Per una critica dei rivoluzionari che hanno perso la bussola
Il mediatico fuoco di fila occidentale contro Ahmadinejad è davvero impressionante. L’obbiettivo è talmente palese da risultare spudorato: rovesciarlo. Che ci sia una regia dell’assordante campagna mediatica tesa a sputtanare ed isolare il “tiranno”, non vi può essere alcun dubbio. Si tratta della ben nota “guerra psicologica” imperialistica. La centrale di disinformazione strategica statunitense passa le veline a quella internazionale la quale, come un pappagallo, ripete a memoria il mantra. Il mantra per funzionare deve essere semplice, codificabile, comprensibile, affinché la beota opinione pubblica possa introiettarlo senza fatica. La lotta sarebbe tra teocrazia e democrazia, tra il dittatore e la maggioranza del popolo. Anche questa volta certi “rivoluzionari” occidentali (della sinistra non vale più la pena nemmeno parlarne) hanno fatto propri sia il vocabolario “politicamente corretto” che la tavola simbolica di valori dell’Impero.
C’era una volta una sinistra che si considerava marxista che non solo agitava una scala di valori diversa e opposta a quella imperialista, che riusciva, sul solco di una gloriosa tradizione intellettuale, a dare lezioni a quella dominante in fatto di analisi critica dei processo sociali, che non si accasciava ai piedi dei puerili schemi politici “borghesi” e che anzi smascherava come ideologici cioè mendaci.
Quale fosse la madre di tutte le trappole ideologiche borghesi Marx l’aveva indicato a suo tempo: era la pretesa delle diverse classi dominanti di presentare i loro meschini interessi di parte come gli interessi generali del popolo, della nazione. Oggi, nell’epoca del predominio imperiale americano, questa menzogna ideologica si presenta nella sua forma concentrata, distillata e più cruda. L’impero a stelle e strisce, difendendo il proprio predominio mondiale veste i panni di paladino degli interessi di tutta l’umanità. Anzi, divinizzando questa sua mera funzione secolare, afferma di rappresentare il bene in lotta contro il male.
In un simile contesto compito primario di qualunque forza che si pretenda rivoluzionaria dovrebbe essere quello di smascherare questa brutale pretesa ideologica, questo dualistico schema imperialistico. Invece ciò vien fatto a singhiozzo, un po’ sì e un po’ no, a seconda dei casi e della convenienza tattica. Non è conveniente, qui in Occidente, difendere l’Iran, e perché non è conveniente? Perché qui, in Occidente, la campagna di hitlerizzazione e di satanizzazione di Ahmadinejad ha fatto ampiamente breccia. Perché qui da noi l’ordine regna sovrano, ove per ordine deve intendersi, non i carri armati ai crocicchi, ma l’egemonia totale e pervasiva dell’ideologia imperialistica politicamente corretta. Essendo troppo scomodo dire la verità, anche i pretesi rivoluzionari si adeguano e, alla ricerca di un effimero consenso, declinano le stesse menzogne, raccontano, seppure con diverse parole la medesima “grande narrazione” democratica.
Un caso esemplare di questo tipo ce lo fornisce, pensate un po’, proprio il Partito Comunista dei Lavoratori, col suo comunicato diffuso il 28 dicembre.
Già il titolo la dice lunga: “IL PCL A FIANCO DELLA RIVOLTA POPOLARE IN IRAN”. Ma sentiamo il seguito: «Il Partito Comunista dei Lavoratori (PCL) sostiene pienamente la rivolta popolare in atto in Iran contro un regime dispotico e teocratico. La sollevazione di giovani e di donne per i diritti civili e le libertà democratiche sfida coraggiosamente il regime, reagisce con la propria forza alla sua brutalità, produce le prime crepe nell’apparato repressivo dello Stato. La parola d’ordine del rovesciamento del regime, e di un’Assemblea costituente, libera e sovrana, è la parola d’ordine del momento. Un’irruzione sul campo dell’enorme forza della classe operaia iraniana, ponendosi alla testa della rivolta, spazzerebbe via il regime e aprirebbe la strada di una vera alternativa: contrastando il tentativo di forze borghesi, interne ed esterne, di subordinare il movimento ad una soluzione filo-occidentale. Tutte le sinistre italiane debbono mobilitarsi a sostegno del movimento di massa iraniano, per il rovesciamento del regime, a favore della prospettiva di una repubblica dei lavoratori in Iran».
Se sorvoliamo sulla solita litania della “irruzione della classe operaia”, alla cui salvifica e redentrice capacità non credono davvero nemmeno coloro che la invocano; il succo del discorso è il medesimo dell’esercito crociato della salvezza imperialista: “pieno sostegno … alla sollevazione di giovani e di donne per i diritti civili e le libertà democratiche”.
