Indagine sulla situazione sociale e politica egiziana

Dopo i violenti “moti del pane” della primavera 2007 (moti che dilagarono a macchia d’olio in diversi paesi del “terzo mondo”), e lo sciopero generale dell’aprile di un anno dopo, in Egitto regna un’apparente pace sociale. Il tirannico regime di Hosni Mubarak difficilmente l’avrebbe scampata senza gli aiuti elargiti da Washington. L’Egitto è infatti un perno cruciale della pax americana in Medio oriente, e questo spiega come mai questo paese venga subito dopo Israele in quanto a sostegno finanziario da parte degli Stati Uniti. Nonostante l’appoggio dell’Occidente e dei regimi del Golfo ad esso alleati, il sistema rimane sull’orlo del collasso.

 

Le rivolte sociali

I commentatori arabi non del tutto asserviti ai loro committenti non hanno dubbi: paesi come la Giordania, il Marocco e l’Egitto, contrariamente all’apparenza, sono segnati dall’intreccio di una profonda crisi, economica, sociale, politica e istituzionale. Inflazione fuori controllo, livelli di povertà e disoccupazione endemici, welfare pressoché inesistente, corruzione e nepotismo dilaganti, meccanismi istituzionali ed elettorali truffaldini. I regimi si tengono in piedi solo grazie ad una repressione sistematica e al sostegno, sempre più cieco quanto vergognoso, dell’Occidente.
L’Egitto è una cartina al tornasole dei pericoli che gravano sui fragili equilibri che legano, come in un sistema di vasi comunicanti, i paesi del Medio oriente a quelli del Maghreb, e quindi all’Africa sub-sahariana.

Se nel biennio 2004-2005 il paese fu scosso da proteste di piazza deliberatamente politiche, ovvero animate da forze d’opposizione, in primo luogo dalla coalizione di sinistra Kifaya e dai Fratelli Musulmani, nel biennio successivo, 2007-2008, le proteste, ben più ampie, furono spontanee, causate da motivi legati all’aggravarsi delle già pessime condizioni di vita degli strati più poveri della popolazione. La rivolta del marzo 2007, più nota come “rivolta del pane”, causata appunto dall’improvvisa carenza di pane a prezzi calmierati, pur repressa con la forza, diede il via ad un prolungato movimento di scioperi che proseguì per un anno intero, fino allo sciopero generale nazionale del 6 aprile 2008, in occasione del quale, in numerose città egiziane, decine di migliaia di dimostranti scesero in strada e si scontrarono con le forze di polizia e l’esercito. La sommossa durò due giorni e solo con grande fatica il regime riuscì a sedarla, che infatti rinnovò, rendendolo permanente, lo Stato d’emergenza.

Il quadro politico

Ad un anno da quelle rivolte popolari l’Egitto è intrappolato nella morsa di ferro del regime di Mubarak, un regime monopolizzato dal suo partito (Partito Nazionale Democratico), che  a sua volta altro non è che un  aggeggio del suo proprio clan, ma dove l’Esercito gioca la parte del leone.
Un sistema politico ingessato, che non riesce nemmeno a fare finta di fare delle aperture alla cosiddetta “società civile”, teso anzitutto alla sua perpetuazione. Non che non si sia rafforzata negli ultimi decenni una borghesia nazionale. Questa in effetti è ben forte, ma solo in quanto si è deliberatamente messa sotto l’ala protettiva del clan Mubarak. Terrorizzata dall’eventualità che il crollo del regime mubarakista travolga le sue posizioni monopoliste, questa borghesia è attaccata al regime come un lichene alla pianta. Questa potente borghesia condivide col regime il terrore di ogni cambiamento. Ha ben impresso nella mente i risultati delle elezioni parlamentari del 2005, quando, malgrado un astensionismo che sfiorò l’80%, la lista dei Fratelli Musulmani (legalizzati all’occasione) ottenne il 20% dei seggi, malgrado la legge elettorale blindata a favore dell’oligarchico PND. La risposta fu pronta: i Fratelli Musulmani vennero nuovamente banditi, molti loro dirigenti arrestati, e le elezioni municipali del 2006 vennero annullate. Mubarak non ha solo paura di una rivolta generale, ha paura anche di quell’autoriforma che i settori più illuminati del regime ritengono necessaria. Così il regime, assediato, si è barricato nel suo fortilizio.

Le opposizioni politiche non musulmane

E’ senso comune tra i cittadini egiziani che il paese sia alle porte di un profondo cambiamento.
Quale esso sarà nessuno lo ha chiaro. Se il regime non fosse in grado di auto-riformarsi (ammesso e non concesso che ciò sia sufficiente ad evitare uno scoppio violento dei conflitti sociali) spetterà alle opposizioni dimostrare se sapranno sfidare il potere per rovesciarlo. Ma quali sono queste opposizioni? Se escludiamo l’ipotesi della riforma dall’interno, caldeggiata da personaggi di spicco vicini a Mubarak (e la si deve escludere perché questa corrente “liberale” non ha un peso reale nel PND, né tanto meno un seguito di massa), abbiamo tre forze principali.
La prima è quella rappresentata dal Movimento Egiziano per il Cambiamento, più noto come Kifaya (Basta!). Fondato nell’agosto del 2004, questo movimento ha avuto molta eco a causa delle sue coraggiose battaglie sociali e per i diritti civili. Esso è in verità non un partito, ma una coalizione di correnti, sostanzialmente movimentista e di “nuova sinistra”, nel quale coabitano sia frazioni rivoluzionarie e antimperialiste, che correnti più moderate. Ha un peso nell’intellighentia, sia musulmana che cristiana, come un ruolo importante nel represso movimento sindacale. L’idea centrale di Kifaya è che il regime non sia riformabile e che debba essere rovesciato attraverso una mobilitazione diretta popolare. Le opinioni riguardo al sistema sociale da costruire dopo l’abbattimento del sistema PND, sono tuttavia diverse, si va dal socialismo rivoluzionario a versioni nazionalizzate e arabizzate di socialdemocrazia.

