Verso le elezioni del 7 marzo
Il 19 ottobre scorso informavamo i lettori degli ultimi sviluppi della scena politica irachena, così come era emersa dalle elezioni provinciali del gennaio 2009, e segnalavamo come il dato saliente, oltre alla bassa percentuale dei votanti, fosse la spaccatura all’interno della compagine che governa questo paese dal 2005. Il blocco di gran lunga dominante questa compagine era la Alleanza Irachena Unita la quale, sotto l’egida del grande Ayatollah al-Sistani, raggruppava de facto quasi tutta la galassia shiita, anzitutto le due forze principali, il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq (ex-SCIRI) di Abdul Aziz al-Hakim, e il Partito Islamico Dawa, guidato dal primo ministro Nuri al-Maliki (SCIRI e Dawa, le due forze che con l’appoggio dichiarato dell’Iran, combatterono a suon di bombe il regime baathista di Saddam Hussein).
Alle porte delle elezioni parlamentari del 7 marzo questa spaccatura del mondo shiita iracheno, lungi dal sanarsi, si è accentuata: da una parte la “Alleanza per lo Stato di Diritto”, capeggiata appunto dal Dawa del primo ministro Nuri al-Maliki, dall’altra la neocostiuita “Alleanza Irachena nazionale”, la cui spina dorsale rimane l’ex-SCIRI. Non si tratta di differenze religiose, ovviamente, ma di squisite divergenze politiche, tattiche e strategiche, dove la “Alleanza Irachena nazionale” appare come una vera e propria agenzia di Tehran, mentre la “Alleanza per lo Stato di Diritto” è in verità molto più vicina agli interessi degli occupanti americani. Entrambi questi blocchi, pur essendo anzitutto shiiti, giocano, allo scopo di attrarre i voti sunniti, la carta del “nazionalismo iracheno”.
Tuttavia, come vedremo più avanti, un altro grave motivo di scontro è improvvisamente piombato sulla scena.
Il ginepraio delle forze in lizza
A testimonianza della estrema polverizzazione del panorama politico iracheno (le cui cause attengono alla politica, al confessionalismo religioso, all’appartenenza etnico-linguistica ma pure all’appartenenza tribale o di clan) basti pensare che la Commissione elettorale centrale ha sancito l’esistenza di ben 86 forze politiche e di 12 coalizioni.
Ma cinque “soltanto” quasi certamente si accaparreranno il 90% circa dei seggi in palio (forze locali potrebbero avere un discreto successo in alcune province). Coalizioni, appunto, alquanto eterogenee al loro interno.
(1) Quella accreditata come la vincente è la “Alleanza per lo Stato di diritto” del Primo Ministro Nuri al-Maliki, di cui fanno parte ben 36 formazioni.
(2) In seconda posizione c’è la “Alleanza Irachena nazionale”, che fa perno sul “Consiglio Supremo islamico iracheno” (ex SCIRI), 30 partiti, tra cui anche molti sadristi.
(3) “Iraqiya”, un blocco di 20 partiti e gruppi capeggiato dall’ex-baathista Saleh al Mutlak, dal vicepresidente Tariq al-Hashimi (già leader del sunnita Partito Islamico) e dall’ex primo ministro Iyad Allawi.
(4) La “Alleanza per l’unità dell’Iraq”, composta da 38 gruppi, e di cui fanno parte, assieme ai cosiddetti “Consigli del risveglio” (ovvero le tribù sunnite di al-Anbar che dalla Resistenza sono passate dalla parte degli americani) facenti capo allo sceicco Ahmed Abu Risha, il “Movimento nazionale indipendente” dell’ex presidente del Parlamento Mahmud al Mashhadani e il Partito Iracheno Costituzionale del ministro degli interni Jawad al-Bulani.
(5) Per finire abbiamo la “Alleanza Curda”, di cui fanno parte 13 formazioni di cui due sono le principali: la “Unione patriottica del Kurdistan” di Jalal Talabani (attuale presidente iracheno) e il “Partito Democratico del Kurdistan di Mustafa Barzani. UPK e PDK conquisteranno la gran parte dei seggi assegnati alla regione autonoma del Kurdistan, malgrado la comparsa di una terza forza nazionalista, “Goran”.
