Sulla Russia putiniana, sul suo rapporto con quella eltsiniana, sulle prospettive di questo immenso paese, soprattutto dal punto di vista economico ma non solo, pubblichiamo questa interessante intervista al professor Sergi, autore di un libro sugli ultimi 20 anni della storia russa.

Intervista di Giuseppe Iannello a Bruno Sergi
da www.megachipdue.info

Misinterpreting”, “travisare” la Russia moderna. Una storia antica a dire il vero che ci porterebbe molto lontano nel tempo, prima dell’era sovietica… Ma l’opera dell’economista Bruno Sergi* si limita alla Russia di oggi, quella putiniana per intenderci. 

Con naturalezza lo studioso ci dice che non c’è niente di strano nella conduzione economica del Cremlino negli anni post elziniani.
“Io avrei fatto lo stesso”, avrei puntato sulle stesse carte per la ripresa del paese. “Credo che la Russia sarebbe in pieno caos oggi” se non si fosse adottata quella linea.
La chiacchierata con Sergi è lunga, il libro pubblicato dalla prestigiosa casa editrice anglo-americana “Continuum” non rientra nei cliché a cui siamo abituati e vogliamo capirne le origini e le motivazioni.
  
Professore perché ha deciso di scrivere questo libro. Solo una ricerca accademica dal taglio diverso rispetto a quello che va per la maggiore?

L’idea risale all’estate del 2005, durante la mia attività di docenza alla New York University. Il corso che, a dir il vero, continuo a tenere a New York, era sulla Russia, e, rispondendo alle tante domande e riflessioni degli studenti, mi resi conto dell’utilità di un testo che iniziasse il lettore alla complessa realtà russa degli ultimi 20 anni. In altre parole un libro che avesse un taglio notevolmente diverso dai tanti scritti e letti fino ad allora. Compatibilmente con le altre mie attività di ricerca, due anni dopo riuscii a consegnare il manoscritto al mio editore a New York. Come ha detto il libro ha un target senz’altro accademico, sebbene anche il grande pubblico potrebbe leggerlo con interesse.

La dedica ad inizio libro a due giornalisti: Anna Politkovskaja e Paul Klebnikov. La vicenda di quest’ultimo è quasi sconosciuta al grande pubblico in Italia. Chi era Klebnikov?

Era il direttore dell’edizione russa di “Forbes Magazine”, il noto settimanale di New York. La sua storia è importante per due motivi. Primo, da conoscitore della realtà russa, Klebnikov scrisse su fatti degni di nota; di particolare interesse è il libro Godfather of the Kremlin: Boris Berezovskij and the Looting of Russia (Il padrino del Cremlino: Boris Berezovskij e il saccheggio della Russia) pubblicato nel 2000. Sin dal titolo si evince il ruolo degli oligarchi, tra i quali Boris Berezovskij, uno dei “Manhattan Boys”, oggi “autoesiliatosi” a Londra, e come sei persone senza soldi all’inizio della loro “avventura” post comunista, accumularono fortune e potere politico fino a far eleggere Boris Eltsin nuovamente nel 1996, nonostante lui fosse caduto dal “cuore” dei russi. Klebnikov ha scritto tanto anche sull’ipocrita politica occidentale nei confronti della Russia e sulla crescente corruzione, ma nel luglio del 2004 fu ucciso da un killer ceceno. Vi è un secondo motivo che mi ha “suggerito” questa “doppia” dedica: numerosi giornalisti sono stati uccisi prima e dopo il 1999, ma in occidente non si è parlato molto di questi avvenimenti perché non erano funzionali al disegno di screditare il Cremlino. Al contrario, ha trovato risalto l’uccisione di Anna Politkovskaja avvenuta il 7 ottobre del 2006, la giornalista di “Novaja Gazeta”, di proprietà di Michail Gorbaciov e dell’oligarca Aleksandr Lebedev, ex Kgb. Quest’ultima triste vicenda è nota perché alcuni media occidentali l’hanno usata in chiave anti-Putin, l’uomo descritto come un leader autoritario e fascista, sebbene il “Time” lo abbia nominato “Uomo dell’anno 2007” in virtù della sua straordinaria capacità di dare stabilità al Paese.

 
Ha detto: i Manhattan Boys?

