Intervista ad Alfred Klein, del Comitato esecutivo internazionale del Campo antimperialista

D. Il Presidente degli Stati Uniti Obama ha recentemente deciso di aumentare le truppe di trentamila unità, alcuni paesi NATO faranno lo stesso. Per quali ragioni gli occidentali sono tanto determinati a continuare l’occupazione malgrado i rischi che corrono e i colpi che subiscono?

R. Chiariamo anzitutto che noi siamo stati tra i pochi che non si sono fatti illusioni sul “cambiamento” promesso da Obama. Come si dice: “gli americani non sono né buoni né cattivi, sono solo americani”, per significare che gli USA, quale che sia il presidente in carica, sono obbligati a seguire una politica aggressiva e imperiale, creatrice di crescenti tensioni internazionali, perché da questa dipende la loro supremazia, e dalla loro supremazia dipende la loro pace sociale interna e l’american way of life.

Per cinque ragioni principali Obama non ha cambiato la rotta stabilita dal suo predecessore.
La prima: gli Stati Uniti e la NATO si sono spinti troppo avanti con la loro arroganza imperiale, non possono permettersi né una ritirata né una sconfitta. In caso di sconfitta la supremazia americana riceverebbe un colpo letale, pari a quella subita a suo tempo in Vietnam, e la stessa alleanza militare NATO potrebbe sfasciarsi, spingendo l’Europa a riconsiderare la sua posizione subalterna rispetto agli USA.
La seconda: il controllo dell’Afghanistan è decisivo per la coalizione imperialista dal punto di vista strategico, perché consente di tenere sotto tiro non solo l’Asia centrale e il Pakistan ma pure l’Iran, il cui regime è considerato una grande minaccia.
La terza: occupando l’Afghanistan gli imperialisti puntano a spezzare la linea di congiunzione tra Mosca e Pechino, impedendo così la nascita di un blocco euro-asiatico ostile.
La quarta: l’Afghanistan è uno snodo molto importante per il passaggio dei futuri gasdotti dall’Asia centrale all’Asia. Chi controlla queste rotte può condizionare l’approvvigionamento energetico di colossi come l’India e la Cina. Né va dimenticato che dalla piazzaforte afghana si possono tenere sotto tiro le cruciali rotte del petrolio che passano per il Golfo.
La quinta, non meno importante: da circa vent’anni la resistenza islamica ha occupato la prima linea nella lotta all’imperialismo. Gli Stati Uniti hanno un assoluto bisogno di una vittoria esemplare e simbolica e pensano che in Afghanistan si possa e si debba ottenere questa vittoria.

D. Qual è il vostro giudizio sulla resistenza islamica?

R. Non abbiamo una, ma più resistenze islamiche. Non c’è alcun dubbio che negli ultimi vent’anni le resistenze popolari, non solo nei paesi arabi, hanno conosciuto un processo di islamizzazione. Un processo che ha cause storiche profonde, e che non dipende soltanto dalla sconfitta delle sinistre e dal crollo dell’URSS. La gran parte della sinistra occidentale è ostile a queste resistenze islamiche in virtù di un pregiudizio anti-religioso. Quest’approccio è profondamente sbagliato. Noi le giudichiamo invece in base ai fatti, dal nemico che combattono, dalla dinamica che la loro lotta innesca, dai risultati complessivi e particolari della loro eventuale vittoria. Da questo punto di vista le resistenze islamiche giocano un ruolo antimperialista, come lo giocano, seppure in maniera contraddittoria, governi come quello iraniano o sudanese. Che l’Islam possa svolgere un ruolo antimperialista lo si vede chiaramente con HAMAS in Palestina e Hezbollah in Libano. Ma lo abbiamo visto anche nell’inferno iracheno, dove il contributo di sangue dei militanti musulmani contro gli occupanti è stato enorme. Ma proprio la tragedia irachena ci fa vedere quanto possa essere autolesionistico l’Islam ultra-salafita (wahabita e takfirita). Se il nostro sostegno a movimenti come HAMAS ed Hezbollah è incondizionato, se la collaborazione si dimostra praticabile anche con la Fratellanza Musulmana, diverso è il caso coi movimenti di resistenza ultra-salafiti e jihadisti. Nessun fronte unito è possibile con chi teorizza una guerra stragista di sterminio contro comunità “colpevoli” di seguire una diversa fede religiosa, o perché certi loro capi tribù si sono messi al servizio degli occupanti. Resta il fatto che oggi giorno le resistenze islamiche sono un fattore importante della lotta globale contro l’imperialismo, in questo senso noi auspichiamo la costituzione di un comune fronte internazionale di tutti gli antimperialisti: dei combattenti dell’America Latina, di quelli indiani, pakistani, nepalesi e filippini, dei rivoluzionari dell’Occidente, come pure dei movimenti islamici come ad esempio quelli palestinese e libanese.

