In molti si chiedono quale sia la posizione russa sulla guerra in Afghanistan. Molto semplice: il Cremlino putiniano (smentendo le sciocchezze di certi eurasiatisti), è strenuamente dalla parte degli americani e della NATO. Il diritto di transito offerto agli occupanti è sì un dettaglio tattico, ma nel quadro di una nettissima opzione strategica, quella di schiacciare la Resistenza popolare e di infliggere alle forze combattenti afgane, islamiche e non, quella batosta risolutiva che l’URSS non fu in grado di dare. L’articolo che pubblichiamo d’appresso, uscito sul New York Times dell’11 gennaio 2010 col titolo quanto mai eloquente “Consiglio russo sull’Afghanistan”, è addirittura scandaloso per la sua faziosità.

Perché la Russia sta al fianco degli Usa e della Nato

di Boris Gromov e Dmitry Rogozin*

La durata dell’operazione Nato in Afghanistan diventerà  presto comparabile a quella sovietica.
Tuttavia le azioni militari che noi conducemmo 20 anni fa differiscono molto da quelle odierne. Noi lottammo faccia a faccia contro i padri dei militanti Taliban di oggi, mentre gli eserciti Occidentali preferiscono combattere dal cielo. Questo permette loro di salvare le vite dei soldati, ma non li mette al riparo dai tragici errori che uccidono e feriscono civili inermi.

Ma non sono soltanto la natura della guerra e i suoi metodi che sono mutati; è il mondo intero che è cambiato. Per questo è sbagliato comparare queste due operazioni riferendosi ai costi in termini di vite umane e di danni morali e materiali.
La questione davvero decisiva è chiedersi quali saranno le conseguenze politiche per la Nato, la sicurezza Occidentale ed il futuro dell’Asia Centrale. È imperativo da tutti e tre questi punti di vista che la Nato tenga fede al suo impegno in Afghanistan.

Ci sono stati recentemente numerosi  appelli in Europa per accorciare il più possibile il periodo della presenza della NATO e dell’ISAF (Forza Internazionale di Sicurezza e Assistenza) in Afghanistan. Gli argomenti su cui poggiano  tali appelli sono sostanzialmente pacifisti ma al contempo   irresponsabili.
L’egoismo nazionale degli europei amanti della pace è comprensibile. C’è infatti un flusso costante di cattive notizie provenienti dall’Afghanistan — perdite militari, incidenti scandalosi che coinvolgono i soldati di Nato, l’attività dei terroristi e la sofferenza dei civili.
A nessuno piacciono le cattive notizie, specialmente se provengono dalle province dove sono schierati i soldati di questo o quel paese. Il problema afgano provoca un’irritazione crescente, la stanchezza e la sfiducia nell’opinione pubblica. Inoltre, lo stato delle sue truppe nella palude afgana danneggia l’immagine della Nato come “l’alleanza più efficiente nel mondo.”

La domanda sorge spontanea: “Perché mai dovremmo restare in questo ginepraio?” Mentre la forza principale della NATO, gli Stati Uniti, considerano la missione in Afghanistan come essenziale, l’alleanza include 27 altri stati membri, alcuni dei quali vi hanno preso parte per ragioni che hanno ben poco a che fare con la volontà di mettere in mostra l’eroismo in guerre lontane.
Per questo l’operazione ISAF in Afghanistan è senza dubbio il momento della verità per la Nato. Se l’alleanza non porta a termine il suo compito, gli impegni reciproci dei suoi 28 stati membri, sarebbero minati alle fondamenta, l’alleanza perderebbe non solo la sua base morale ma anche la sua stessa ragion d’essere.
Noi tutti sappiamo molto bene quello che accade ad alleanze che divengono insignificanti. La guerra in Afghanistan fu uno dei fattori cruciali che determinarono il  crollo dell’Unione sovietica.

