando non saranno obbligati a siglare, se non la pace, un armistizio, dal quale scaturirà un patto, un governo d’emergenza o di “salvezza nazionale” la cui funzione sarà appunto quella di salvare il sistema dal collasso e contrastare l’incipiente rivolta popolare. Quando ricorreranno a questo escamotage – è probabile che come al solito vi giungeranno in ritardo – vorrà dire che l’attuale disordine starà già per trasformarsi in caos generale.
Se per un lungo periodo le effettive forze antisistemiche, ridotte ad uno stato di debilitamento senza precedenti, sono state obbligate ad un ruolo puramente resistenziale e oppositivo, costrette a rappresentare strati marginalizzati minoritari (a seminare caos nell’ordine sistemico); si avvicinerà l’ingresso in un’altra fase, quella offensiva, che non consisterà solo nel dare battaglia in difesa degli interessi vitali delle larghe masse impoverite, ma nel predisporsi al “terzo sbocco”, nel tracciare una “linea di massa” per battere le forze sistemiche (introdurre ordine nel caos).
Ma in cosa consiste una “linea di massa” in tempi di crisi-storico-sistemica? Il movimento operaio d’un tempo conosceva due vie e due soltanto (ognuna con delle varianti più o meno eccentriche): la fuoriuscita graduale e riformistica dal capitalismo e quella palingenetica rivoluzionaria. Il ‘900 è stato il campo entro il quale i portatori di queste due vie si son dati battaglia. Risultato: invalidate entrambi, i due contendenti sono morti per consunzione, e i superstiti passati tutti dalla parte del nemico. Riproporre l’una o l’altra via sarebbe dunque non solo un errore, ma una irragionevole bestialità. Quindi, se è vero che la crisi storico-sistemica fa della fuoriuscita dal capitalismo una necessità, non meno imperioso, per le minoranze anticapitaliste e antimperialiste, diventa indicare la via, i passaggi di fase, le forze motrici, il blocco sociale e le alleanze, gli strumenti e le misure imprescindibili di questo trapasso.
Sarebbe certo illogico parlare di fuoriuscita senza prima indicare l’approdo, la meta che ci si propone di raggiungere. Forse un terzo modello sociale tra capitalismo e socialismo? No, non pensiamo esista una terza possibilità, se non la sciagurata ipotesi che l’umanità precipiti in una barbarie generale. Il problema è che evocare un nuovo socialismo senza antecedentemente ridisegnarlo, senza indicare in cosa si differenzi, non solo dal capitalismo, ma dalle forme di socialismo storicamente realizzatesi nel ‘900, sarebbe come riempire il vuoto col nulla. Abbiamo noi compiuto questo lavoro? No, l’abbiamo solo abbozzato. Vero è che anche altri hanno avviato questo lavoro di ripensamento del socialismo, ma anch’essi c’hanno consegnato solo frammenti di questo nuovo socialismo. Accusiamo un ritardo inquietante, mentre non possiamo chiuderci in convento per dare corpo e coerenza alle nostre elaborazioni. Ci troviamo costretti ad elaborare camminando, ovvero a ripensare il socialismo nel corso della lotta, mentre siamo gettati nella mischia.
Alcune cose tuttavia abbiamo imparato dalla storia e del passato. (1) E’ molto probabile che una società comunista, ovvero il regno della felicità, dell’abbondanza e della perfetta armonia sociale, sia solo un’utopia. Non per questo il socialismo è meno necessario. (2) Che socialista è quel sistema che assicuri, in assoluta armonia con la natura, se non la felicità, una dignitosa qualità della vita non per una parte ma per tutti i cittadini, il che significa non solo poter soddisfare i bisogni primari, ma che consideri come insindacabili i fondamentali diritti di libertà dell’essere umano. (3) Contestualmente ai diritti i cittadini avranno dei doveri che saranno sanciti dalle leggi, e chi viola queste leggi andrà incontro a sanzioni. Questi doveri dipendono dal primo comandamento di un sistema socialista, che la comunità viene prima dell’individuo e i suoi propri diritti hanno la precedenza su quelli singolari. La comunità avrà bisogno quindi di organismi di autotutela che continueranno ad andare sotto il nome di Stato. (4) E’ illusorio pensare che tutti i cittadini in modo assembleare possano concorrere alla decisioni politiche e in virtù di questo che esse siano applicate e rispettate. Il principio della delega delle funzioni politiche e amministrative è indispensabile in ogni comunità sociale aggregata e complessa, fatto salvo il principio dell’elezione e della revoca di ogni carica di rilevanza pubblica. (5) Il socialismo non si stabilisce dall’oggi al domani. Di mezzo ci sarà un sistema per sua natura contraddittorio che conterrà necessariamente elementi e particelle del vecchio, mentre gli organismi di potere popolare introdurranno quegli elementi destinati ad essere i mattoni di quello che verrà. (6) In questa lunga fase di transizione pre-socialista il mercato, poiché non alloca affatto equamente e razionalmente le risorse rispondibili e crea disuguaglianze sociali, dovrà sottostare a regole e indirizzi pubblici. Il diritto di proprietà non sarà incondizionato, la comunità dovrà limitarlo ogni volta che arrechi pregiudizio ai principi della fratellanza e dell’eguaglianza, della sicurezza sociale, del buon vivere e dei diritti di cittadinanza. Ogni accumulazione che violi questi principi dovrà essere considerata illecita e punita per legge. (7) Tra le differenti forme di proprietà, la comunità avrà il dovere di promuovere quella autogestita, in cui i cittadini, invece di faticare come schiavi, siano protagonisti della produzione, partecipi delle scelte della loro azienda, primi fruitori dei suoi risultati. Tutti i settori di interesse nazionale, telecomunicazioni, trasporti, energia, istruzione, sanità, previdenza, banche, assicurazioni, dovranno essere di proprietà pubblica, e posti sotto il controllo dei lavoratori per evitare burocratismo, spreco di risorse, e corruzione.