D. Non ti pare che anche i Taliban afghani siano integralisti? Non ti sembra che un fronte unito sia impossibile?

R. Anzitutto è falso che la Resistenza afgana sia solo Taliban. Essa è una Resistenza popolare e di massa, che fa perno non tanto su una singola organizzazione politico-militare, bensì sulle comunità di villaggio, sui qwam e gli Shura, su su fino alla confederazione tra tribù (ulus). Del resto i capi locali della Resistenza quasi mai sono ulema o mollah, ma giovani di ultima generazione, combattenti, (amir), raramente taleb usciti dalle madrasa. Del resto, “integralista”, oltre che essere un vero e proprio mantra della propaganda imperialista, è un aggettivo abusato che non spiega nulla. Ci sono musulmani per nulla salafiti o wahabiti, oppure salafiti ma aperti al dialogo con le altre forze della Resistenza, altri che teorizzano addirittura forme di “socialismo islamico” e che non si considerano meno musulmani dei cosiddetti “integralisti”.
Certo,  i Taliban sono seguaci di un Islam conservatore e patriarcale, tuttavia non ci risulta che essi abbiano, dal 2001 ad oggi, seguito una pratica wahabita o takfirita, come accaduto tragicamente in Iraq. Non si deve commettere l’errore di attribuire all’Islam ciò che invece appartiene alla tradizione atavica del “pashtunwali”. Non ci risulta che i Taliban abbiano attaccato le minoranze religiose che pure esistono nel loro paese, vedi quella shiita degli Azara.
Il problema in Afghanistan è semmai legato alla complessa composizione etnica del paese. E’ un fatto che la Resistenza è animata anzitutto dai pashtun, mentre la gran parte dei signori della guerra tagiki e uzbeki stanno dalla parte degli occupanti. Per di più è noto che nel variegato movimento di resistenza agli occupanti sono entrati a far parte anche tribù, giovani e comunità non Pashtun. E questo è un buon segno, poiché sarebbe tragico se la situazione afgana precipitasse (e questo è quello che sperano gli americani nel caso dovessero andarsene) verso una guerra civile come accaduto in Iraq e come accaduto nello stesso Afghanistan dopo la caduta di Najibullah nel 1992.
Per quanto attiene al fronte unito, a noi pare evidente che nessuna lotta nazionale di liberazione potrà vincere nemici tanto potenti senza la più larga unità popolare e senza un ampio sostegno internazionale. Le due cose sono legate l’una all’altra.
La giusta causa del popolo afgano non ha sino ad ora guadagnato i consensi che merita in Occidente. Ciò non è solo dovuto al carattere opportunistico delle sinistre, ma pure ai limiti dei nuclei dirigenti talibani della Resistenza, che spesso usano metodi di lotta stragisti e che non hanno ancora chiamato alla formazione di un fronte unito di liberazione nazionale. Tuttavia questo fronte è una necessità oggettiva e assoluta. La nostra speranza è che la Resistenza afgana comprenda che potrà vincere solo a patto di unire tutte le forze patriottiche.
Ci sono stati altri casi nella storia di unità tra chi ritiene di combattere anzitutto una Jihad e forze democratiche e rivoluzionarie non religiose. Certo, oggi come oggi, un fronte unito con i Taliban sembra impossibile. Ma quello che oggi appare “impossibile” potrebbe diventare possibile. Per di più ci sono vari gradi di unità tra forze diverse contro un comune nemico. Un fronte unito non è un matrimonio. Come dicono i cinesi: “Si può condividere lo stesso letto, senza condividere lo stesso sogno”. Il nostro sogno è certo diverso da quello dei Taliban, ma sia noi che loro, per realizzare il sogno, dobbiamo prima cacciare gli occupanti. E comunque forme di collaborazione possono e dovrebbero essere perseguite con tutte le milizie partigiane locali che non sono agli ordini dei Taliban.

D. Quindi ritieni che quella afgana sia una guerra di liberazione nazionale?

R. E cos’altro sarebbe se non una guerra di liberazione nazionale? Il paese è occupato da una coalizione straniera, da un’alleanza imperialista guidata dagli USA. Un’alleanza che non si fa alcuno scrupolo, che ricorre ai massacri come ai più temibili strumenti bellici, che usa in maniera criminale la sua schiacciante superiorità tecnologica e di armamento. Un popolo che lotta per cacciare gli invasori e gli occupanti non sta facendo altro che condurre una giusta guerra di liberazione nazionale. Non lo sostengono solo gli antimperialisti, ma ogni sincero democratico. Che sia così è sancito addirittura dalla Carta delle Nazioni Unite e dal diritto internazionale. In questo senso la Resistenza del popolo afgano è una lotta democratica, perché chiede l’autodeterminazione, perché vuole spezzare le catene imperiali. E’ quindi una lotta per il diritto di un popolo a decidere il suo proprio destino, e in quanto tale è una lotta di libertà.

