Le “cinque teorie” di Hu Jintao

Nel dicembre del 1978 il Comitato centrale del Partito Comunista Cinese, con Deng Xiaoping ormai ben saldo alla sua direzione, svolgeva la sua storica Terza sessione plenaria. Storica perché, seppellendo per sempre la turbolenta stagione della “Rivoluzione culturale”, fu essa a segnare la svolta delle profonde riforme sociali ed economiche, verso il “socialismo di mercato” o, come il Pcc più precisamente definisce, “socialismo dalle caratteristiche cinesi”. Ventinove anni dopo, in occasione del 17. Congresso del Partito comunista cinese (15 ottobre 2007), Hu Jintao celebrava quella svolta rendendo omaggio alla “teoria di Deng Xiaoping”, rubricandola come teoria ufficiale del partito e qualificandola come quella  che superava il “Mao Zedong pensiero”.     

Da quel momento non era più la lotta di classe il principio guida del partito,  bensì “il progresso e lo sviluppo economico”, ovvero la trasformazione della Cina in una grande e moderna potenza mondiale. Sembra ieri ma sono passati ben 31 anni, un’intera generazione. In questo lasso di tempo la Cina ha conosciuto un’avanzata sconvolgente in ogni campo, nulla di simile, invece, sul piano del pensiero politico. Il Pcc non ha aggiunto in effetti nulla al “Deng Xiaoping pensiero”, che il  Pcc considera come l’ultima frontiera in fatto di “teoria comunista”. Per questo merita la massima attenzione “la teoria dei profondi cambiamenti” o delle “cinque teorie” partorita dal Presidente Hu Jintao e resa nota settimane or sono.

Si tratta di un documento diffuso nel novembre scorso di cui conosciamo uno scarno ma eloquente sunto in lingua inglese. Un documento di una raccapricciante povertà teorica, ma che tratteggia in cinque essenziali punti la visione del mondo dei dirigenti cinesi e dunque la loro strategia di lungo periodo. Che i sodali di Hu Jintao lo imbellettino come una grande “teoria innovativa” non deve stupire. E’ invece letteralmente impressionante che ci siano in giro per il mondo “comunisti” i quali, rimasti orfani di “babbo URSS”, si siano gettati tra le  braccia di “mamma Cina ancora rossa” e, in questa posizione pubescente, facciano gli Osanna! ai dirigenti cinesi qualificandoli teorici rivoluzionari provetti. Un caso pittoresco è quello del sito la cina rossa che, presentando ai suoi lettori la “teoria dei profondi cambiamenti” di Hu Jintao, così esordisce:

«Mentre i marxisti e la sinistra antagonista occidentale dormono sonni profondi in campo teorico, almeno nella loro maggioranza, il partito comunista cinese (Pcc) continua il suo lungo lavoro di ricerca innovativa sul fronte ideologico-culturale. Il compagno Hu Jintao, segretario generale del Pcc, ha esposto un nuovo lavoro collettivo di approfondimento del partito in campo teorico, e cioè la teoria dei “profondi cambiamenti” in materia di politica internazionale contemporanea». La qual cosa ci fa venire in mente la caustica battuta con cui Mao apostrofò i destri filosovietici del partito (tra i quali al tempo si annoverava anche Deng): “Per certi compagni le scoregge dei russi profumano”.

Ma lasciamo al loro destino questi visionari che considerano l’avanzata del capitalismo cinese come surrogato di quella rivoluzionaria e antimperialista e occupiamoci di cose serie. Veniamo alla “teoria dei profondi cambiamenti” o “cinque teorie”. Ecco quali sono: “La  teoria dei profondi cambiamenti, la teoria del mondo armonico, la teoria dello sviluppo comune, la teoria della responsabilità congiunta e la teoria della partecipazione attiva”.

