Il clamoroso arresto di Abdulmalik Rigi, fondatore e leader di Jundullah (Soldati di Dio), avvenuto il 22 febbraio scorso ad opera di reparti speciali dei Pasdaran iraniani, ha riproposto al centro dell’attenzione la questione di cosa sia quest’organizzazione, se, come essa dichiara, sia una genuina organizzazione nazionalista che si batte per i diritti della minoranza del Baluchistan oppure, come alcuni analisti tendono a ritenere, Jundullah sia anzitutto un gruppo di narco-trafficanti al servizio degli americani, un arnese delle loro “covert operations” per destabilizzare l’Iran in vista del tanto atteso “regime change”.

La questione nazionale del Baluchistan

Si dovrebbe partire da molto lontano per capire le origini  e la consistenza del movimento irredentista balucho. Che il popolo del Baluchistan abbia una sua identità nazionale, che i baluchi si considerino una nazione,  nessuno, tanto più se ha avuto l’occasione di visitare la regione e sentire l’aria che si respira (anzitutto nella zona che cade sotto la giurisdizione pakistana) può dubitarne. Parla la storia di questo popolo, che si è battuto incessantemente, finora senza successo, per ottenere la propria autodeterminazione, anzitutto nel secolo scorso, e primariamente contro il Pakistan. Si contano almeno quattro conflitti. Il primo non appena nacque il Pakistan, nel 1948. Il secondo nel 1958-59. Il terzo dal 1963 al 1969. L’ultimo, il più sanguinoso, tra il 1973 e il 1977, guidato dal Fronte di Liberazione del Popolo del Baluchistan (FLPB), all’interno del quale operavano anche i comunisti baluchi.
Nonostante le sconfitte e i tradimenti subiti, il sentimento indipendentista ha ripreso vigore, anzitutto in Pakistan. La regione è infatti sotto un vero e proprio assedio militare da parte di Islamabad. L’ostilità della popolazione tutta contro quelle che considera truppe d’occupazione è palpabile dappertutto. Gli stessi soldati pakistani devono fare molta attenzione e di norma vivono rinchiusi nelle caserme, proprio per non andare incontro ad attacchi da parte anzitutto delle gioventù. I baluchi, e hanno ragione da vendere, si sentono discriminati: difficile per un balucho fare carriera nelle istituzioni pubbliche, tantomeno nell’esercito (in mano ai punjabi). La loro regione, pur ricca di materie prime strategiche è la più povera del paese. La sanità pubblica, il sistema scolastico, la rete delle infrastrutture è a livelli disastrosi.
Dall’altra parte della frontiera, in Iran, la provincia del Sistan-Baluchistan, la situazione non è molto diversa. La miseria endemica spinge i giovani all’emigrazione o a fare da manovalanza per i potenti clan di trafficanti di oppio ed eroina. In un quadro caratterizzato dal tessuto sociale tribale (e spesso da rivalità intestine su cui giocano le diverse potenze) e con alle spalle il movimento nazionalista di massa dei loro fratelli in Pakistan, non sono pochi i disperati che dicono di avere simpatie per Jundullah.

Posizione strategica

E’ consuetudine oggi, davanti ad ogni conflitto regionale, attribuire alla regione in  questione, rilevanza e posizione strategica. Tuttavia il Baluchistan ce l’ha davvero. Estendendosi su tre paesi quali l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan, e affacciandosi sullo Stretto di Hormuz, la sua centralità è fuori discussione. La possiede senza dubbio per l’Iran e il Pakistan (che in caso di secessione del Baluchistan perderebbe più di un terzo del suo territorio e quindi il suo retroterra strategico in caso di avanzata dell’esercito indiano); ce l’ha perché dal Baluchistan dovrebbe passare il TAP (acronimo di Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan), ovvero un gigantesco gasdotto che porterà gas e petrolio dal Caspio all’oceano Indiano, giungendo al porto strategico di Gwadar. Porto quest’ultimo, costruito dai cinesi, come parte dei loro ingenti investimenti nella regione. Il problema è che gli americani non nascondono di voler controllare loro questo rubinetto di Gwadar, poiché da lì passeranno i rifornimenti a Cina e India.
Questa disputa strategica su Gwadar e sul destino del Baluchistan, tira dunque in ballo quello geopolitico dell’intera area, in particolare del Pakistan, un paese sull’orlo dello smembramento su linee nazionali (Punjabi, Pashtun, Baluchi e Sindi).
Non è un segreto che esistono apparati negli USA che nell’eventualità di un’esplosione del Pakistan, e nella prospettiva di una saldatura strategica con l’India in funzione anticinese, avrebbero già nel cassetto un Baluchistan indipendente. Così, per alcuni analisti, gli americani non solo strizzerebbero l’occhio all’irredentismo balucho in Pakistan, ma foraggerebbero l’organizzazione armata Jundullah.

Chi sono i Soldati di Dio?

