Perché il collasso della Grecia rischia di travolgere l’Italia e Eurolandia?
La Grecia, dopo tre settimane di mobilitazioni contadine, è stata ieri completamente paralizzata dallo sciopero generale dei dipendenti pubblici, riuscito più di quello del 13 dicembre scorso. Per sanare i conti pubblici il governo “socialista” di George Papandreu, insediatosi nell’ottobre scorso, ha approntato un piano di drastici tagli (ma il peggio deve ancora venire) alla spesa pubblica. Gridava un dimostrante: «Non sono stati gli operai che si son presi i soldi, ma i plutocrati. Che li diano indietro loro!». Un delegato sindacale aggiungeva: «E’ una guerra contro i lavoratori e noi risponderemo con la guerra, con una lotta continua, fino a quando il governo non ritirerà i suoi provvedimenti.»
I segnali che giungono dalla Grecia confermano le tre tesi basilari su cui da almeno un anno e mezzo noi insistiamo: (1) la crisi che vive il capitalismo occidentale è una crisi epocale, storico-sistemica; (2) essa avrà effetti devastanti facendo saltare per primi gli anelli deboli della catena imperialistica (e la Grecia è uno di questi); (3) la crisi pone fine alla lunga catalessi del conflitto sociale e causerà asprissimi e prolungati scontri sociali.
PIIGS & spread
Il Pil della Grecia pesa meno del 3% di quello di Eurolandia, eppure, non appena diffusasi la notizia di un possibile default ellenico, l’Euro è sceso in poche ore ai suoi minimi (quota 1,35 dollari al 8 febbraio), facendo così vacillare, assieme all’economia tedesca (primo paese esportatore) tutta l’Eurozona. Ha ragione il primo ministro Papandreu a denunciare che il gigantesco assalto speculativo al debito sovrano (pubblico) greco è un attacco all’Euro. Così si spiega come, malgrado il Trattato di Maastricht impedisca un “salvataggio ufficiale”, le teste d’uovo della BCE e della Commissione europea abbiano assicurato che “la Grecia non andrà in default”. Ma il prezzo di questo salvataggio lo indica Padoa Schioppa sul Corriere della Sera di oggi: «Eviteremo reazioni a catena, ma Atene dovrà accettare limitazioni di sovranità». In poche parole la Grecia sarà commissariata dalla Banca centrale di Francoforte e perderà anche la parvenza di Stato nazionale sovrano.
Tutti gli analisti convergono tuttavia nell’affermare che il problema non sarà risolto gettando il salvagente alla sola Grecia. L’attacco speculativo sta infatti prendendo di mira la serie di paesi che razzisticamente gli anglosassoni (sulla disastrata condizione del Regno Unito diremo più avanti) chiamano PIIGS (maiali), che è l’acronimo che sta per Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. Se le misure d’emergenza delle autorità monetarie e politiche europee non sortissero alcun affetto duraturo, la crisi Greca potrebbe produrre un effetto domino dalla incalcolabile portata.
I segnali non sono confortanti. I grandi detentori mondiali di denaro, anzitutto i famigerati hedge fund, stanno sbarazzandosi in maniera massiccia dei titoli di stato dei PIGS (per adesso l’Italia è esclusa) in loro possesso obbligando i rispettivi governi ad alzarne i rendimenti. La Grecia, ad esempio, è riuscita sì a collocare l’ultima emissione dei propri titoli di stato, ma solo offrendo un rendimento annuale del 6,2%. Un tasso molto alto, che finisce per innescare il diabolico meccanismo per cui, pur di onorare i debiti pregressi e contenere il deficit delle finanze pubbliche, lo Stato finisce per indebitarsi sempre di più, avvicinando il rischio di un default.
C’è chi ricorda il 1992, quando, non una cordata di speculatori ma il solo George Soros, scatenò l’attacco contro la sterlina e la lira, innescando la reazione a catena della scommessa al ribasso sulle obbligazioni e i titoli di stato inglesi e italiani. Quello che sta accadendo in questi giorni sembra avere proporzioni ancora più ampie.
