
La tranquilla ammissione di Lucia Annunziata: Obama è obbligato a portare avanti l’opera di Bush, e guai a noi se non lo seguissimo
«Obbligati a finire l’opera», è questo l’azzeccatissimo titolo dato da La Stampa all’editoriale di Lucia Annunziata – che pubblichiamo di seguito – sull’ulteriore escalation in Afghanistan annunciata dal discorso di Obama a West Point.A differenza della patetica delusione manifestata da tanti esponenti della sinistra, la Annunziata va al cuore del problema. Non solo gli Stati Uniti, non solo la Nato, ma l’intero Occidente non può permettersi una sconfitta in Afghanistan, dato che quella guerra rappresenta un tassello decisivo della strategia di contenimento dell’Asia e della Cina in particolare.
In maniera esplicita, l’editorialista de La Stampa nonché membro esecutivo dell’Aspen Istitute Italia, parla della fascia che va dall’Iraq all’Afghanistan, al Pakistan, fino all’India, come di: «Una sorta di cintura Gibaud, che abbraccia i paesi del petrolio, amici e nemici; ma, anche, fa da contenimento, sotto la pancia del Caucaso e della Cina».
C’è bisogno di essere più chiari? Certo, per chi ha letto l’elezione di Obama dopo 8 anni di presidenza Bush come la vittoria del pacifismo sull’aggressività militare, come il trionfo della democrazia sull’autoritarismo, come la riscossa del policentrismo sull’unipolarismo, in definitiva come l’affermazione del bene sul male, questi sono tempi di grande smarrimento.
Avendo sempre contestato una siffatta visione delle cose, a differenza di tutti i confusionari di “sinistra”, non solo non siamo “smarriti”, ma ritroviamo puntualmente nei fatti la conferma delle nostre analisi. Analisi che l’Annunziata – ovviamente da un punto di vista opposto al nostro – conferma integralmente.
In primo luogo il suo editoriale ci dice che non esiste soltanto una crisi economica, ma che dentro di essa esiste una specifica e non meno importante crisi dell’occidente. In secondo luogo, l’Annunziata ha ben chiaro qual è l’obiettivo della guerra afghana: contenere l’Asia e la Cina in particolare, isolare l’Eurasia, minacciare i paesi che non si piegano a partire dall’Iran. In terzo luogo il suo articolo esplicita la finalità strategica di questa azione: il rallentamento, se non proprio l’arresto del tendenziale declino dell’area occidentale rispetto a quella emergente ad est. In quarto luogo essa ci dice senza infingimenti che questi obiettivi possono essere perseguiti solo con l’azione militare, di cui si chiede coerentemente l’intensificazione.
A questo punto risulta chiara l’assurdità della pretesa discontinuità tra Bush ed Obama. Ed è significativo che la continuità tra questi due presidenti sia non solo ammessa, ma apertamente rivendicata da una giornalista che non può certo essere ricompresa nelle fila dei nostrani neocons.
Ai sinistro-confusionari che un anno fa esultarono per l’elezione di Obama sfuggiva infatti un piccolo particolare: che quello appena eletto altri non era che il 44° presidente dell’iperpotenza americana, una potenza indebolita ma estremamente determinata a combattere per mantenere la propria condizione di predominio sul pianeta. E che per far questo altro non poteva fare che continuare le guerre del suo predecessore.
Chi ha ancora dei dubbi legga i numeri dell’escalation in Afghanistan, dove si passerà dai 10mila soldati americani del 2001, ai 100mila del 2010. E se ha dei dubbi sulle analisi degli antimperialisti legga almeno l’Annunziata, che perlomeno non nasconde dietro un dito le ragioni della guerra che Obama combatte in rappresentanza delle classi dominanti dell’occidente.
La redazione
Obbligati a finire l’opera
di Lucia Annunziata
Per capire la decisione di Obama sull’Afghanistan val la pena di ripassare alcuni numeri. Nel 2000 i paesi occidentali producevano da soli il 55% della ricchezza mondiale – nel 2025 produrranno il 40%. In quella data, l’Asia ne produrrà il 38%, rispetto all’attuale 24. Un sostanziale pareggio. Demograficamente il rapporto fra Ovest ed Est si può raccontare in maniera ancora più spettacolare: nel 2025 la popolazione di America ed Europa insieme costituirà il 9% di quella mondiale (nel 19° secolo, all’apice della sua influenza, l’Europa da sola rappresentava il 22%, cioè quanto la Cina oggi), mentre l’Asia ospiterà il 50% dei cittadini del mondo. Come dire: in quindici anni una persona su due al mondo sarà asiatica.
Leggendo questi numeri, tratti da uno studio della influente Fondazione Notre Europe, di cui è oggi presidente l’ex ministro del Tesoro Tommaso Padoa-Schioppa, c’è una sola domanda cui rispondere: possono davvero Usa ed Europa non impegnarsi a fondo nella guerra in Afghanistan?