La seconda forza d’opposizione di una certa consistenza è quella che si raggruppa attorno al prestigioso giornale al-Badeel (l’Alternativa), capeggiato da uno dei più autorevoli intellettuali egiziani: Mohamed el-Sayed Said. Militano attorno ad al-Badeel, democratici radicali in stile europeo, vecchi intellettuali marxisti, come anche nasseriani ed ex-panarabisti. In poche parole si tratta d una sinistra moderata o “riformista”, che guarda deliberatamente agli esperimenti della sinistra latino-americana, anzitutto a quella del PT di Lula in Brasile.

La terza forza d’opposizione a Mubarak è quella rappresentata dal Fronte Democratico, fondato nella primavera del 2007. Un movimento di impronta chiaramente conservatrice e borghese, con la testa rivolta al liberalismo europeo, ostile ad ogni mutamento che non sia nel quadro del sistema vigente. Il suo leader più importante, Osama Ghazali Harb, parlamentare e noto giornalista, è stato anche membro del governo, fino a quando non si è dovuto dimettere a causa delle pressioni dell’establishement del PND. Dilaniato dalle lotte intestine il Fronte Democratico è attualmente in grave crisi. Ma non va sottovalutato a causa delle simpatie che esso gode non solo in Europa ma pure oltreoceano.

I Fratelli Musulmani

I Fratelli Musulmani (formalmente illegali) sono, grazie al grande seguito che hanno nei più diversi strati sociali del paese, di gran lunga la forza principale dell’opposizione. Anche i Fratelli Musulmani attraversano una grave crisi interna, divisi in due correnti in accanita lotta fra loro: un’ala “modernista” che vorrebbe coniugare precetti islamici e democrazia e un’apertura agli occidentali, e una più dura e intransigente, se non proprio salafita che vorrebbe in Egitto l’applicazione della sharia.
Il recentissimo Ufficio Guida, l’organo dirigente della Fratellanza, riunitosi il 21 dicembre scorso, ha confermato la spaccatura. I suoi 16 membri hanno deciso per la linea intransigente, escludendo quello “moderati”, tra cui il loro leader, il parlamentare Mohammed Habib. Non è dato sapere con esattezza quali saranno le implicazioni politiche e tattiche di questo esito. I più noti analisti egiziani tuttavia non hanno dubbi: la vittoria dei “conservatori” significa che i Fratelli Musulmani, volteranno le spalle all’idea di una partecipazione attiva al processo politico, non sigleranno accordi con le altre opposizioni e si focalizzeranno sulle questioni sociale e religiose, non parteciperanno dunque alle elezioni parlamentari del 2010. Alcuni maliziosi esponenti delle altre correnti d’opposizione non hanno esitato a valutare la vittoria dell’ala dura che pensa ad una “fuga dal politico”, non solo come segnale di radicalizzazione religiosa, ma un vero e proprio favore a Mubarak, che senza la Fratellanza in lizza potrà dormire sonni più tranquilli.
Ma queste letture dietrologiche hanno in verità poca credibilità. Un fatto è infatti sicuro, che la vittoria dell’ala dura è una grave sconfitta per gli USA, che con Obama stanno tentando in ogni modo di agganciare le correnti disponili ad un compromesso con l’imperialismo proprio in vista del crollo delle varie satrapie come quella di Mubarak.

Elezioni in vista

Nel 2010 ci saranno in Egitto le elezioni parlamentari e nel 2011 quelle presidenziali. Kifaya, dopo le grandi manifestazioni antigovernative della settimana scorsa ha già annunciato, attraverso il suo coordinatore Abd al-Hamid che, date le regole truccate con cui le elezioni si svolgeranno, chiamerà al boicottaggio del voto. Una posizione che viste la percentuale di non votanti alle ultime elezioni (circa l’80%) punta a delegittimare non solo il regime, ma le elezioni come una farsa.

Per quanto riguarda le presidenziali del 2011 è noto come Mubarak e il suo clan punti a far eleggere come presidente suo figlio Gamal, dando così via ad una nuova dinastia mediorientale. Per assicurarsi in anticipo la vittoria i Mubarak (padre e figlio ) hanno fatto approvare a passo di corsa una insidiosa riforma costituzionale, esattamente all’articolo 76, per cui il presidente sarà d’ora in avanti eletto a suffragio universale (ovvero come di norma da circa il 20% degli elettori). Tutte le forze d’opposizione sono insorte, denunciando questa modifica come una fraudolenta istituzionalizzazione della dittatura presidenzialista, ovvero del predominio assoluto del clan Mubarak.
Per di più, col nuovo articolo 76, un filtro rigidissimo è stato apposto affinché un cittadino possa effettivamente candidarsi. Egli dovrà ottenere il consenso di almeno 250 membri dei parlamenti nazionali o locali. Dato che il PND è di fatto il partito che detiene quasi la totalità dei parlamentari è facile immaginare che questi apporranno il loro consenso solo a candidati di partito o a loro alleati.
Infine, a sottolineare il suo carattere truffaldino, l’articolo 76 stabilisce che solo partiti legali potranno presentare candidati, escludendo così non solo i Fratelli Musulmani e Kifaya, ma ogni forza politica che non vada a genio del regime.
Da qualsiasi punto di vista si guardi la situazione egiziana, i prossimi due anni saranno davvero cruciali. Un’evoluzione che condizionerà tutti gli equilibri regionali, così come eventuali fratture che dovessero insorgere in Medio oriente, avranno profonde ripercussioni in Egitto.