Elementi di strategia
Possiamo infine indicare alcuni basilari elementi strategici, certo non apodittici ma corroborati dall’esperienza storica e contemplati dal pensiero politico rivoluzionario moderno. Essi costituiscono la trama, la grammatica della prospettiva rivoluzionaria.
(1) Questo sistema non si cambia se non con una rottura rivoluzionaria di cui le masse pauperizzate sono la forza di spinta.
(2) Mentre ristrette minoranze possono abbracciare un ideale sociale avveniristico e adoprarsi per il suo inveramento a prescindere dagli interessi del loro ceto di provenienza, le grandi masse senza la cui azione ogni ideale sociale resta fantastico, possono abbracciare un simile ideale solo se costrette dal bisogno, a causa di interessi materiali e corporei.
(3) Una crisi rivoluzionaria si determina per la congiunzione di tre fattori: quando le classi e i ceti dominanti non possono più governare come prima (sfascio e disarticolazione delle loro capacità di comando); quando le masse popolari non possono più vivere come prima e sono perciò disposte all’offensiva; quando esiste una compagine politica rivoluzionaria che oltre a godere di un ampio consenso ideale e morale tra queste ultime, sia considerata affidabile come embrione dello Stato futuro.
(4) La fuoriuscita non è un balzo sesquipedale, un atto escatologico, consiste piuttosto in un processo, una serie di trasformazioni concatenate l’una all’altra, di balzi in avanti che fanno capo al primo, la conquista del potere statale.
(5) Sé è plausibile, in circostanze particolari, conquistare il potere dello Stato a cominciare dal governo nel rispetto delle regole costituzionali, è un fatto acclarato che chi abbia conquistato la postazione governativa ma abbia esitato a bonificare e conquistare gli altri apparati dello Stato, è stato costretto a soccombere.
(6) La classe operaia industriale non ha, contrariamente a quanto affermato dal marxismo, alcuna nativa ed esclusiva funzione di forza motrice o di guida del passaggio storico al socialismo, ciò è confermato non solo dalle rivoluzioni fallite nei centri imperialistici, ma anche da quelle vittoriose. La rivoluzione sociale è un fenomeno per sua natura eterogeneo, un fiume in piena in cui confluiscono tutti gli svariati rivoli della rivolta sociale. La sua natura dipende dai suoi scopi, ovvero dalla direzione politica che indirizza questo fiume.
(7) Data la complessa e difforme composizione della società tardo-capitalistica, a causa della persistenza di svariate correnti politiche e culturali, nessuna reductio ad unum è pensabile. Non un unico partito potrà rappresentare il composito blocco sociale rivoluzionario, essendo invece molto probabile che le potenze che si troveranno sospinte alla testa della rivoluzione, sceglieranno la forma di fronte o alleanza, per loro natura polivoci e plurali.
(8) La rivoluzione inizia dunque sul terreno politico, muta la natura dello Stato, che passa dall’essere lo strumento di una minoranza sociale a quello della maggioranza. Avremo quindi una rivoluzione democratica come atto fondativo di una nuova Repubblica.
Convinti della solidità di questi concetti ed elementi strategici, come pure della nostra analisi della realtà sociale, non li consideriamo tuttavia indiscutibili. Essi debbono essere sottoposti piuttosto alla prova del contraddittorio, nella speranza che altri vogliano discuterne con noi. E noi siamo pronti a farlo, a condizione che l’accordo ci sia almeno sul perno di tutto il nostro discorso: che se non dipende dai rivoluzionari, data la loro attuale debolezza, condizionare gli accadimenti dell’oggi, occorre mettersi al lavoro per costruire quella compagine politica che possa indirizzarli domani. Chiamatelo partito, soggetto politico, forza antagonista, movimento rivoluzionario. Ognuno ha comunque capito di cosa stiamo parlando.