D. Ma se vincessero i Taliban quale libertà e democrazia ci sarebbe per il popolo afgano? Sono già stati al potere e abbiamo visto che il loro regime non era altro che una dittatura oscurantista.

R. Tu stabilisci un triplice automatismo: vittoria sugli occupanti uguale vittoria dei taliban uguale dittatura dei taliban. Non c’è invece alcun meccanico rapporto di causa-effetto tra la sconfitta degli imperialisti, la vittoria della Resistenza e l’instaurazione di un regime taliban. La lotta di liberazione nazionale in Afghanistan non consiste in un singolo evento, sarà invece un processo lungo, che conoscerà diverse tappe. Molte cose potrebbero cambiare nel corso della lotta. Se in questo lasso di tempo i rivoluzionari afghani non fossero in grado di svolgere un ruolo determinante nella lotta di liberazione, se i Taliban consolideranno la loro leadership, allora sarà inevitabile che essi avranno una posizione di predominio nel futuro Afghanistan. E in questo caso se la saranno meritata. Ma la questione dell’esito della guerra è aperta, e dipende anche da cosa faranno le deboli forze rivoluzionarie afgane. Se esse non sapranno svolgere un ruolo attivo nella guerra di liberazione saranno condannate. Come condannati sono i vecchi notabili del PDPA, sia Parcham che Khalq, che si sono messi al servizio come lacché degli occupanti entrando nelle istituzioni fantoccio di Karzai.
Ma restiamo ai fatti. Anzitutto occorre cacciare gli occupanti. Questo è un compito di immensa importanza storica e internazionale. Una sconfitta degli americani e della NATO avrebbe un significato mondiale straordinario, darebbe forza e vigore a tutti i movimenti antimperialisti del “terzo mondo” e alle stesse forze rivoluzionarie in Occidente. Il particolare va subordinato al generale: sul piatto della bilancia una sconfitta dell’alleanza imperialista avrebbe un valore storico e strategico, mentre l’eventuale ritorno di un regime antidemocratico a Kabul avrebbe un valore relativo e limitato. In questo raccogliamo la tradizione del movimento comunista, il quale ha sempre affermato che davanti all’aggressione dell’avanzato e “democratico” imperialismo va difeso anche un paese arretrato fascista.

D. Cosa quindi vuoi dire alla sinistra internazionale?

R. Anzitutto di lottare contro la guerra psicologica dell’imperialismo, di non cadere nella trappola della propaganda occidentale, che giustifica le aggressioni col cinico pretesto missionario di “esportare la democrazia e i diritti civili”, e che prepara ogni guerra con l’hitlerizzazione e la satanizzazione dei suoi nemici. Una sinistra che non combattesse questa guerra psicologica sarebbe sinistra solo a parole. Purtroppo la gran parte della sinistra occidentale ha capitolato all’ideologia imperiale e, dietro alla già sbagliata posizione di apparente equidistanza, ha accettato l’ancor più sbagliata ideologia liberale che fa della democrazia la pietra angolare di ogni discorso, dimenticando poi che l’autodeterminazione nazionale è la madre di ogni diritto democratico, che i diritti di un popolo tutto intero sono più importanti dei singoli diritti civili delle persone, che i secondi non ci saranno senza il primo.

D. Cosa speri facciano dunque i rivoluzionari afgani?

R. La sinistra afgana ha una tradizione molto importante, ma ha subito una pesante sconfitta storica, anche a causa dei suoi stessi tragici e strategici errori. Sarebbe troppo lungo ripercorrere tutta la storia. Ma è un fatto che se fu un grave errore quello del PDPA di chiedere il protettorato sovietico,  fu un errore estremistico quello del governo Khalq di imporre riforme sociali dall’alto. Fu anche uno sbaglio quello compiuto dai maoisti, quello di diventare forza ausiliaria dei mojahidin, e quindi, indirettamente, di fare un servizio agli americani in funzione antisovietica. Alcuni compagni hanno fatto autocritica, hanno compreso questi errori. Altri invece no. Non si tratta tuttavia di perdersi in una discussione accademica o scolastica. La sinistra rivoluzionaria afgana risorgerà solo se saprà guadagnare un posto di primo piano nella lotta di liberazione nazionale. In questo senso noi l’appoggeremo con tutte le nostre forze.