C’è un indice che i pescecani della finanza ritengono infallibile, il cosiddetto spread, il differenziale tra i rendimenti di obbligazioni simili (di norma decennali) emessi da paesi differenti. Il bond, il titolo considerato più virtuoso e che fa da parametro, è in Europa quello tedesco. Se il rendimento del bond non-tedesco è maggiore di quello di Berlino, allora vuol dire che gli operatori non si fidano e comprano meno (o vendono del tutto) il titolo non-tedesco. La conseguenza, come dimostra la Grecia, è che il governo deve promettere (e pagare) interessi più alti se vuole piazzare i suoi prestiti durante le aste. Il rendimento più alto che il creditore incassa è il premio per il rischio, il rischio appunto che il debitore non riesca a onorare il debito contratto.
Vediamoli dunque questi spread tra i i debiti dei PIIGS e quello tedesco. Quello greco è volato a ben 405 punti base, mentre il prezzo dei CDS (su cui torneremo più avanti) è oltre i 400 punti. Lo spread tra i titoli decennali tedeschi e quelli spagnoli è a quota 100, quello irlandese si è portato a 174 punti base, quello portoghese è a 155 (ma visto l’inquietante fallimento dell’asta dei bond portoghesi del 3 febbraio la tendenza è alla crescita). L’Italia si sta difendendo come può, lo spread coi bund e i BTP tedeschi è a quota 92.
Per adesso il “maiale italiano” non è investito dalla bufera speculativa. Più solidi sono, rispetto agli altri, i fondamentali economici, in primis la sua struttura industriale, che dimostra, anche grazie ai bassi salari e alla maggior flessibilità dei suoi distretti e all’atomizzazione delle imprese, una notevole capacità di tenuta. Anche i dati del rapporto deficit-Pil mostrano che l’Italia, tra i “maiali”, è quello meno a rischio: contro il 13% della Grecia e l’11,7% della Spagna, il Belpaese oppone il 5,2%. Per adesso, appunto, poiché se la bufera che investe Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna dovesse farsi più minacciosa, nessuno ha dubbi che l’Italia sarebbe anch’essa travolta. Il governo sarebbe a quel punto obbligato, onde evitare la fuga dai titoli di stato italiani, ad alzarne i rendimenti, e a finanziare quest’aumento approntando piani draconiani di tagli alla spesa pubblica, con le conseguenze sulla stabilità sociale e politica che ognuno può immaginare.
Che ci sia del “marcio in Danimarca”, ovvero che sia in atto un Risiko globale in cui grandi hedge found nonché grandi banche stiano speculando sulla pelle delle nazioni e dei popoli pur di arraffare grandi somme di profitti nel più breve lasso di tempo, è dimostrato dal fatto che mentre si grida al rischio default dei “maiali”, il Regno Unito, il “maialone”, stranamente, non è sotto attacco. Segno evidente che la City è il centro vero e proprio dell’offensiva di aggiotaggio. Il rapporto deficit-Pil è considerato, come si sente dire ogni giorno, l’indice “infallibile” per valutare lo stato di salute di un paese. Peccato che quello inglese sia già al 10,4%! Cioè allo stesso livello di guardia dei PIIGS.
Credit default swap
Per comprendere perché l’umanità è sull’orlo del precipizio, fino a che punto il capitalismo è una macchina scassata con alla sua guida degli avventurieri senza scrupoli, è bene soffermarsi un attimo sui Cds, Credit default swap, che altro non sono se non quei derivati ampiamente responsabili del crollo finanziario del settembre 2008.
Si tratta di contratti con cui un soggetto terzo assume il rischio, dietro lauto pagamento da parte dell’emittente, dell’eventuale insolvenza dell’emittente stesso. In pratica si tratta di polizze assicurative sui bond e sui titoli (ma anche su azioni). Se la quotazione dei Cds su un dato titolo sale, vuol dire che il premio della polizza è più caro, significa insomma che il mercato prezza un maggiore rischio d’insolvenza. Viceversa, se le quotazioni dei Cds scendono, il rischio di default diminuisce.
Esempio: Credito Italiano o la Cassa di Risparmio di Forlì comprano, perché venduti a tassi allettanti, obbligazioni e titoli emessi dalla Grecia, ma dato il rischio di default del paese si proteggono comprando Cds, che saranno pagati ove le obbligazioni non venissero rimborsate. Fatto sta che è il prezzo dei Cds la misura che “il mercato” considera molto precisa del rischio attribuito ad uno Stato o ad una società. Più Cds vengono comprati maggiore è il rischio dei titoli che essi coprono.
