Sulle vicende di Rosarno riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo dei compagni di Primomaggio

La rivolta dei lavoratori immigrati della Piana di Gioia Tauro e di Rosarno non è solo storia di razzismo, di miseria, di sfruttamento, di ‘ndrangheta. E’ anche storia di come cresce dentro di noi un nuovo mondo che scalza quello vecchio sempre più chiuso, opaco, ostile.
E’ storia di come cambia una terra che è stata terra di lotta contro lo sfruttamento e per la conquista di diritti, dignità, salario: la lotta dei “cafoni” contro gli “agrari”, la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori.
E’ storia di come cambia un’Italia che da paese di emigrazione diventa sempre più paese di immigrazione, ma dimentica le sofferenze di milioni di suoi figli (calabresi e non) fuggiti dalla miseria per riempire le fabbriche del Nord Italia e d’Europa.

In questa Italia che dimentica, dimentica anche questo Meridione. E in questo Meridione che dimentica, dimentica Rosarno, anzitutto i suoi morti: “A S. Anna di Seminara, Laureana di Borrello, Cittanova, Rosarno, Melissa e in decine di altri Comuni calabresi, il piombo degli agrari, spalleggiati dagli apparati repressivi dello Stato, semina morte” (cfr. Dalla Federbraccianti alla FLAI. 40 anni di lotta nella Piana di Gioia Tauro, Atti del convegno).
Oggi, di nuovo, come ieri, il “piombo degli agrari” “spalleggiati dallo Stato” versa il sangue dei lavoratori. Oggi a Castel Volturno come ieri a Portella delle Ginestre; oggi a Rosarno come ieri nella Corleone di Placido Rizzotto, delle lotte dei braccianti, delle occupazioni delle terre; oggi come ieri la Mafia spara con la protezione dello Stato che deporta centinaia di lavoratori immigrati rinchiudendoli nei CIE.

Questi lavoratori prima costretti a fuggire dalla povertà, poi sfruttati dagli agrari per pochi euro, quindi sparati dalla mafia e infine deportati e ingabbiati dal democratico Stato italiano nelle democratiche galere per immigrati da identificare ed espellere siamo noi quando eravamo emigranti: sfruttati e umiliati, noi “terroni” ci siamo guadagnati in Piazza Statuto, con la lotta, la nostra dignità. Con la lotta, senza aspettarsi nulla da uno Stato che “mette dentro” qualche mafioso e sentenzia: “colpiamo chiunque compia azioni illegali”, come se chi fa il “tiro al bersaglio” e chi fa il bersaglio potessero essere posti sullo stesso piano.
Se non si trattasse di una classica “riorganizzazione interna” (sgominare una cosca per fare spazio ad un’altra più amica) verrebbe da dire: ci voleva la rivolta dei lavoratori immigrati di Rosarno per ricordare allo Stato che in Calabria (e non solo) c’è la ‘ndrangheta (visto che al Consiglio Regionale del “centro-sinistro” Agazio Loiero, ovviamente, non se ne ricordano perché 2/3 dei membri è sotto inchiesta, di cui molti per reati di stampo mafioso).

Non c’è bisogno di ricordare quali siano le condizioni infami in cui vivono i lavoratori immigrati nel Meridione (ma anche in molte altre realtà). Quelle condizioni sono sotto gli occhi di tutti, ma tutti fanno finta di non vedere. Per pulire i culi ai nostri vecchi o ai nostri disabili, per sgobbare nelle “nostre” fabbriche, per costruire le nostre case, per coltivare le “nostre” terre, per spazzolare i nostri vestiti… i lavoratori immigrati vanno bene. E più poveri sono e meglio è, perché più una persona è povera e più è costretta ad accettare condizioni peggiori.
Poi, quando la raccolta degli agrumi termina, gli immigrati devono sparire come d’incanto e se non lo fanno spontaneamente bisogna costringerli a colpi di carabina, a colpi di spranga, a colpi di arresti, a colpi di deportazioni, a colpi di leggi razziste… Schiavi sì, ma solo se e quando servono, altrimenti niente di più che “esuberi umani”.