Sì, i Manhattan Boys di Russia. Manhattan perchè Forbes Magazine ha “quantificato” i milionari a Mosca, prima della recente crisi economica, in un numero addirittura superiore a quelli residenti a New York! “Boys” perché quasi tutti giovani. Le dico ancor di più: secondo una ricerca condotta da Merrill Lynch & Cap Gemini, nel 2006, i russi con almeno 1 milione di dollari in “investible assets” erano tanto numerosi da aver fatto del Paese uno tra i primi 10 al mondo in merito alla crescita del numero dei milionari. Ovviamente la crisi economica (ma non solo in Russia) ha avuto un forte impatto “tagliando” le loro ricchezze di oltre il 70% (nel caso dei cento più ricchi, da $520 miliardi nel 2008 a circa $142 miliardi l’anno scorso) riducendo il numero dei milionari di due terzi, secondo l’ultima classifica stilata da Forbes nell’Aprile scorso. Nonostante la crisi recente che ha abbassato di molto gli indici di borsa e del mercato immobiliare, il fenomeno della generazione dei “milionari” in questa Russia post comunista rimane forte. Alcuni sono i cosiddetti oligarchi che hanno accumulato ricchezze con assai dubbie e spericolate manovre politiche, in ciò utilizzando un solido bagaglio di conoscenze e competenze imprenditoriali accumulate durante gli anni ’80. Nel libro “modernizzo” l’epiteto di Lenin “trade unions are a school of Communism” in “the Komsomol is a school of Capitalism” per far capire come si siano formati i milionari nel settore bancario, petrolifero e delle grandi aziende statali a loro “svendute” durante l’era Eltsin. Alcuni di loro si sono addirittura trasformati, nonostante le incredibili storie di corruzione che si celano alle loro spalle, in “ambigui” filantropi – scelta certamente non fatta come un’obbligazione morale ed in ciò differenziandosi da nomi come Andrew Carnegie. Altri sono caduti in disgrazia (Boris Berezovskij, Vladimir Gusinskij e Mikhail Khodorkovskij).

 
In un libro che dovrebbe rivalutare l’operato di Putin metà delle pagine è dedicata agli anni ’90, all’epoca elziniana. Perché?

È vero, parte del libro fa riferimento all’epoca elziniana e le devo dire il perché. La logica del libro deve essere ancorata agli anni ‘90, quando Eltsin nominò Putin – che rappresentava l’ala indubbiamente più riformista della cerchia presidenziale – capo del governo russo nell’agosto del 1999 e, alla fine dello stesso anno, “acting president”. Putin si è trovato di fronte agli effetti perversi delle riforme precedenti, di riforme inadeguate e ingiuste che avevano fatto della Russia un paese corrotto, socialmente ingiusto, con una sovranità nazionale a pezzi. Quindi, per poter rendersi conto degli anni di Putin e della sua idoneità a ridare forza all’unità nazionale, ho dovuto trattare anche gli anni ‘90 e del periodo di Gorbaciov, mettendo a confronto le tre esperienze.

 
Il titolo del quinto capitolo parla di riforme economiche guidate dall’Occidente? In che senso? Sono state semplicemente suggerite?

In pratica è il “Washington Consensus”, un termine coniato dall’economista John Williamson per indicare i 10 principi economici “ispiratori” delle scelte economiche delle istituzioni economiche internazionali nei confronti dei Paesi dell’America Latina. Formalmente suggerite, queste riforme vennero de facto imposte ad altri governi (es. Brasile, Indonesia) ed anche alla Russia quale condizione al ricorso ai prestiti della Banca mondiale e del FMI, in ciò raccomandando orientamenti di politica economica e dispensando obiettivi da raggiungere. Gli anni ‘90 hanno registrato esempi di riforme “suggerite” e sbagliate anche per i paesi dell’Est, tanto da far dire al premio Nobel Joseph Stiglitz che l’FMI sia stato causa del fallimento delle riforme economiche russe. All’inizio di questo decennio, Putin pose fine al diktat proveniente dal FMI.