Il legame fra quel conflitto e la velocissima ridefinizione in corso dei rapporti di forza internazionali è forse poco apparente, ma fondamentale.
La guerra afghana non è stata iniziata dall’attuale Presidente americano e sicuramente quando è stata avviata era stata immaginata dall’allora presidente Bush nel contesto dell’attacco dell’11 settembre agli Usa. Ma fin da allora la discesa in campo di Washington aveva sullo sfondo l’Asia, e la Cina in particolare. A fronte della rapida crescita di quell’area del mondo, gli Stati Uniti si sono ritrovati in effetti privi di efficaci strumenti di intervento, proprio nella data che ha fatto da spartiacque fra un secolo e un altro.
La Nato, principale struttura del governo occidentale per quasi mezzo secolo, è stata costruita con in mente la minaccia sovietica della Guerra Fredda. Le alleanze mediorientali, un cesto misto di Israele più un gruppetto di Paesi arabi moderati, sono state tirate su con l’idea che Washington potesse agire, in quella area, via controllo remoto. Cioè tirando i fili da lontano, grazie alle molte leve di aiuti economici, interventi coperti, petrolio e lobbismo. Uno schema di lavoro diplomatico-militare applicato d’altra parte dagli Usa in molte altre aree del mondo, tutte quelle più o meno catalogate «in via di sviluppo».
Strumenti vecchi, dunque, per una visione vecchia del mondo. Mentre ancora in Occidente, guardando ai resti del Muro, ci si gingillava con il concetto di Fine della Storia, la Vecchia Talpa era in effetti già riemersa altrove. Senza farla troppo lunga, dal momento che questa è ormai cronaca sotto gli occhi di tutti, la globalizzazione ha espanso la ricchezza di paesi fino a poco prima «in via di sviluppo», ed ha avviato un capovolgimento in poco più di venti anni del rapporto di forze tra nazioni. La Cina, con il suo grande balzo verso il capitalismo, è stata uno dei motori della globalizzazione, come sappiamo. Si è trascinata dietro l’intera Asia, come sappiamo. Le domande poste da questa crescita hanno direttamente alzato la pressione intorno alle fonti energetiche, al potere di acquisto e alla supremazia produttiva dell’Occidente. In questo senso l’attacco terroristico iniziato contro di noi nel 2001 non è l’inizio delle guerre che oggi sono in corso, ma è il frutto e la rappresentazione del potenziale tellurico che c’è in questo cambiamento di rapporti di forza. Anche questo sappiamo.
Quello che meno sappiamo, da occidentali, da almeno un decennio, è come confrontarci con queste nuove richieste di questi nuovi poteri. Bush, dopo l’emergenza del 2001, ebbe una idea. Discutibile, come è stata, ma sicuramente una idea. Avanzare il fronte della presenza americana. Avanzarlo letteralmente – nel senso, cioè, di creare attraverso le invasioni di alcuni paesi nuove roccaforti di presenza Usa, piantate direttamente nel cuore dei nuovi equilibri. Il controllo dell’Iraq, dell’Afghanistan, del Pakistan, che direttamente o meno gli Usa si ritrovano, aggiunto alla solida alleanza con l’India, forma, se guardiamo alle carte geografiche, una lunga fascia di presidio diretto. Una sorta di cintura Gibaud, che abbraccia i paesi del petrolio, amici e nemici; ma, anche, fa da contenimento, sotto la pancia del Caucaso e della Cina.
Le guerre di Bush sono state molto criticate, e si sono rivelate certo meno efficaci e veloci di quel che il Presidente allora aveva promesso. Ma l’idea del«Contenimento» dell’Asia e della Cina in particolare è di sicuro oggi il punto numero uno dell’agenda mondiale. Contenimento nel senso di espansione di influenza, ma anche, e per ora soprattutto, nel senso di accesso alle fonti di energia. Questo è da dieci anni il nuovo potenziale conflitto nel mondo.
Obama non solo lo ha ereditato, ma rischia addirittura di esserne schiacciato: il ruolo che la Cina ha avuto e può avere nella crisi economica americana è oggi infatti il vero tallone d’Achille del presidente Usa.
Certo, Obama non è Bush. Non crede alla guerra come soluzione unica e finale. È arrivato al potere promettendo rispetto e parità nelle relazioni fra nazioni. Si è impegnato a farlo usando tutti gli strumenti che già conosciamo, e se possibile inventandosene di nuovi. Rapporti bilaterali, allargamento delle organizzazioni internazionali, dialogo fra culture. Ma la sua posizione di trattativa non può che passare anche attraverso la riaffermazione del potere militare del suo paese.
Per questo non può abbandonare l’Afghanistan, per questo non può che impegnarsi in un braccio di ferro con l’Iran, per questo non può che consolidare l’influenza Usa in Iraq – insomma, non può che finire quello che Bush ha iniziato. Nel mondo, come dicevamo, l’Occidente si avvia a essere minoranza. È importante – e questo vale anche per l’Europa – che essere minoranza non significhi anche diventare marginali.
da La Stampa del 2 dicembre 2009