Ci sono tre errori gravissimi che il PCL compie a sostegno della sua posizione, ovvero del suo appello a rovesciare il governo di Ahmadinejad.
Il primo: l’Iran sarebbe un “regime teocratico”, una “tirannia”. Una semplificazione meschina, che proclama la propria ignoranza riguardo alla complessa dialettica politica della Repubblica islamica. Il secondo: che le manifestazioni di piazza sarebbero una “rivolta popolare”, esagerando le dimensioni minoritarie e a carattere prevalentemente borghese dei tumulti. Il terzo: in nessuna considerazione viene preso il posizionamento geopolitico dell’Iran, il suo sostegno alle resistenze antimperialiste.
Come i nostri lettori più assidui sanno bene, noi non pensiamo affatto che il movimento di protesta che da giugno scorso scuote Tehran sia riducibile ad una “rivoluzione colorata”, che sia cioè orchestrato e pilotato… dalla CIA. Che l’Occidente tenti di eterodirigere le proteste non c’è alcun dubbio, tuttavia il movimento di piazza, come mesi addietro ci sforzavamo di dimostrare, era l’espressione di crepe profondissime in seno allo stesso regime della Repubblica islamica. Che i due candidati sconfitti come Moussavì e Karroubì, pezzi da novanta del regime khomeinista, si atteggino a leader della protesta, che essi la cavalchino, a noi pare un segno inconfondibile della lotta che divide gli stessi centri di potere islamici. Se c’è una fatturazione interna alla Repubblica Islamica quale delle frazioni che si affrontano sarebbe quella “teocratica”? Davvero lo è quella che sostiene Ahmadinejad? In realtà, come gli iraniani sanno bene è proprio il grosso del clero sciita ad opporsi, in nome della fedeltà alla rivoluzione khomeinista, ad Ahmadinejad, il quale è in verità sostenuto da un blocco politico-militare nient’affatto clericale e che anzi gode di un grande sostegno popolare proprio in virtù di questo suo anticlericalismo. Non si tenti tuttavia di interpretare questa fratturazione con gli schemi laicisti europei, che nella complessa società iraniana non hanno corso.
Verrebbe da dire quindi che proprio coloro i quali inneggiano al rovesciamento di Ahmadinejad si trovano dalla medesima parte dei teocrati, dei seguaci del “velayat e-faqih” che negli ultimi anni sono stati emarginati dal blocco politico-militare che fa capo ai Pasdaran.
Il secondo gravissimo errore di chi inneggia ai manifestanti è di considerare quella in atto una rivolta popolare di massa. Certo, che essa non sia scemata poco dopo le proteste post-elettorali, che abbia potuto resistere per mesi, ciò dimostra che ha solide radici. Non si tratta di sottovalutare la forza delle aspirazioni democratiche che muovono i manifestanti. Tuttavia, se le mobilitazioni non avessero goduto e non godessero dell’appoggio della gran parte degli ayatollah ( e di quel demiurgo che risponde al nome di Rafsanjanì), difficilmente staremmo qui a parlarne. Che la protesta sia una vera rivolta popolare di massa è un’evidente esagerazione. Le sue dimensioni sono invece ben più modeste. Di massa, e con dimensioni impressionanti, è stata invece la manifestazione di segno opposto organizzata l’altro ieri a Tehran, quella in difesa del governo. Non è sufficiente occupare le prime pagine dei giornali e dei Tg occidentali affinché un movimento sia realmente di massa. Basta poco per andare sulle prime pagine, basta scontrarsi con la polizia, ricorrere ad azioni esemplari violente, ed ecco che un nano sembra un gigante. Né va sottovalutata l’abilità dei manifestanti e dei loro leader nell’usare certe forme di protesta per catalizzare l’attenzione dei media mondiali. Sono i trucchi del mestiere nella “società dello spettacolo”.
Ma qui non si tratta solo di dimensioni modeste. Dovrebbe essere banale, per forze che rivendicano con ostinazione il proprio marxismo, chiedersi quale sia il carattere di classe di un movimento. Come mai si glissa bellamente questa domanda? La risposta è semplice: non c’è alcun dubbio che il movimento di protesta, e questo spiega perché non ha un vero carattere di massa, è inequivocabilmente “borghese”. Il grosso di coloro che scendono in piazza, e questo è vero anche per gli stessi analisti occidentali, è composto dai rampolli dei ceti e delle caste dominanti, di ceti e gruppi che negli ultimi anno hanno perso forza, privilegi e rango sociali, proprio a causa della politica redistributiva a favore dei ceti più umili praticata da Ahmadinejad. Populismo! Populismo! Questo è il grido di battaglia dell’Occidente politicamente corretto, un grido purtroppo raccolto a piè pari dalla stessa sinistra e che ricorda da vicino l’approccio spocchioso e sospettoso che inizialmente fu adottato verso Chavez.
