Davvero Ankara vuole sganciarsi dalla tutela occidentale?
La dura condanna dell’aggressione israeliana a Gaza, lo storico accordo con l’Armenia, la riapertura delle frontiere con la Siria, l’accordo con la Russia sul gasdotto Southstream, la difesa turca del presidente sudanese al-Bashir, infine l’avvicinamento con Tehran in aperta sfida alle direttive statunitensi. Le ultime mosse del governo Erdogan in politica estera stanno producendo una certa fibrillazione in Occidente. Cosa c’è dietro a questo sorprendente dinamismo turco?
Il 28 ottobre scorso la TV al-Jazeera trasmetteva un dibattito tra specialisti mentre il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan stava incontrando a Tehran il presidente Ahmadinejad. Ne consigliamo vivamente l’ascolto. In quel viaggio Erdogan assicurò al suo interlocutore l’opposizione turca ad eventuali sanzioni anti-iraniane (la Turchia è membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU) e assicurò l’appoggio turco al programma nucleare pacifico della Repubblica islamica. Una cosa è sicura, dai tempi del rovesciamento dello Scià mai i rapporti tra i due paesi medio-orientali sono stati così stretti.
La comune fede islamica spiega solo in minima parte questo avvicinamento. Ci sono sotto, tra i due paesi confinanti, ben più consistenti motivi. Questioni geopolitiche intrecciate a reciproche convenienze economiche. La Turchia sarebbe ben disposta a far passare sul suo territorio gasdotti e oleodotti per trasportare gas e petrolio dall’Iran all’Europa. Via di transito che Tehran preferirebbe a quella russa. D’altra parte entrambi le capitali sono da tempo strette da un patto: impedire che nasca uno stato curdo indipendente nel nord dell’Iraq, ipotesi caldeggiata da potenti frazioni dell’establishment americano.
Questo connubio, sancito dal viaggio di Erdogan, è stato enfatizzato da Tehran, che ha sottolineato le durissime critiche verbali di Erdogan alla politica antipalestinese israeliana. Ma questo elemento ideologico, certamente decisivo per Tehran, non andrebbe esagerato, visto che Ankara non è giunta a rompere il suo patto di cooperazione militare con Israele. Né Erdogan ha mai affermato di voler mettere in discussione l’appartenenza del suo paese alla NATO.
Sarebbe tuttavia un grave errore sottovalutare l’attivismo geopolitico del governo di Erdogan. L’incontro svoltosi nei giorni scorsi a Washington tra Obama e Erdogan ha confermato i dissapori tra i due paesi. Erdogan ha ripetuto ad Obama la propria contrarietà sul tema scottante delle sanzioni contro l’Iran. D’altra parte, pur mantenendo la guida delle forze NATO a Kabul, Erdogan ha confermato il rifiuto turco ad inviare rinforzi in Afghanistan. Di sicuro gli americani non sottovalutano un simile dissenso, comprendono, come minimo, che la Turchia (ma lo si era intuito sin dai tempi dell’aggressione all’Iraq, quando Ankara rifiutò ogni coinvolgimento nella guerra) di Erdogan bada anzitutto ai suoi interessi nazionali strategici, che non vuole più giocare il ruolo di cane da guardia della NATO nella regione, tanto meno vuole restare l’avamposto occidentale contro la Russia.
Il Pentagono, per bocca di alcuni suoi portavoce ha sottolineato l’importanza di questo riorientamento della politica estera turca avvenuto col governo Erdogan. Soner Cagaptay del “Washington Institute”, afferma senza mezzi termini che Ankara procede verso una vera e propria autonomizzazione dagli USA, mentre guarda al Sudan, all’Iran, ad Hamas ed Hezbollah. Lo stesso analista fa notare come “La Russia nel 2008 ha sostituito la Germania come primo partner commerciale di Ankara, i cui scambi con l’Occidente sono diminuiti del 50%”. Un riorientamento geopolitico che dunque sarebbe accompagnato da quello economico e commerciale, con una Turchia che la gravissima crisi economica e finanziaria dell’Occidente spinge a guardare sempre di più ad oriente.
Quanto respiro possa avere questa svolta di Erdogan è ancora presto per dirlo. Ad Ankara è infatti in atto un vero e proprio braccio di ferro tra il governo Erdogan, sostenuto dal suo partito AKP (Partito della giustizia e dello sviluppo) e l’onnipotente oligarchia militare di tradizione kemalista, da sempre il vero asse portante del potere politico in Turchia, un’oligarchia corrotta e tentacolare che chiede che la Turchia resti ciò che è sempre stata, un fedele alleato degli USA e dell’Occidente imperialistico, e che quindi si oppone frontalmente al riorientamento geopolitico promosso da Erdogan. E’ nota la tradizione di colpi di stato cruenti con cui i militari hanno ripreso il controllo del potere ogni volta che esso gli era sfuggito di mano. Tentativi golpisti reiterati, visto che lo stesso Erdogan ne ha recentemente denunciati più d’uno.
Il problema è dunque se il governo dell’AKP riuscirà a tenersi in sella, e per quanto tempo ancora. Un fatto è certo, Erdogan non piace né agli Usa né alla NATO. I suoi nemici tenteranno, prima o poi, di rovesciarlo con le buone, facendo affidamento sui due partiti di tradizione kemalista (il CHP, Partito popolare repubblicano e il MHP, ovvero i famigerati “Lupi grigi”). Altrimenti è sempre possibile che essi ricorrano all’extrema ratio del golpe militare.