
Cosa sta succedendo in Pakistan? Anche le cronache di questo inizio anno riportano questo Paese in primo piano, mentre è sempre più evidente la sua stretta connessione con la guerra afghana.
Su questo complesso scenario si confrontano diverse ipotesi, soprattutto sul reale obiettivo strategico degli Stati Uniti. Tra queste, c’è quella sostenuta anche da Franco D’Attanasio nell’articolo che pubblichiamo di seguito, secondo cui l’obiettivo finale di Washington sarebbe la disintegrazione dello Stato pachistano (oltre che di quello afghano) attraverso fratturazioni pilotate su base etnica. E’ un’ipotesi elaborata dagli strateghi del Dipartimento di Stato americano già negli anni scorsi, e pensata per l’intero scacchiere da loro stessi denominato “Grande Medio Oriente”.
Proprio per questo non è un’ipotesi da sottovalutare, anche se per fortuna la storia – compresa quella più recente – insegna come molto spesso gli strateghi dell’imperialismo finiscono per muoversi come il più incauto degli apprendisti stregoni.
Al di là delle chiacchiere obamiane
di Franco D’Attanasio
Prendo spunto da un interessante articolo di Webster G. Tarpley, pubblicato su megachip, dal titolo “Obama dichiara guerra al Pakistan” per mettere in rilievo alcuni aspetti della strategia americana in AfPak (così come oramai sulla rete viene denominata tale scenario di guerra), che mi sembrano dirimenti per cercare di avere un quadro un po’ più chiaro della situazione, non solo militare, ma anche politica e sociale nei due paesi asiatici costretti a subire l’aggressione criminale degli Stati Uniti d’America e dei suoi reggicoda europei.
L’autore dichiara senza mezzi termini che “Non siamo più di fronte alla guerra contro l’Afghanistan di Bush e di Cheney cui eravamo abituati in passato. È qualcosa di enormemente più vasto: il tentativo di distruggere il governo centrale pakistano di Islamabad e di far sprofondare quel paese nel caos della guerra civile, nella balcanizzazione, nella frammentazione e nella confusione totale. La strategia prescelta si basa sull’esportazione della guerra civile afghana in Pakistan e oltre, sulla frammentazione del Pakistan secondo i suoi diversi gruppi etnici. …. Nel mondo del cinismo brusco dell’aggressione imperialista à la Bush e Cheney, si sarebbe costruito un pretesto per attaccare il Pakistan in modo diretto. Ma il Pakistan è di gran lunga troppo esteso e gli Stati Uniti sono di gran lunga troppo deboli e troppo indebitati per una tale impresa. Inoltre, il Pakistan è una potenza nucleare, dispone di bombe atomiche e di missili a media gittata atti a lanciare tali bombe.“
Da tutto ciò risulta abbastanza chiaro il fatto che, di fronte ad enormi difficoltà di diversa natura (non solo militare), dato che la situazione in Afghanistan e Pakistan non può essere normalizzata secondo i propri desideri di supremazia ed egemonia, gli USA stiano decisamente imboccando la strada del caos, che quantomeno impedisce anche alle altre potenze in ascesa (Russia, Cina ma anche l’Iran sebbene, per adesso solo su scala regionale) di trovare un terreno favorevole al fine di coagulare alleanze (nell’area geografica medio-orientale e dell’Asia centrale, divenuta oramai determinante nella lotta multipolare) e conseguenti strategie possibili, atte a meglio rintuzzare e contrastare il potere mondiale a stelle e strisce.
“La vulnerabilità del Pakistan che gli Stati Uniti ed i loro soci della NATO stanno cercando di utilizzare per il proprio tornaconto si può comprendere meglio consultando una mappa dei gruppi etnici prevalenti in Afghanistan, Pakistan, Iran, ed India. La maggior parte delle mappe mostra soltanto i confini politici che risalgono ai tempi dell’imperialismo britannico, e quindi mancano di riportare i principali gruppi etnici della regione. Ai fini della nostra analisi, dobbiamo iniziare con l’identificare un certo numero di gruppi. Prima di tutto il popolo Pashtun, situato principalmente in Afghanistan e in Pakistan. In secondo luogo abbiamo i beluci, localizzati principalmente in Pakistan e in Iran. I punjabi abitano il Pakistan, così come i sindhi. La famiglia Bhutto è originaria del Sindh.”