Hu Jintao, riallacciandosi addirittura nel titolo del suo contributo alla più classica visione cinese del mondo per cui quest’ultimo conoscerebbe un’unica certezza, l’incessante cambiamento, ribadisce questo principio, sottolineando che oggi giorno saremmo dentro un “cambiamento senza precedenti”.
Egli si riferisce anzitutto al sistema di relazioni internazionali e al rango delle potenze in via di ri-sistemazione. In particolare da un ordine mondiale monopolare caratterizzato dalla totale egemonia del blocco occidentale capeggiato dagli USA, si sta passando ad un ordine mondiale multipolare. Hu Jintao su questo punto è più preciso, sottolinea infatti che questo passaggio s’impernia su due nuove grandi potenze emergenti: Cina ovviamente, e India. E’ rimarchevole che nessun altro paese venga nominato. Un cambiamento, quello in questione, “… estremamente profondo e complesso, denso di sfide ma pieno di opportunità”. Hu Jintao prende subito nota delle resistenze a questa trasformazione, che i “paesi più sviluppati cercano con ogni mezzo possibile di difendere il loro rango e dunque di mantenere e di espandere il vecchio ordine mondiale a loro favorevole”.

Viene immediata la domanda: come la Cina pensa di far fronte alla potenziale minaccia del blocco imperialistico dominante? Hu Jintao evita affermazioni univoche e roboanti, o offensiviste, in ciò attenendosi alla nota Strategia dei 24 caratteri del suo maestro politico Deng Xiaoping: «Osservare con calma, consolidare la nostra posizione, affrontare le situazioni con tranquillità, celare le nostre capacità e aspettare il nostro momento, mantenere un basso profilo e non rivendicare mai la leadership».
Una massima, questa di Deng, che altro non è se non una declinazione della antichissima saggezza taoista per cui “il molle e il debole sono destinati a vincere il duro e il forte”, ove il debole si attenga sempre al basso profilo, mai ostenti le sue reali intenzioni, mai forzi gli avvenimenti. Chi volesse infatti comprendere l’approccio strategico cinese in questa storica fase di passaggio, e dunque come i dirigenti di Pechino immaginano le relazioni con gli Stati Uniti, non può fare a meno di riferirsi a Laozi, patriarca semileggendario del Taoismo, che consigliava di attenersi, se si vuole ottenere la vittoria, al flusso dell’acqua, che si adatta ad ogni piega del terreno per garantirsi il suo corso, che malgrado sia l’elemento più arrendevole in natura è in grado di spezzare l’ostacolo più resistente.

Ai dirigenti cinesi non sfugge affatto che il passaggio da un ordine mondiale ad un altro rischi di essere segnato da inedite tensioni strategiche e profondi sconquassi geopolitici. Ma essi né hanno fretta alcuna, né vogliono suscitare l’impressione che Pechino sia nervosa, impaziente, o si stia preparando allo scontro frontale. Al contrario, essi puntano sui tempi lunghi, su mutamenti per dosi omeopatiche, tranquillizzano gli altri attori sulla scena mondiale, nella speranza che il terremoto in atto sia soffice, che il ridimensionamento degli USA e del blocco imperialistico prodotto dell’avanzata cinese, non precipiti in un conflitto che li coglierebbe impreparati. Perorano, almeno a parole, una specie di kantiana “pace perpetua”, in ciò plagiando ogni impero che si rispetti.
Salta agli occhi l’analogia con la dottrina strategica raccolta nei 36 stratagemmi, in particolare il IV. : “Attendere riposati l’avversario affaticato”, che fa coppia con quanto scritto nel Libro dei mutamenti: “Senza combattere direttamente l’avversario affliggerlo con situazioni logoranti”.