Gli ufficiali di Bruxelles e di Washington che stanno pensando ad una strategia di rapida uscita per la missione ISAF, sono in realtà impegnati nell’elaborazione di un piano per il proprio suicidio. È probabile che un ritiro senza la vittoria provochi un crollo politico delle strutture di sicurezza Occidentali.
Questo produrrebbe conseguenze serie per la regione più di quanto non subì la Russia. Il ritiro sovietico dall’Afghanistan nel 1989 non fu una fuga vergognosa sotto i colpi dei mujahadeen.
L’Esercito sovietico entrò nel paese, portò a compimento i suoi compiti e, diversamente dagli americani in Vietnam, se ne tornò in patria.
Infatti, noi fummo i primi a difendere la civiltà Occidentale dagli attacchi dei fanatici musulmani. Nessuno ci ringraziò. Al contrario, ognuno si adoprò per impedire le nostre azioni: gli Stati Uniti, la Nato, l’Iran, il Pakistan, anche la Cina. Dopo il ritiro dell’Esercito sovietico, il governo di Najibullah che noi ci lasciammo dietro a Kabul, rimase al potere per altri tre anni.
È vero che le truppe sovietiche commisero errori seri in Afghanistan. Noi non avemmo insegnanti.

Quanto tempo l’attuale governo afgano resisterebbe oggi se fosse lasciato solo ad affrontare i Taliban? Un veloce scivolamento nel caos attenderebbero l’Afghanistan ed i suoi vicini di casa se la Nato se ne venisse via, fingendo di avere realizzato i suoi obbiettivi. Un esodo darebbe una spinta tremenda ai militanti islamisti, destabilizzerebbe le repubbliche centro-asiatiche e metterebbe in moto flussi di rifugiati, inclusi molte migliaia verso l’Europa e la Russia.
Darebbe anche una spinta enorme al traffico illegale di droga. La produzione di oppio in Afghanistan nel 2008 era di 7.700 tonnellate, 40 volte maggiore di quella del 2001, quando le forze internazionali arrivarono. Se nemmeno la presenza ISAF riesce a prevenire la crescita esplosiva del traffico di droga dei Taliban, allora non è difficile capire cosa accadrebbe in caso di ritiro. Gli occidentali si dilettano a contabilizzare le bare dei soldati Nato in Afghanistan, si dovrebbe ricordare loro di non dimenticare le bare di americani e di europei uccisi dall’eroina dei Taliban nei loro propri paesi.
Una “riuscita” dell’operazione in Afghanistan non ci sarà semplicemente con la morte di Osama Bin Laden. Il minimo che noi chiediamo alla Nato è il consolidamento del regime politico e la stabilizzazione del paese, prevenendo la talibanization dell’intera regione.

Questa è la posizione russa.
Noi siamo pronti ad aiutare la Nato a perfezionare il mandato in Afghanistan consegnatogli dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Siamo quindi costernati dal sentimento di capitolazione che alligna nella Nato, nascosto dai veli del “pacifismo umanistico” o dal pragmatismo.

Noi insistiamo che le truppe Nato restino nel paese fino a quando siano assicurate le condizioni necessarie affinché le  autorità locali siano stabili e dunque capaci di impedire alle  forze radicali di controllare il paese. Ecco perché noi stiamo aiutando la Nato, offrendogli sia il diritto di transito delle sue merci che l’addestramento del personale per l’Afghanistan, inclusi gli ufficiali anti-narcotici.

Tuttavia la nostra cooperazione con la Nato è  sostanzialmente limitata, dato che noi non stiamo dispiegando nostre proprie truppe. Noi siamo stati là già prima e non ci piacque affatto. Così noi stiamo addestrando, in caso di un fiasco della Nato, le Rapid Reaction Forces, formazioni operative di unità di élite composte dalla Russia e dai nostri alleati del CSTO (1).

Nel frattempo la Nato dovrebbe mettersi con impegno a studiare la nostra guerra in Afghanistan, quando l’Unione sovietica riuscì a impedire l’assalto furioso di fondamentalisti islamici per ben dieci anni.

(1) (Collective Security Treaty Organization – Organizzazione del Trattato della Sicurezza Collettiva. L’alleanza che unisce la Russia alle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, paesi che controllano le vie di accesso dall’Europa  verso l’Afghanistan e che consentono alla Nato il transito alla scopo di aggirare il Pakistan – NdR).

*Boris Gromov è attualmente governatore della regione di Mosca e fu l’ultimo comandante sul campo delle truppe sovietiche in Afghanistan. Dmitry Rogozin è l’ambasciatore della Russia presso la Nato.

(Traduzione a cura della Redazione)