Questa è in effetti la tesi sostenuta dal regime di Tehran, come anche da diversi ambienti antiamericani del Pakistan. E questo comune timore spiegherebbe la ragione per cui i pakistani avrebbero loro catturato Abdulmalik Rigi, per poi consegnarlo agli iraniani (questa appare la versione più credibile, a smentita della versione di Tehran per cui le forze di sicurezza persiane avrebbero catturato Abdulmalik Rigi mentre era in volo sul Golfo Persico).
Jundullah, o meglio: Movimento di Resistenza del Popolo Iraniano. Il nome stesso indica che il gruppo non è indipendentista, non dice di battersi per staccarsi dall’Iran per fondare uno Stato balucho e riunirsi coi compatrioti in Pakistan e Afghanistan (intervista rilasciata alla Tv al-Arabyia da Abdulmalik Rigi nell’ottobre 2008). Jundullah formalmente rivendica pari dignità per i baluchi in Iran ponendo fine alle discriminazioni di cui soffrono. Si fa un gran parlare che siccome i baluchi sono in larga maggioranza sunniti, Jundullah sarebbe un gruppo islamico rigorista o salafita. Ma questa è più leggenda che realtà, tesa ad accreditare legami con organizzazioni wahabbite come al-Qaida, legami mai provati né rivendicati da Jundullah. Del resto è possibile dimostrare come la penetrazione del wahabbismo in Baluchistan sia stata un fiasco e che l’islam tradizionale delle tribù baluche è tutt’altro che salafita.

Jundullah venne fondato nel 2002 e iniziò le sue prime azioni armate tre anni dopo, nel 2005. Il suo teatro di operazioni è sempre stato, a partire dal montagnoso retroterra in Pakistan, il lato iraniano del Baluchistan. Il primo attacco avvenne nel giugno 2005, quando venne rapito e poi ucciso un ufficiale dei Pasdaran. Nel dicembre 2005 Jundullah tentò addirittura di uccidere Ahmadinejad mentre era in visita nella provincia. Nel 2007 avvennero diversi attacchi armati, in uno dei quali, con l’assalto ad un autobus nei pressi della capitale provinciale Zahedan, vennero uccisi 11 civili. Nel dicembre 2008 Jundullah perpetra il primo dei suoi attacchi suicidi, nella città di Caravan, presso il Quartier generale locale delle forze di sicurezza iraniane. Il suicida era il fratello di Abdulmalik Rigi, Abdul-Ghafoor. Il 28 maggio del 2009 Jundullah rivendica la strage compita in una moschea di Zahedan, 25 morti e 120 feriti. Ma l’attentato più grave Jundullah lo compì il 18 ottobre scorso quando con un attacco suicida vennero uccise 42 persone, tra cui 6 ufficiali  dei Pasdaran, il generale Noor Ali Shooshtari e il comandante provinciale Tajab Ali.
Attacchi davvero devastanti per il regime di Tehran, che giustificano l’esultanza con cui tutti i media persiani hanno annunciato la cattura del numero uno di Jundullah, Abdulmalik Rigi. Se quest’arresto rappresenti una colpo davvero letale saranno i prossimi mesi a dimostrarlo.

“Covert operations” della CIA?

La tesi che dietro a Jundullah ci siano americani e israeliani viene diffusa a tambur battente dai media iraniani. Essi citano le confessioni di uno dei fratelli di Abdulmalik Rigi, arrestato tempo addietro, il quale avrebbe sostenuto che il gruppo da tempo riceve armi, soldi dagli americani e si addestrerebbe in una base americana in Pakistan (aljazeera.english.net 25 agosto 2009).
Si potrebbe pensare che queste sono “versioni di regime”. Non fosse che in tempi non sospetti questa tesi fu insinuata, non a Tehran bensì a Londra.
Parliamo di un articolo del Sunday Telegraph del 25 febbraio 2007, nientemeno che dal corrispondente da Washington, William Lowther. L’autore, dopo aver ricordato che il Sistan-Baluchistan è da tempo infestato dal banditismo e dalla criminalità e che vaste zone sfuggono al controllo di Tehran, riportava le dichiarazioni  di Fred Burton, un ex-agente del dipartimento USA anti-terrorismo che disse: “ Gli ultimi attacchi avvenuti dentro l’Iran sono in linea con gli sforzi americani di sostenere e addestrare le minoranze etniche per destabilizzare il regime iraniano”. Nello stesso articolo si citava una dichiarazione di John Pike, capo dell’influente Global Security think tank di Washington: “Le attività dei gruppi etnici sono diventate incandescenti negli ultimi due anni e sarebbe scandaloso se non fossero anche il risultato dell’attività della CIA”.
Non si riferiva solo a Jundullah, ma pure al MEK, i Mujahedeen-e-Khalq, nonché ai curdi, agli azeri e agli ahwazi. L’articolo si concludeva citando un anonimo dirigente CIA secondo cui quest’ultima avrebbe stanziato ingenti fondi per sostenere le lotte separatiste in Iran nella prospettiva del “regime change”.
Il 19 ottobre 2009, il giorno dopo l’attentato suicida in cui perse la vita il generale dei Pasdaran Noor Ali Shooshtari, l’analista arabo Nazanine Moshiri, su al-Jazeera dichiarava a sua volta: “C’è stato un reportage sul New Yorker circa un anno fa, scritto dal giornalista Seymour Hersh, secondo cui il Congresso degli Stati Uniti ha segretamente dato l’accordo a Bush per finanziare e armare con la cifra di 400 milioni di dollari gruppi come Jundullah”.
Ora che alla Casa Bianca siede Obama, pochi credono che egli abbia cancellato le direttive del suo predecessore. Il rovesciamento di Ahmadinejad resta per l’Amministrazione americana un obbiettivo inderogabile. Sotto questa luce, per quanto non ci siano prove certe, la tesi del sostegno americano ai movimenti armati anti-Tehran, siano essi di minoranze nazionali o come il MEK, è più che plausibile. Una strategia simile è stata messa in opera in diversi teatri, anzitutto in Iraq dopo il 1991. Tutto fra brodo per destabilizzare uno “stato canaglia”  e attuare il “regime change”.