Hu Jintao aggiunge: “Politicamente il multipolarismo è irreversibile come pure la democrazia nelle relazioni internazionali. L’egemonia e la politica di potenza conoscono nuovi sviluppi e seguiranno nuove vie. Sta finendo l’epoca che vedeva l’equilibrio di potenze segnato da un forte Ovest e un debole Est, da un forte Nord e un debole Sud”.
Un’affermazione quanto mai indicativa del modo di vedere della leadership cinese, di una grande potenza in fieri che teme come la peste non solo un conflitto con gli americani, ma come perniciosa e deprecabile ogni perturbazione dei precari equilibri internazionali e dell’andazzo della globalizzazione.
Il discorso di Hu cade infatti sulla difesa della “sicurezza nelle relazioni internazionali”. Sentiamo: “Per quanto attiene alla sicurezza, malgrado pace e sviluppo si vadano consolidando, nonostante il rafforzamento della cooperazione e della sicurezza internazionale, conflitti locali e guerre non cesseranno mai. Minacce alla sicurezza, tradizionali e non-tradizionali sono interlacciate, Certe questioni calde non saranno risolte per lungo tempo”. Hu Jintao sottolinea tuttavia la necessità che questi conflitti siano risolti. Come? In “modo migliore”, cioè congiuntamente con le altre potenze multipolari.
Il che sta ad indicare che i dirigenti cinesi, per quanto a parole si presentino come leader e paladini del terzo mondo, non hanno alcuna intenzione di “sporcarsi le mani” con le resistenze popolari antimperialiste (Iraq, Afghanistan, Palestina, Libano, ecc) e nemmeno di sacrificare la propria “lunga marcia” verso la supremazia mondiale per salvare la pelle a questo o a quel regime in guerra o in conflitto aperto con gli USA o con altre potenze sub-imperialiste (Nord Corea, Nepal, Iran, Siria, Sudan, Cuba, Venezuela, ecc.).

Quali siano i terreni su cui Hu Jintao immagina che la competizione debba essere invece portata fino alle estreme conseguenze lo spiega in maniera chiarissima: quello economico. E’ su questo campo che la Cina ambisce a battere le vecchie potenze, è qui che la Cina getta il suo guanto di sfida. La qual teoria non è per niente nuova, anzi, ma una riedizione in salsa Han della famigerata teoria di Krusciov della “coesistenza pacifica”. Ma con una differenza essenziale. Mentre la competizione tra URSS e USA era tra due modelli sociali qualitativamente diversi e refrattari, caratterizzati da  un’economia pianificata di comando a collettivismo burocratico il primo, da un capitalismo mercatista e imperialistico il secondo; quella di cui Hu Jintao sta parlando, dopo che la Cina si è lasciata alle spalle da un pezzo quel modello fallito, è una gara con gli USA condotta con le sue stesse armi, coi suoi stessi principi di efficientismo tecnocratico e capitalistico.

Giulio Tremonti coglie a suo modo ma giustamente la radicale differenza tra l’espansionismo sovietivo e quello cinese: «La Cina non fa e non farà l’errore dell’URSS, che ha confuso la strategia con la tattica e il tempo strategico con il tempo tattico. L’URSS è stata forte nel mondo più o meno per mezzo secolo, ma è stata forte non solo e non tanto perché il suo hardware, la sua economia industriale, era allora più o meno militarmente competitivo, quanto perché l’ideologia comunista, il suo software di potere, esercitava in parallelo una forza attrattiva globale a favore dell’URSS. Per mezzo secolo questo mix ha funzionato. Poi ne è venuta la fine». [La paura e la speranza, Giulio Tremonti, Mondadori 2008]

Abbiamo avuto modo di sottolineare quale sia la natura di classe del sistema economico cinese, da esso dipende il carattere dell’avanzata economica cinese nel mondo: pur essendo diverso il modus operandi, quello essendi è pressoché il medesimo di quello occidentale. Certo i cinesi non pretendono, come facevano i sovietici e tutt’ora fanno gli americani, di satellitare rigidamente ogni paese nella propria sfera geopolitica di influenza obbligando i governi ad abbracciare l’ideologia politica cinese. La loro indifferenza e prudenza sul piano politico è pari soltanto alla loro aggressiva spregiudicatezza su quello squisitamente economico e finanziario. Se la Cina è legata a doppio filo agli USA, sorreggendoli col salvagente dei suoi ingenti investimenti su Wall Street, verso i paesi del terzo mondo nei quali esporta i suoi capitali (sottolineiamo quest’aspetto dell’esportazione di capitali e non solo di merci a basso costo), non si fa scrupoli di rispettare le consolidate regole del gioco, legali o illegali che siano (i cinesi se ne fregano del rispetto dei diritti umani, di pagare laute mazzette ai governanti, di fare affari coi più squallidi gangster politici), che implicano che ogni investimento deve fruttare profitti per le compagnie della madre patria, spesso a spese dei paesi depredati.

