La grande bufala della conquista di Marjah

Il 3 febbraio il comando americano annunciava in pompa magna “la più grande offensiva militare anti-insurrezionale dal 2001”, la conquista della cittadina di Marjah, nella provincia pashtun dell’Helmand. Una bufala, tanto grande quanto rumorosa la grancassa mediatica che l’ha preceduta. Dopo aver deciso di aumentare di 30mila unità le sue truppe mercenarie, Barak Obama aveva bisogno di una vittoria simbolica per infinocchiare la sua opinione pubblica. Il generale Stanley McChrystal, da parte sua, necessitava di un successo a prezzo di saldo per sollevare il morale della sua soldataglia depressa. Avranno questa Vittoria di Pirro, ma perderanno la guerra.

Invitiamo i nostri lettori ad osservare attentamente la mappa qui accanto. Essa mostra come andavano le cose nel 2007. Allora la Resistenza controllava (fonti USA) il 54% del territorio. E’ notorio che da allora le cose sono peggiorate di molto per gli occupanti, visto che secondo le stime più attendibili la Resistenza ha esteso la sua presenza a quasi tutto il paese controllandone oltre il 70%.

Dalla carta è chiaro che la conquista della cittadina di Marjah sarebbe, dal punto di vista strategico, del tutto insignificante. Non si capirebbe dunque la ragione per cui la Resistenza afghana dovrebbe accanirsi a mantenere il controllo di questa località secondaria rischiando di perdere centinaia di combattenti. E’ del tutto evidente infatti che davanti a forze soverchianti (gli americani stanno impiegando per l’offensiva 15mila soldati tra occidentali e truppe ascare afghane, dotati di artiglieria pesante, una micidiale copertura aerea d’attacco nonché di una sofisticata logistica satellitare) la Resistenza non ha altra scelta che rifiutare lo scontro campale. I Talibani hanno dimostrato da tempo di avere fatto tesoro di uno dei principali comandamenti della strategica maoista della guerra di popolo prolungata: “ritirarsi ogni volta che il nemico avanza”, per colpirlo quando si ritira e disturbarlo quando riposa.

Del resto, se Barak Obama deve infinocchiare la sua beota opinione pubblica spacciando per trionfo una schermaglia, è vero che i patrioti afghani debbono pensare alla loro. Ed in Afghanistan neanche un bambino scambierebbe la “caduta di Marjah” come un evento spartiacque. I media occidentali, che stanno seguendo con giornalisti replicanti o embedded la patetica offensiva imperiale, hanno ben lavorato per l’Imperatore, lasciando intendere che la battaglia di Marajah avrebbe per l’Afghanistan la medesima importanza che ebbe quella di Falluja in Iraq.

Che colossale panzana! Sorvoliamo per carità di patria ciò che Falluja dovrebbe loro portare alla memoria. L’uso di bombardamenti a tappeto, aerei e non, l’utilizzazione del fosforo, le stragi di civili compiute, anche coi gas, la deportazione forzata di circa mezzo milione di residenti, vari quartieri rasi letteralmente al suolo. Ci vollero diverse settimane per espugnare Falluja, difesa da non più di qualche centinaio di combattenti, la maggior parte dei quali riuscì poi a beffare gli aggressori sfuggendo al loro cordone sanitario, per tornare a combattere a Baghadad o nel resto di al-Anbar.

La città di Falluja, ben diversamente da Marjah, aveva un ruolo centrale per la Resistenza irachena, sia militare che simbolico. Era la via d’accesso a Baghdad e da Baghdad a gran parte dell’al-Anbar. Era un vero e proprio chiodo conficcato nel corpo dell’occupante. La sua caduta fu in effetti una sconfitta, inevitabile quanto pesante.

McChrystal si era premurato, allo scopo di far vedere quanto sono buoni gli americani, che non sarebbero stati colpiti i civili, ma solo i “cattivi talibani”. Detto fatto. Tre giorni dopo si è dovuto scusare per l’uccisione, a causa di un “errore” dei suoi artiglieri, di dodici civili innocenti. Ma quanti saranno i morti di questa americana “Operazione Masada” non sarà mai dato sapere. I giornalisti che gli americani si sono portati appresso non sono autorizzati a mettere il naso fuori dal compound di Pashmul, la base militare dove sono accampati i mercenari. Non basta. Veniamo a sapere che dopo la mina-Ied  che ha ucciso tre  marines, a causa del panico esploso nella base, i comandi hanno addirittura chiuso “a tempo indeterminato il Mwr, il Media center della base” (F. Semprini su La Stampa del 17 febbraio). La verità sul sangue che sta scorrendo a Marajah non la sapremo mai. In compenso sappiamo, visto che l’embedded Semprini non sa come ingannare il tempo, cosa pensa il capitano Rustin Lan, ovvero il cappellano militare della base. L’ingenuo giornalista, stupito che il prete sia un convinto militarista, chiede al prete-marine se le sue vedute non possano essere scambiate per un’apologia della “guerra di civiltà”. Al che questo risponde: “Il mio slogan è questo: Pro Deo et patria. Occorre rimanere e combattere. Non bisogna mollare”.
Questo è il cristianesimo con cui gli afghani debbono fare i conti.

******************

PSA conferma di quale sia il comportamento degli occupanti con i civili afghani, pubblichiamo di seguito un comunicato di Emergency.
 

Nobel per la pace e criminali di guerra
Comunicato di Emergency

14 febbraio 2010. Da ieri l’ospedale di Emergency a Lashkar-gah, nel sud dell’Afganistan, è in attesa di ricevere le vittime dei bombardamenti delle forze anglo-americane che da due giorni colpiscono il villaggio di Marjah, situato a circa 50km a sud ovest dal capoluogo della provincia di Helmand.

Al nostro staff è stato comunicato che decine di vittime civili in gravi condizioni non riescono ad essere trasferite agli ospedali a causa dei posti di blocco militari che impediscono anche il passaggio di vetture per il trasporto dei feriti. Ci risulta che, a questa mattina, già 6 di loro sono morti perché ne è stata impedita l’evacuazione.

Tra i pochi riusciti a raggiungere l’ospedale di Emergency anche un bambino di 7 anni colpito al petto da una pallottola e immediatamente operato.

Emergency denuncia questi gravissimi crimini di guerra perpetrati dalle forze della coalizione internazionale guidate dagli Stati Uniti e chiede che venga aperto un corridoio umanitario per garantire una pronta assistenza ai feriti.