Colpo di scena
A complicare la strada verso le elezioni è intervenuta una improvvisa (8 gennaio) quanto clamorosa decisione della “Commissione di giustizia e responsabilità” (la ex “Commissione Suprema di de-baathificazione”), di escludere dalla competizione, in base appunto alla famigerata legge di de-baathificazione, ben 15 partiti e 511 candidati. Con l’accusa, appunto, di essere stati o di essere ancora baathisti. Tra di loro spicca il nome del più noto tra gli “imputati”, Saleh al-Mutlak, portavoce del Fronte Iracheno del Dialogo Nazionale (un blocco sunnita nazionalista, 11 deputati in Parlamento e mai entrato nel governo) e noto testa di lista della coalizione “Iraqiya”.
Contro questa decisione (sono scoppiate diverse proteste dei sunniti, sia in al-Anbar che a Baghdad) al-Mutlak ha fatto ricorso e si dice ottimista (forse a causa dell’appoggio americano) che la decisione di esclusione venga annullata. Da notare che l’esclusione ha fatto infatti arrabbiare non solo Missione di assistenza all’Iraq delle Nazioni Unite (UNAMI) ma pure gli Stati Uniti, oramai pentitisi di aver contribuito all’abisso della guerra civile con la bushana de-baathificazione forzata e ora decisi, in nome “della pacificazione e della governabilità”, a reinserire i baathisti nelle istituzioni. A segnalare la delicatezza dell’affaire, sono intervenuti contro la decisione, l’ambasciatore Usa a Baghdad, Christopher Hill, e lo stesso vice presidente Usa Joe Biden.
Se la paura dei governanti di Baghdad è evidente, lo è anche quella degli occupanti americani: essi temono che l’esclusione possa portare, come nel gennaio 2005, ad un boicottaggio di massa da parte dei sunniti, col rischio che l’Iraq entri in una nuova e imprevedibile fase di turbolenza mettendo così in discussione il ritiro delle loro truppe, che dovrebbero infatti lasciare l’Iraq entro fine agosto.
Non si pensi che i candidati esclusi siano tutti sunniti. Secondo indiscrezioni «216 di essi sarebbero stati membri del partito Ba’ath, 182 avrebbero fatto parte dei cosiddetti “Fedayyn Saddam” e dei servizi segreti, 105 sarebbero ex ufficiali delle forze armate (fra cui alcuni comandanti di divisione, con il grado di generale o generale di brigata), decorati dal partito Ba’ath. Cinque candidati infine avrebbero partecipato alla repressione della rivolta sciita (nel sud) seguita alla guerra del Golfo del 1991, e tre sarebbero individui che hanno diffuso “idee ba’athiste”».
Ma la cosa, soprendente solo per chi non avesse conosciuto cosa fosse stato davvero il Baath (che cioè non era affatto un partito confessionale a maggioranza sunnita) è che la gran parte degli esclusi sono sciiti, puniti appunto perché non filo-iraniani.
«E’ così che 72 dei candidati esclusi apparterrebbero all’alleanza dell’ex premier Iyad Allawi (quella di cui fa parte anche Saleh al-Mutlak, il più noto), e 67 a quella guidata dall’attuale ministro degli Interni Jawad al Bulani».
Mentre scriviamo non è dato sapere quale sarà l’esito della vicenda, certo è che essa è diventata la principale disputa sul tappeto. Mentre lo stesso Talabani, su pressioni USA, è intervenuto affinché la decisione di esclusione sia ritirata, si vocifera che Washington abbia minacciato al-Maliki che se i 511 candidati non verranno riammessi la “comunità internazionale” potrebbe non riconoscere l’esito delle elezioni.
Lo scontro è talmente duro che i partiti shiiti si son visti costretti a mobilitare a loro volta (senza grande successo pare) nelle piazze i loro sostenitori a favore della proibizione. A Najaf, a Bassora i manifestanti portavano striscioni con su scritto: “Ba’athisti e nazisti sono due facce della stessa medaglia”, e “Il ritorno dei ba’athisti è il ritorno delle aggressioni e delle incarcerazioni”.
Il governo di Nuri al-Maliki ha protestato contro le ingerenze americane, mettendo in evidenza come, dietro all’esclusione dei sunniti presunti baathisti, si giochi una delicatissima partita a scacchi tra Washington e Tehran, i primi fattisi paladini dei diritti dei sunniti proprio allo scopo di contrastare la crescente influenza iraniana in Iraq, i secondi decisi a sbarrare la strada ai baathisti che sono per loro il pericolo principale alla loro egemonia.