Che capiscano una volta per tutte che noi non li consideriamo uomini, ma bestie. E forse li consideriamo anche meno delle bestie perché noi, che siamo gente “sensibile” e “di buon cuore” – il paese dei navigatori e dei “poeti” – non lasceremmo mai che i nostri gattini o cagnolini o uccellini o tartarughini fossero trattati come lasciamo che siano trattati gli uomini e le donne che vengono a lavorare e a sudare in questo paese, contribuendo a crearne la ricchezza.

Quando sentiamo dire “Che ognuno se ne torni a casa propria!” ci corre un brivido lungo la schiena. L’idea che milioni di italiani con annessa discendenza “tornino a casa” è spaventosa anche solo a pensarsi. Poi però ci tranquillizziamo perché ci ricordiamo che il fondamento di ogni “razzismo”, di ogni “classismo”, di ogni “imperialismo” (in definitiva di ogni potere) è il principio secondo cui noi possiamo fare agli altri ciò che non accetteremmo mai che fosse fatto a noi: noi possiamo fare ciò che non consentiamo ad altri di fare perché noi siamo superiori, siamo “civili” e un uomo civile non può avere gli stessi diritti di un rumeno o di un cinese o – “Dio ci scampi” – di un negro. Ci mancherebbe.

Sarebbe troppo facile per noi che non viviamo in Calabria chiedere ai calabresi di ribellarsi alla ‘ndrangheta, allo Stato che la spalleggia, agli agrari e ai padroni a caccia di rendite e profitti. Noi stessi cosa facciamo contro i soprusi e le ingiustizie che subiamo quotidianamente?
Per ribellarsi ad un potere armato come quello mafioso (che però non fonda il proprio potere solo sulle armi, ma anche e soprattutto sulla sua forza economica e sulla sua capacità di prefigurare, sia pure illusoriamente o transitoriamente, una sorta di “emancipazione” dalla povertà che il “normale” capitalismo, in certe aree, non sarebbe in grado neppure di lasciar immaginare) non bastano le buone intenzioni e tanto meno le inchieste dei magistrati o le denunce degli scrittori.
Serve un altro potere capace di garantire la propria auto-difesa (che lo Stato non può e non vuole garantire) senza di che il destino di chi lotta può essere quello che ebbero gli attivisti che negli anni ’40 furono assassinati, a decine, dalla Mafia e dalle bande criminali con l’appoggio della “cristiana” DC, dei servizi segreti italiani e americani.
E serve – anche e soprattutto – una sorta di contro-potere di classe, ovvero una forza politica, sociale e sindacale fatta di lavoratori – italiani ed immigrati – senza la quale non avremo alcuna speranza di uscire dalla situazione attuale.

Nelle tante analisi che abbiamo letto sui fatti di Rosarno (e prima di Castel Volturno) si sottolineano spesso le condizioni di schiavitù a cui sono sottoposti i lavoratori immigrati. La definizione di schiavitù è giusta in un senso (la “schiavitù del lavoro salariato”) e tecnicamente inesatta in un altro. Aldilà di questo, ci sembra giusto e necessario in questa occasione porre l’accento non tanto sulla schiavitù, quanto sulla ribellione.

La rivolta di Rosarno non è stata una rivolta di schiavi perché chi si ribella non è più uno schiavo o una schiava: è un uomo, è una donna.

Schiavo è chi non si ribella.
Schiava è la Rosarno che tace, la Rosarno che dimentica.
Schiavi siamo noi.

Ai ribelli di Rosarno vada il nostro saluto fraterno e la nostra gratitudine per averci ricordato che una volta anche noi eravamo capaci di ribellarci. Anche noi eravamo capaci di essere uomini e non schiavi.

Gennaio 2009

PRIMOMAGGIO
Foglio per il collegamento tra lavoratori, precari, disoccupati