“La strategia USA e NATO comincia con i pashtun, il gruppo etnico dal quale provengono in larga misura i cosiddetti talibani. I pashtun rappresentano una parte consistente della popolazione dell’Afghanistan, ma sono stati estromessi dal governo centrale sotto il Presidente Karzai a Kabul, sebbene lo stesso Karzai, marionetta degli USA, passi per essere lui stesso un pashtun.
La questione riguarda l’Afghan National Army (l’Esercito Nazionale Afghano), che è stato creato dagli Stati Uniti dopo l’invasione del 2001. Gli alti ranghi dell’esercito afghano sono costituiti prevalentemente da tagiki provenienti dall’Alleanza del Nord che si era coalizzata con gli Stati Uniti contro i talibani pashtun. I tagiki parlano il dari, noto anche come persiano orientale. Altri ufficiali afghani provengono dal popolo degli hazara. La cosa importante da rilevare è che i pashtun si sentono degli esclusi.
La strategia USA si può meglio intendere come sforzo deliberato teso a perseguitare, attaccare ripetutamente, antagonizzare, assaltare, reprimere ed uccidere i pashtun. Il contingente di ulteriori 40mila soldati USA e NATO chiesto da Obama per l’Afghanistan si concentrerà nella provincia di Helmand e in altre aree in cui i pashtun sono maggiormente concentrati. Il risultato finale sarà quello di istigare alla ribellione i pashtun, ardentemente indipendenti, nei confronti di Kabul e dell’occupazione straniera, e allo stesso tempo di spingere molti di questi combattenti mujahiddin di recente radicalizzati ad attraversare la frontiera con il Pakistan, per dichiarare guerra al governo centrale ad Islamabad. Gli aiuti statunitensi giungeranno direttamente ai signori della guerra e ai signori della droga, incrementando in tal modo i movimenti centrifughi.
Dal lato del Pakistan, i pashtun sono stati allontanati dal governo centrale. Islamabad e l’esercito sono visti come emanazioni dirette dei punjabi, con qualche elemento di origine sindhi. Sul versante pakistano del territorio pashtun, le operazioni americane includono assassinii all’ingrosso perpetrati da velivoli senza pilota o da droni, omicidi effettuati dalla CIA e, secondo quanto si dice, dai cecchini della Blackwater, oltre a massacri terroristici alla cieca come quelli avvenuti di recente a Peshawar che i talibani del Pakistan attribuiscono alla Blackwater, che agisce in qualità di subcontractor della CIA. Queste azioni sono intollerabili ed umilianti per uno stato sovrano orgoglioso. Ogni qualvolta che i pashtun subiscono un attacco violento, essi accusano i punjabi di Islamabad per le loro losche trame con gli USA che rendono possibile che tutto questo avvenga.
L’obiettivo più immediato di Obama nell’escalation Afghanistan-Pakistan è quindi di promuovere una rivolta secessionista generale dell’intero popolo pashtun sotto gli auspici dei talibani, che dovrebbe avere già provocato la distruzione dell’unità nazionale sia di Kabul sia di Islamabad.”
Anche Pepe Escobar in un suo recente articolo parla esplicitamente della questione dei Pashtun: essendo il confine Nord del Pakistan con l’Afghanistan del tutto artificiale in quanto creato dall’imperialismo britannico alla fine dell’800, l’etnia Pashtun, forte dei propri legami con il Golfo Persico e con la maggior parte dei paesi dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, militarmente rappresentata da una miriade di gruppi taliban, “strategicamente incarnano una deliziosa ironia: un movimento rurale, ultrareligioso, nazionalista che combatte con le unghie e con i denti un corrotto governo a base urbana come se fossero una fantasia post-coloniale del nobile selvaggio tribale – alla Rousseau – in lotta contro l’Occidente colonialista.” Quel che sognano dunque gli strateghi americani, militari e non, è proprio che lo stato pakistano crolli per sempre, dilaniato da uno scontro all’interno dell’esercito tra punjabi e pashtun.