Il problema è che coi Cds si può fare anche ben altro, ovvero la pura speculazione, guadagni astronomici a breve. Afferma un analista: «Se vuoi posizionarti corto su un dato emittente (ovvero se vuoi scommettere su un suo peggioramento o al limite sul suo default, ndr), basta comprare Cds (i quali vengono scambiati al pari di tutti le altre diavolerie finanziarie, ndr). Se le condizioni del paese o della società peggioreranno, il prezzo dei Cds salirà e chi li avrà comprati per tempo, li venderà facendo lauti guadagni» (La Stampa del 10 febbraio).
Si può quindi comprare scommettendo su un rialzo dei Cds, fottendosene delle conseguenze sociali che poi affliggeranno la vittima. Quello greco è un caso clamoroso: i Cds sulla Grecia sono passati da 120 punti base in ottobre ai 419 di questi giorni. Così, mentre per gli analisti il rischio reale di default greco si aggira attorno al 2%, osservando l’impennata dei Cds si giunge al 29%. Ci sono insomma forze anonime e tremende che puntano al crollo di questo paese, nonché a trascinare l’Euro nella spirale, proprio allo scopo di intascare le cedole lucrando sulla crisi della moneta europea.
Afferma un trader della City londinese: «In questi giorni abbiamo visto molto attivi sul debito greco molti hedge fund ma anche grandi banche, americane ed europee» (La Stampa, idem), con l’apparente paradosso che le banche che vanno all’attacco della Grecia sono le stesse che gli hanno prestato i soldi solo pochi mesi addietro. Un modo per moltiplicare rapidamente i propri guadagni.
Un altro esempio di come agisca la speculazione l’abbiamo con la Spagna. I titoli di stato spagnoli a dieci anni, tra il primo febbraio e il 4 febbraio, sono passati da 99.79 a 98,99, con un guadagno per chi ha venduto di 80 centesimi per ogni singolo titolo. Una grande banca che avesse comprato 100milioni di euro di titoli spagnoli, in soli tre giorni, vendendo gli stessi titoli avrebbe guadagnato 800mila euro!
Per dare un’idea delle dimensioni apocalittiche del traffico globale dei Cds basti pensare che secondo recentissime stime il totale dei CDS emessi è pari praticamente al PIL mondiale.
Come stanno le cose per i Cds sull’Italia? Essi sono passati dai circa 20 punti base del novembre 2007 agli attuali 185. Un balzo che attesta come i mercati finanziari considerano l’Italia per nulla estranea al pericolo di un collasso. Ma anche stavolta è il caso di tirare in ballo il Regno Unito. Il Cds inglese è passato in pochi mesi dai 5 punti base ai 147, con un aumento forte dall’inizio dell’anno. E neanche Germania e USA se la passano molto bene, visto che i loro Cds sono a 60-70 punti base.
La minaccia di un altro crollo finanziario e il destino di Berlusconi
In un articolo su Il Sole 24 ore dell’8 febbraio Vittorio Carlini ci svela come questi Cds, lungi dall’essersi ritirati dal mercato dopo il crollo del settembre 2008, hanno ripreso vigore rischiando di causare un’altra gigatesca bolla, precipitando il capitalismo mondiale nel caos.
Egli mette in evidenza come tali derivati sfuggano ad ogni controllo, un eufemismo per dire che sono concentrati nelle mani di grandi colossi finanziari privati; e che siano scambiati su “piattaforme” opache, cosiddette Over the counter, che è un eufemismo per non dire fuori da ogni controllo.
Infatti cosa si scopre? Che in barba al crollo del settembre 2008 «.. al 30 settembre 2009, negli Stati Uniti, il 96% dei contratti swap (in cui sono ricompresi i Cds) era intermediato da solo cinque banche: JpMorgan, Bank of America, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup. Il dato, pubblicato dall’Office of the comptroller of the currency, è riferito ad un valore nominale di oltre 172 triliardi di dollari. Una cifra incredibile!»
Ecco chi sono i demiurghi che stanno dietro alle grandi manovre finanziarie che stanno squassando l’economia occidentale spingendo interi stati al collasso e interi popoli a subire cure da cavallo. Si tratta non della “mano invisibile del mercato”, bensì di grandi gruppi finanziari-bancari di aggiotaggio, anzitutto anglosassoni, che nella loro folle corsa speculativa si portano appresso tutto il resto della compagnia. Sono questi gruppi che lungi dall’aver cambiato musica dopo il crollo del 2008, hanno ripreso il gioco speculativo dei derivati in grande stile, avvicinando la possibilità di un nuovo e più devastante collasso.