 
Si dice che Putin abbia avuto successo nel risanare l’economia del paese solo grazie alla congiuntura economica favorevole… il rialzo dei prezzi del petrolio e del gas

Direi di sì se ci si limita a guardare al breve e medio periodo. Mi lasci partire da lontano, però. La Russia è un paese produttore di petrolio sin dalla seconda metà del 1800. La sua prossimità ai mercati occidentali avrebbe potuto essere una fortuna, eppure nel corso di oltre un secolo, la Russia non ha mai profittato di queste sue ricchezze energetiche ed è stata anche presa di mira dalla “sfortuna” tra il 1985 e il 1989 quando il prezzo del petrolio portandosi da $28 a $10 al barile fece perdere al Paese circa 60 miliardi di dollari. Con Putin lo stato che possiede poco più di un ventesimo delle riserve mondiali di petrolio e poco più di un quarto delle riserve mondiali di gas, quindi quantità non trascurabili, ha tratto un enorme beneficio sia dal rialzo dei prezzi sia da un chiaro sfruttamento di queste risorse naturali, ma sinceramente non ci vedo nulla di male.

Ha agito in pratica secondo le regole dello sviluppo capitalistico

Esattamente, la Russia di Putin si è comportata così, puntando sul rialzo internazionale dei prezzi e sulla tassazione degli ingenti proventi derivanti dall’export. Se Henry Kissinger ebbe il coraggio di affermare che gli Stati Uniti erano preparati a fare la guerra pur di avere le risorse petrolifere, per quale regione la Russia non avrebbe dovuto avvantaggiarsi delle favorevoli condizioni internazionali e ottenere il massimo dall’export? Il prezzo del petrolio è legato alla legge della domanda e dell’offerta che vanno ben oltre il controllo del Cremlino e condannare la Russia per questa sua condotta è pura demagogia dell’Occidente. Putin ha fatto bene e non solo questo: ha restituito fiducia ai russi, imbrigliato le lotte tra gli oligarchi, garantito una migliore condizione socioeconomica al russo medio. Se la crescita reale dell’economia che è stata notevole dopo il 2000, nel triennio 2006 – 2008 è stata del 7,7%, 8,1% e del 5,7%. Ma nel lungo periodo ……

 
Nel lungo periodo si dovrà cambiare?

Nel lungo periodo la leadership russa non potrà costruire un forte percorso di crescita puntando solo sul settore degli idrocarburi. La verità è che la Russia ha tratto in passato un beneficio enorme dal settore energetico, ma per capire appieno cosa potrà succedere nel lungo periodo, pensiamo agli investitori internazionali che classificano la Russia tra i primi dieci dove investire. Ma nel lungo periodo questo non potrà bastare: l’industria e i servizi avanzati dovranno essere sviluppati a tal punto da inserire ancor di più nei circuiti internazionali e dovrà la strategia di sviluppo essere riformulata puntando molto alla “information technology”. Nel lungo periodo l’economia potrà garantire altre soddisfazioni ai russi.

 
Lei ha insegnato in università americane ed inglesi, in un ambiente che storicamente e per sua natura non è propenso a guardare alla Russia con favore. Qual è stata la reazione al libro nell’ambiente accademico e di quelli che un tempo si chiamavano sovietologi?

C’è sempre stato un pregiudizio nei confronti della Russia ed è stato ancor più forte durante gli anni di Putin, definito “uomo pericoloso” dal direttore di “Time”, Richard Stengel. Quindi la reazione al libro è stata in parte di sorpresa; soprattutto leggere un libro che mette insieme 20 anni di storia russa. Ma questa reazione è nell’ordine delle cose per un’attitudine non proprio pro-Russia del passato. Gli osservatori occidentali non hanno mai dato il giusto peso a quella Russia che era vicinissima a crollare nel 1999 e non hanno mai guardato con equilibrio a quel forte consenso per Gorbaciov e Eltsin che, però, si è subito trasformato in aperta critica popolare. E non solo. Gorbaciov non è mai stato eletto democraticamente e Eltsin è stato rieletto nel 1996 grazie a forzature, per utilizzare un termine diplomatico (allora Gorbaciov si fermò all’ 1% circa), e mi chiedo: perché l’occidente ha esaltato la “democrazia” di questi due leader del passato e nel caso di Putin l’atteggiamento è stato diametralmente opposto? I sovietologi non hanno messo in risalto un semplice fatto: il popolo russo desiderava un leader carismatico in grado di ridare stabilità al paese. La figura di Putin è degna di nota, ed inoltre il ritorno della Russia sulla scena internazionale, imponendosi come uno degli attori principali, non è ben visto da parte dell’Occidente. Questo vedere la Russia sempre sfavorevolmente è l’emblema dell’applicazione di un’analisi distorta e quindi di giudizi incompleti e superficiali su diversi aspetti riguardanti non solo la politica interna russa ma anche i rapporti tra l’Est e l’Ovest. Al contrario, la molteplicità della Russia post-sovietica richiedeva e richiede una lettura più obiettiva della Russia, della leadership russa, della crisi internazionale e del ruolo internazionale di Mosca.