Last but not least. Questa sinistra si rifiuta di considerare un altro primario elemento di giudizio: il carattere antimperialistico della direzione politica e del governo iraniani. Ci sarà una ragione per cui la mediatica corte dei miracoli occidentale, agli ordini di Washington e Tel Aviv, da tanta importanza alle fibrillazioni iraniane? Il fatto è che l’Iran di Ahmadinejad è considerato oggi dal blocco imperialista, il pericolo pubblico numero uno. Tehran sostiene Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina. Armerebbe milizie in Afghanistan, Iraq e Yemen. Stipula alleanze geopolitiche con paesi che gli USA non fanno mistero di volere annientare. Si starebbe dotando della bomba atomica, nel qual caso tutti gli equilibri mediorientali faticosamente tenuti in piedi dagli USA e che vedono l’entità sionista come baricentro, salterebbero per aria.
Non siamo stati indulgenti per il ruolo nefasto (accordo di condominio con gli occupanti angloamericani) che l’Iran (al tempo non a caso governato proprio dal blocco “riformista” che oggi sfida Ahmadinejad) ha giocato in Iraq; ma che oggi un crollo di Ahmadinejad rappresenterebbe una sconfitta dalle conseguenze tremende per tutte le resistenze, anzitutto quelle palestinese e libanese, solo i tonti o chi fosse in perfetta malafede, potrebbero negarlo. La caduta di Ahmadinejad avrebbe dunque conseguenze nefaste, se ne avvanteggerebbero solo gli imperialisti, Israele e le loro satrapie arabe. Né ci guadagnerebbero un fico secco le opposizioni antisistemiche e antimperialiste in Occidente le quali, per quanto si sentano infastidite dal ruolo comprimario che si trovano ad assolvere, non sono che forze ausiliarie delle Resistenze di “Primo Fronte”.
Domanda: possono i rivoluzionari accettare lo scambio tra questo cataclisma geopolitico e un po’ più democrazia interna in Iran? Noi riteniamo di no, noi crediamo che sarebbe uno scambio catastrofico.
Che poi la vittoria dei nemici interni di Ahmadinejad porti in Iran un regime “liberale”, con pieni diritti democratici e civili, noi ne dubitiamo fortemente. In mano di chi cadrebbe infatti il potere dato che le proteste sono egemonizzate dalle tradizionali frazioni clericali? È molto probabile che lo “squalo” Rafsanjani abbia la meglio, ed è notorio, anche perché al potere c’è stato a lungo, quale sia il suo modello autoritario, in salsa cinese, di cui è portatore. Più diritti avranno non gli oppressi e gli sfruttati iraniani, ma solo i dominanti, i quali vorranno rimangiarsi tutto ciò che è stato dato ai primi proprio da Ahmadinejad.
Alla fine, chi oggi perora il rovesciamento dell’attuale governo iraniano, nello sciagurato caso ciò accadesse davvero, si troverebbe nella tragicomica situazione, non solo di aver aiutato l’imperialismo ad ottenere un’altra decisiva vittoria, ma aver legittimato l’ascesa al potere di regime peggiore di quello attuale.
P.s.
Nelle dimostrazioni di protesta degli ultimissimi giorni pare stia avvenendo una svolta, simboleggiata dal fatto che accanto allo slogan “Marg bar diktator!”, “Morte al dittatore”, ne viene lanciato un altro “Khameneì assassino, la tua leadership è illegittima!”. Che Moussavì e buona parte degli ayatollah continuino a sostenere le proteste malgrado il fuoco si sia apertamente indirizzato anche sulla “Guida suprema”, è un segno che la lotta di potere interna al regime è oramai giunta ad uno snodo delicatissimo. Se un compromesso tra le frazioni in lizza saltasse, se Ahmadinejad non fosse in grado di compiere una mossa politica che spiazzi i suoi avversari, una stretta repressiva sarebbe inevitabile. Ma su quale scala di ampiezza? L’arresto di Ibrahim Yazdì, ex primo ministro degli esteri di Khomenì, è un segnale che potrebbe indicare che le cose volgono proprio verso la stretta autoritaria e la sconfitta dei “riformisti”. Un bagno di sangue dunque? O con la decapitazione dell’opposizione le acque si calmeranno? Alberto Negri sul Sole 24 ore del 29 dicembre sostiene che “Occorre aspettarsi di tutto, oltre l’immaginabile”. Vedremo. Certo è che siamo alle porte del match decisivo, in cui i due opposti campi misureranno la forza reale di cui dispongono, dove il criterio decisivo per misurare questa forza sarà anzitutto il reale sostegno di massa e popolare di cui essi dispongono.