Più precisamente le “Cinque teorie” indicano i settori scientifico, tecnologico, cognitivo e informazionale i campi in cui la Cina può e deve sorpassare l’Occidente, campi che Hu considera decisivi, quelli su cui Pechino ritiene si giochi la partita strategica con le vecchie potenze. La ragione di questa centralità, e Hu lo sottolinea candidamente, dipende dal fatto che scienza e tecnologia sono la chiave di volta del “progresso”, ovvero per accrescere la produttività e l’efficienza, che poi grazie a tali progressi migliorerebbe anche il livello di vita dei popoli, ben venga.
Il culto vero e proprio delle innovazioni tecno-scientifiche emerge quando Hu Jintao, per ben due volte ripete, mostrando quanto sia distante dal maoismo, che queste innovazioni porterebbero con sé “un vero e proprio cambiamento del modo di produzione”.

Si capisce come alla Cina la globalizzazione calzi a pennello, malgrado alcune storture che non dipenderebbero dalla sua natura capitalistica e imperialistica, ma dalle politiche “egemoniste” dell’Occidente.
E’ solo a questo punto che Hu Jintao si concede un passaggio, diciamo così, arcigno, quando condanna la pretesa dell’Occidente (che mai tuttavia chiama imperialista, come del resto mai nemmeno si riferisce al capitalismo in quanto sistema) di “esportare la sua ideologia, il suo modello di sviluppo sociale, istigando ogni tipo di “rivoluzione colorata”.
Un passaggio che allude senza dubbio ai tentativi americani e occidentali di rovesciare i governi a loro ostili in giro per il mondo, ma che forse è di portata più modesta, e potrebbe suonare come un avvertimento agli americani che la Cina non può tollerare azioni eversive della sua sovranità, né al suo proprio interno (Formosa, Tibet e Turkestan orientale) né in quella che Pechino considera la sua vitale zona d’influenza regionale.

Per concludere. Che la Cina sia governata da un Partito che si chiama ancora “comunista”, che questo abbia 74 milioni di iscritti e sia quindi il più grande di ogni tempo, non contraddice affatto che esso sia un paese capitalista, dove vigono le più brutali ed essenziali leggi capitalistiche, tra cui quella essenziale che il profitto è il motore dell’economia e che questo sia ottenuto mediante uno sfruttamento intensivo dei lavoratori salariati. Per essere ancora più precisi: Pechino, sbarazzatasi di ogni disegno socialista come velleitario e utopistico, ha fatto suo il principio mercatista e americanista per eccellenza: che il profitto sia il principale parametro per giudicare l’efficienza e l’efficacia di un modello sociale. Anche qui, ci sia concesso, emerge un tratto saliente del Taoismo, che pare andare a nozze con un certo cinico pragmatismo a stelle e strisce, quello per cui occorre rifuggire da ogni telos, evitare di impiccarsi a qualche finalità etico-morale, per adattarsi piuttosto all’ordine delle cose.

Che la struttura sociale cinese, malgrado l’ideologia rivendichi la sua nominale continuità col maoismo, sia di tipo capitalistico, su questo, chi scrive, non ha dubbi. L’interrogativo, semmai, è un altro. E’ la Cina, già entrata nel novero delle grandi potenze economiche, destinata a trasformarsi in un paese imperialistico? O darà vita ad un differente modello espansionistico? E’ presto per dare una risposta. Che lo diventi o meno dipende da numerosi fattori, interni ed esterni, ad esempio dalle conseguenze dell’attuale crisi sistemica, una crisi che causerà grandi trasformazioni e che non lascerà indenne nemmeno l’Impero di mezzo.