La Repubblica Popolare Democratica dello Yemen (RPDY), altrimenti detta dello Yemen del sud e considerata “socialista”, è probabilmente stata, tra le nazioni, quella che ha avuto la vita più breve. Nata nel 1970 è scomparsa, per unificarsi con lo Yemen del Nord, nel 1990.
Sotto la guida del Partito Socialista dello Yemen, per vent’anni la RPDY è stata stretta alleata dell’URSS e, tra i paesi arabi, il paese che con più audacia ha sostenuto la sinistra radicale palestinese.

Una Repubblica che si mostrerà però fragile, dove un’avanguardia politica “giacobina”, sull’onda dell’avanzata delle rivoluzioni antimperialiste e socialiste, ha tentato di adottare il modello sovietico collettivistico di economia pianificata di comando, mentre il tessuto sociale era caratterizzato da un’estrema arretratezza e dal predominio di rapporti sociali tribali. Il più audace tentativo di saltare dal pre-capitalismo al socialismo.
Si spiega così perché  la RPDY cadde subito dopo il crollo del suo sponsor sovietico, dando vita all’unificazione del 1990 con lo Yemen del nord.
Un’unificazione a freddo, a tavolino, decisa e voluta dai notabili politici di Aden e San’a, la cui difficile coabitazione sfocerà nella sanguinosa guerra civile del 1994, che si concluse col temporaneo annientamento dei socialisti, la cattura di molti di loro, l’esilio degli altri, e la vittoria dell’attuale presidente dello Yemen, il filo-americano Ali Abdullah Saleh.

Sostegno che Casa Bianca e Pentagono hanno offerto, in nome della guerra santa al terrorismo, anche di recente nella guerra per stroncare la resistenza del Movimento armato d’opposizione Houti (tutt’altro che qaedista) nelle province settentrionali.

“Qaedisti!” è la medesima accusa che il regime di  San’a rivolge al movimento di protesta che da anni scuote il sud del paese (e che negli ultimi mesi ha assunto proporzioni di massa e un evidente profilo politico indipendentista). Accusa che tutti i leader del movimento di protesta del sud respingono con sdegno come una volgare calunnia. Un’accusa che è allo stesso tempo un alibi da parte del governo di Ali Abdullah Saleh per coprire le proprie malefatte, e una scusa per ottenere il pieno appoggio di americani e sauditi.
Le bugie tuttavia hanno le gambe corte. Ha avuto infatti completo successo lo sciopero generale del 9 gennaio che ha paralizzato il sud del paese (proclamato dalla coalizione delle forze oppositrici). Ancor più massiccia è stata la giornata di protesta svoltasi venerdì 26 febbraio sfidando il coprifuoco dichiarato dal governo. Manifestazioni si sono svolte in praticamente tutte le città meridionali, e tutte alzando non solo le bandiere verdi dell’islam, ma pure quella della ex-Repubblica Popolare dello Yemen (nella foto sopra). Il malcontento popolare per le discriminazioni che le regioni del sud subiscono, la rabbia contro il governo centrale e la sua linea repressiva (anche in questo caso la polizia ha sparato sui manifestanti nonostante tutti i leader dichiarino che la protesta è non violenta), hanno lasciato il posto alla aperta rivendicazione indipendentista di ricostituire la Repubblica dello Yemen del Sud.
Da notare che al-Qaida nello Yemen, a smentire le accuse di cui sopra, ha subito espresso il suo dissenso, ovvero il non-appoggio al movimento indipendentista del sud, affermando, in conformità al loro salafismo integrale, che “al-Qaida chiede invece una Repubblica islamica per tutto lo Yemen”.

Quali forze sociali e politiche fanno parte del movimento “sudista”?
Esso è un movimento forte anzitutto negli strati popolari più umili e raggruppa almeno cinque gruppi principali, uniti nel Consiglio Supremo per la Rivoluzione Pacifica (CSRP). Ci sono gli islamisti, capeggiati da  Tareq al-Fadhli, c’è il vecchio Partito socialista guidato dall’ex presidente della Repubblica Popolare Ali Salem al-Baid, ma anche nasseriani e baathisti di varia tendenza.
Non poteva mancare, dato il tessuto sociale tribale, il sostegno della maggioranza degli sceicchi e dei capi tribù.

Il governo di San’a ha promesso il pugno di ferro (e allo scopo invoca l’aiuto dei suoi protettori americani), ma chi ha assistito alle manifestazioni del 26 assicura che sarà bene difficile per il governo arrestare con la forza il movimento. Da solo, il regime di San’a, non ce la farà, visto che deve far fronte alla guerriglia degli Houti nel Nord, ma pure allo sfrangiamento della sua base sociale tradizionale nelle altre province.

L’esito della battaglia in corso sarà deciso anche dalla posizione che deciderà di prendere l’Arabia Saudita. Secondo testimoni oculari nelle manifestazioni ad Aden e nelle altre città del sud, i dimostranti alzavano anche bandiere dell’Arabia Saudita. Ciò può risultare strano, occorre però ricordare che nella guerra civile del 1994 Riyadh offrì un certo appoggio al fronte sudista, e ciò si giustificava col timore dei sauditi di un rafforzamento eccessivo di San’a, che al tempo era schierata con Saddam Hussein. E’ possibile che i sauditi appoggino il movimento irredentista? Noi ne dubitiamo. San’a da tempo ha cambiato schieramento e si è allineata,  anzitutto dopo la caduta di Baghdad nel 2003, con gli USA e i suoi alleati nella regione.
Riyadh tenterà probabilmente di salvare il presidente Ali Abdullah Saleh, come ha dimostrato nel dicembre scorso correndogli in soccorso contro la guerriglia Houti.

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