Altro gruppo etnico nelle mire statunitensi è quello dei beluci, che questa volta però non vedono di buon occhio la repubblica islamica dell’Iran, in quanto in mano ai persiani; inoltre, secondo Webster G. Tarpley, la CIA nel Belucistan iraniano starebbe finanziando il Jundullah, un movimento sanguinario che, secondo le autorità di Teheran, sarebbe stato protagonista proprio dell’attentato, avvenuto non molto tempo fa, ai danni di diversi capi dei pasdaran. La ribellione dei beluci manderebbe così in frantumi l’unità nazionale di Pakistan e Iran, favorendo in tal modo la distruzione di due dei principali bersagli della politica USA. D’altronde quest’ultimo obiettivo sarebbe confermato anche dal professor Chossudovsky: già nel 2005, un rapporto del National Intelligence Council USA e della CIA prevedeva un “destino jugoslavo” per il Pakistan «nel tempo di un decennio con il paese lacerato dalla guerra civile, i bagni di sangue e le rivalità interprovinciali, come si è visto recentemente in Belucistan.» Washington favorisce la creazione di un “Grande Belucistan”, che dovrà integrare le aree Beluci del Pakistan con quelle dell’Iran e possibilmente della punta sud dell’Afghanistan, portando quindi a un processo di frattura politica in Iran e in Pakistan.»
Ma perché gli Stati Uniti si sarebbero posti come un obiettivo fondamentale la “balcanizzazione” del Pakistan? “Uno dei motivi è che il Pakistan è tradizionalmente un alleato strategico e un partner economico della Cina, un paese che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono determinati a contrastare e contenere sulla scena mondiale. In particolare, il Pakistan potrebbe funzionare come un corridoio energetico in grado di collegare i giacimenti petroliferi dell’Iran e perfino dell’Iraq con il mercato cinese per mezzo di un gasdotto che attraverserebbe l’Himalaya sopra il Kashmir. Si tratta della cosiddetta questione del “Pipelinestan”. Questo garantirebbe alla Cina un approvvigionamento di petrolio ancorato alla terraferma non soggetto alla superiorità navale anglo-americana, oltre a tagliare la rotta di 12mila miglia delle petroliere lungo il bordo meridionale dell’Asia. Cina e Pakistan stanno già lavorando su una proposta di posa di un oleodotto trans-himalayano per trasportare il greggio mediorientale fino alla Cina occidentale. Il Pakistan offre alla Cina il più breve percorso possibile per importare petrolio dai paesi del Golfo. La conduttura, che andrebbe dal porto meridionale pakistano di Gwadar e seguirebbe l’autostrada del Karakorum, sarebbe in parte finanziata da Pechino.” In definitiva questo oleodotto rivestirebbe un’importanza per la Cina di enorme portata in quanto veicolerebbe, non soltanto la materia prima di cui ha bisogno per soddisfare la sua domanda di energia in forte ascesa, ma anche l’influenza economica e politica in Medio Oriente ed Asia centrale, aspetto quest’ultimo che certo non fa dormire sonni tranquilli all’establishment statunitense.
La logica dunque che sta alla base dell’occupazione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti – sempre celata dietro la facciata della lotta all’estremismo islamico, propaganda ben articolata secondo le migliori tecniche attualmente in auge – è pura “strategia di dominio ad ampio spettro del Pentagono: spiare meglio la Cina e la Russia da postazioni avanzate dell’impero delle basi” [Pepe Escobar]. Difatti, quello cinese per gli USA, non è l’unico, per così dire, fronte di guerra in Medio Oriente ed Asia Centrale, ne esiste un altro forse più problematico e complesso, quello russo; l’orso euro-asiatico è in gran risveglio e non ha assolutamente intenzione di retrocedere nemmeno di un millimetro nella sua azione di costruzione della propria aria di influenza, atta a cooptare soprattutto le ex repubbliche asiatiche sovietiche. I due gasdotti North Stream e South Stream, almeno per adesso, sembrano avanzare speditamente, cosa sicuramente non secondaria, poiché oltre a rendere del tutto sconveniente il progetto rivale Nabucco (patrocinato dagli USA e dalla UE) e quindi a far sì che le risorse di gas del Mar Caspio e dell’Iran possano prendere altre direzioni invise agli stessi USA, costituisce un potente fattore di attrazione di alcuni paesi europei (come l’Italia e la Germania) in favore della Russia stessa. D’altronde il Cremlino non si fa scrupoli e non si pone problemi di natura formale (secondo quelli che sono i più classici canoni diplomatici), mostra tutta la sua aggressività, e per bocca del suo primo ministro Putin, dice chiaramente che per ristabilire un certo equilibrio (in prima istanza militare, ma con risvolti anche economici e politici) la Russia ha urgente bisogno di rafforzare tutto il suo potenziale bellico; giacché lo scudo antimissile americano, seppur ridimensionato rispetto alle iniziali intenzioni di Washington e del Pentagono, costituisce un’arma che permetterebbe agli Stati Uniti di fare molto di più di quanto fanno attualmente, ed in tutti i campi, non solo militare.
da http://conflittiestrategie.splinder.com