Secondo una vulgata dura a morire, a fronte di questo “capitalismo parassitario” vi sarebbe un “capitalismo buono” o “sano”, che starebbe lottando per avere il sopravvento e sbarazzarsi delle mele marce. Obama, manco a dirlo, sarebbe il campione di questo capitalismo buono. In Italia è addirittura il Ministro Tremonti che ama vestire i panni del paladino del “capitalismo sano” di contro ai “cattivi banchieri”.
In verità l’intreccio indissolubile tra grandi aziende industriali, banche commerciali e banche d’affari, tra speculatori cattivi e “onesti capitani d’industria” è talmente inestricabile che ne viene fuori un unico, immenso conglomerato capitalistico mondiale, al cui centro c’è Wall Street e il super-imperialismo USA. Un conglomerato certo attraversato dalla lotta tra cosche, dalla spietata battaglia per tenersi a galla. Ma quando tutto il sistema scricchiola esse rassomigliano ai Ladri di Pisa, che litigavano di giorno per rubare assieme di notte: come mostra il caso greco, queste cosche fanno causa comune, non si fanno scrupoli dall’assaltare la diligenza di qualche fondo sovrano. Per di più, il ricorso all’investimento speculativo, al Risiko finanziario, i banchieri e i traders lo fanno spesso solo su commissione. Per non parlare che spesso, proprietari di banche o di gruppi industriali, fanno capo alle stesse confraternite, se non alle medesime persone fisiche.
C’è chi si chiederà: ma con quale intelligenza questi mostri capitalistici portano tali attacchi ai PIIGS, col rischio di ottenere una crisi dell’Eurozona, non escluso l’uscita dall’Euro di diversi paesi? Ma è semplice! Per guadagnare quattrini, senza riguardo alcuno per le conseguenze che questa loro smania può provocare a livello politico e sociale, in questo o quel paese. En passant: il panico che provoca l’avanzata cinese non è che stemperi la pulsione predatoria dei conglomerati finanziari occidentali, anzi, la accentua.
Ci penseranno i governi e gli organismi politici e monetari sovranazionali a correre ai ripari, a trovare soluzioni, a mediare, o ad applicare politiche di austerità per far pagare alle masse dei salariati e ai settori più deboli della borghesia, nonché, come sempre, ai popoli diseredati del “terzo mondo”, i costi, enormi, delle loro scorribande.
Ci pensino i Papandreu, gli Zapatero o i Berlusconi a riscuotere il pizzo sociale, a sanare le casse degli stati nel frattempo razziate da Lorsignori. In fondo questi politicanti non sono che esattori, dei vampiri che quando è necessario debbono dissanguare i popoli per assicurare le indispensabili e periodiche trasfusioni senza le quali il capitalismo non potrebbe funzionare. Se non saranno guerre tra stati a far uscire il Capitale dalla crisi, che siano pure le guerre civili, l’attacco alle masse popolari.
Politiche di durissimi sacrifici attendono dunque anche gli italiani. Il cui risveglio dopo il sogno dell’opulenza e della crescita senza fine, sarà senz’altro doloroso. Se poi all’Italia dovesse accadere, a breve, qualcosa di simile a ciò che sta accadendo alla Grecia, il populismo berlusconiano, quello che meglio di tutti ha incarnato quel sogno, salterà come un birillo, un ramo secco che sarà travolto dalla piena. Il cavaliere si farà da parte o sarà costretto a digerire il piatto che da anni stanno preparando nelle retrocucine: un governo di unità nazionale d’emergenza. Un’Unione sacra, che per conto del regime plutocratico, scaricherà sulla povera gente i costi salatissimi per salvare il salvabile, ovvero per salvare con l’Euro tutto l’edificio di Eurolandia. Noi ribadiamo che siamo solo agli inizi di una crisi epocale, destinata a ferire a morte non solo qualche “maiale” ma tutta l’Unione europea.
Saranno gli eventi a fare spazio ad una soluzione rivoluzionaria, ad un’uscita non solo dalla crisi, ma ad una fuoriuscita dal capitalismo, la cui prima irrinunciabile misura sarà nient’altro che l’annullamento del debito pubblico, fatte salve le fasce sociali più deboli che dovessero avere in tasca qualche migliaio di Euro di titoli di stato.