 

Come ha affrontato la Russia la crisi economica mondiale dello scorso anno? In quali condizioni è attualmente la sua economia….

Direi non brillanti, ma non peggiori delle condizioni di altri paesi. Il 2009 è stato un “annus horribilis” per la Russia: il prodotto interno lordo avrebbe perso (stime) quasi il 10%, la produzione industriale il 12%, l’inflazione ormai stabilmente superiore al 10%, il deficit pubblico al 5% circa, il dato relativo ai crediti in sofferenza continua a crescere segnando un 7,6% nel luglio dello scorso anno. Il dato relativo al debito estero è in linea con la media 2007-2008, ma il fondo sovrano creato nel 2004 con i proventi dell’export energetico ha perso tantissimo, da 225 miliardi a 168 miliardi di dollari circa, sempre secondo le stime delle autorità russe, somme, però, servite a supportare l’intervento del governo. Ovviamente lo stato ha in parte recuperato dal graduale aumento del prezzo del petrolio e una forte manovra di stimolo fiscale. E considerando che le stime di crescita dell’economia sono incoraggianti sia a livello europeo sia a livello mondiale, le prospettive sono buone. Seppure non paragonabili alla Cina che rimarrà il motore trainante della ripresa mondiale, secondo le ultime stime del FMI il prodotto interno lordo russo quest’anno crescerà del 3,6% e nel 2011 segnerà un +3,7%.

 
La sua ricerca arriva al 2007. Oggi al Cremlino c’è Dmitrij Medvedev, anche se Putin è rimasto alla guida del governo. E’ cambiata la linea della conduzione economica?

Putin – a suo tempo scelto quale rappresentante dell’ala più moderata e riformista – ha indicato nel 2008 un giovane successore “liberal”, Dmitrij Medvedev, l’ex capo di “Gazprom”: questo è stata una decisione che va nella giusta direzione. A mio parere Medvedev lavorerà in tandem con Putin a vantaggio della stabilità politica del suo Paese. Ma due aspetti legati al nuovo corso di Medvedev sono la lotta alla corruzione e il rilancio del settore industriale e dei servizi non direttamente legati al settore degli idrocarburi. La corruzione pervade la Russia così come altri Paesi dell’est. Se questo rappresenta uno dei fallimenti della presidenza Putin come indico nel libro, il nuovo presidente Medvedev potrà mettere in moto un’azione di contrasto più forte. Sul fronte dello sviluppo economico, una volta messa alle spalle la crisi economica, il Cremlino di Medvedev dovrà dar corpo a scelte di lungo periodo, agire con più convinzione.

 
Ultima domanda professore, se la crescita della Russia rientra nella logica di una pratica di governo sensata, si può parlare solo di un errore di valutazione (“misinterpreting”) da parte dell’Occidente o c’è qualcos’altro?

Forse qualcosa di più, ma per adesso rimaniamo ancorati al titolo del libro. In Occidente non si è compreso che la Russia e i russi non vogliono sentir parlare di comunismo e la Russia non tornerà indietro. Anche la recente manifestazione del 7 novembre 2009, rievocativa della ben nota parata militare allestita da Stalin nello 1941, quando le truppe hitleriane erano giunte a poche decine di chilometri da Mosca, e con tanto di carri armati T-34 utilizzati allora contro i tedeschi, non va letta in chiave di ritorno al periodo comunista, ma come un nuovo tentativo di rafforzare l’unità del Paese.

*Bruno Sergi è docente di Economia internazionale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Messina e membro del comitato scientifico del “Centre for EMEA Banking, Finance & Economics” alla London Metropolitan Business School. E’ recurrent adjunct professor alla New York University. Oltre ad aver insegnato presso altre università all’estero, è stato visiting economist al Fondo Monetario Internazionale; i suoi interessi di ricerca e di docenza riguardano le economie in transizione, con particolare riferimento alla Russia, alla penisola Balcanica e alla Cina. Membro dell’American Economic Society e della Royal Economic Society, è editor-in-chief di 3 riviste scientifiche internazionali (“International Journal of Trade and Global Markets”, “International Journal of Economic Policy in Emerging Economies”, “International Journal of Monetary Economics and Finance”).