La crisi del condominio USA-Iran e il precipizio della libanizzazione
Torneremo ad informare i nostri lettori sulle imminenti elezioni irachene, segnate da una frammentazione spettacolare e dal colpo di scena del mandato di arresto spiccato proprio ieri contro Muqtada al-Sadr.
Pubblichiamo intanto il punto di vista di un commentatore palestinese secondo cui l’Iraq è la vera posta in palio della partita che stanno giocando Washington e Tehran. Una partita di cui è il popolo iracheno a farne le spese, un popolo che vive una situazione drammatica. La disoccupazione e i prezzi alle stelle. La corruzione dilagante. I proventi del petrolio assorbiti per tenere in piedi apparati statuali e militari settari. L’agricoltura in pezzi anche a causa di una siccità drammatica. Ampi strati della popolazione nella miseria più nera. La sicurezza inesistente. La frattura tra le diverse comunità più profonda che mai.
Il 18 febbraio, l’ambasciatore americano Christopher Hill ha fatto presente che potrebbero volerci mesi affinché si formi un nuovo governo a Baghdad dopo le elezioni previste per il 7 marzo in Iraq, e che a sua volta ciò potrebbe implicare notevoli disordini politici nel paese. Osservatori e esperti, così come funzionari, mettono in guardia contro l’allarmante spettro di una nuova guerra settaria in Iraq, e sul fatto che sicurezza, stabilità (per non dire democrazia), e un ritiro riuscito – “da vincitori” – delle truppe americane sono obiettivi ancora lontani. Un Iraq sicuro, stabile e democratico dovrà attendere la fine della furiosa lotta per il controllo del paese che gli Stati Uniti e l’Iran portano avanti, dentro e fuori l’Iraq occupato.
L’Associated Press ha riportato le parole di Hill che prevedevano “alcuni giorni difficili, anche violenti, giorni turbolenti” prima del voto del 7 marzo. Questi avvertimenti sollevano seri dubbi riguardo alla dichiarazione, qualche giorno fa, del vicepresidente americano Joe Biden che definiva l’Iraq “un grande successo” per l’amministrazione Obama. Né Biden, né il presidente Barack Obama sono attualmente in grado di affermare che gli Stati Uniti abbiano vinto in Iraq. Nel 2007, entrambi consigliarono il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, ma il presidente di allora, George W. Bush, optò invece per il “surge”, l’invio di nuovi rinforzi, che l’amministrazione Obama sta adesso “responsabilmente” riducendo. Comunque né il surge, né un ritiro graduale hanno prodotto il loro scopo dichiarato, una democrazia sicura; al contrario, sta crescendo un regime settario filo-iraniano.
Le prossime elezioni irachene hanno già coinvolto i due maggiori beneficiari dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003 (Stati Uniti e Iran) in un’aperta lotta per il potere che nessuno dei due contendenti ha più interesse a mantenere entro i confini del loro precedente, tacito accordo bilaterale sulla gestione della sicurezza nel paese; ciò indica che la luna di miele, suggellata da questo accordo per la sicurezza in Iraq, è finita o sta per finire: un cattivo presagio per la popolazione irachena.
Nonostante il risuonare dei tamburi di guerra, l’amministrazione Obama è ancora ufficialmente impegnata in quello che il segretario di Stato Hillary Clinton, il 15 febbraio, nella capitale saudita Riyadh, ha descritto come il “doppio approccio” (consistente nel coinvolgere contemporaneamente il fronte della guerra e quello della diplomazia), perseguito con autorevolezza creando un consenso internazionale sull’imposizione di sanzioni contro l’Iran sotto l’ombrello delle Nazioni Unite. Se a ciò si aggiunge il fatto che Washington sta ritardando un attacco unilaterale israeliano contro l’Iran, e sta rinviando il suo sì alle insistenti richieste d’Israele di avviare una guerra vista come unica soluzione, e se si aggiunge anche il fatto che le forze armate americane in Iraq possono confrontarsi con le milizie iraniane e con le reti di intelligence all’interno del paese arabo (ma finora hanno scelto di non farlo), tutti questi fattori indicano che Washington sta ancora considerando un compromesso con l’Iran per la condivisione del potere in Iraq.
Comunque, Teheran non rinuncerà alla sua influenza antiamericana in Iraq finché Washington continuerà a portare avanti la sua attuale strategia di “saldare i conti” della lotta fra Stati Uniti e Iran in Iraq, portando il conflitto sullo stesso territorio iraniano. Inoltre Teheran sta cercando di intralciare il progetto di un fronte arabo anti-iraniano alla cui costruzione – ha detto la Clinton a Riyadh – la sua amministrazione “sta lavorando attivamente con i partner regionali e internazionali”, ovunque sia possibile, da Gaza al Libano, fino allo Yemen. Washington sta sfruttando “le azioni sempre più sconcertanti e destabilizzanti dell’Iran”, come le ha definite la Clinton nella stessa occasione, usandole come un ulteriore casus belli per persuadere i partner arabi a far parte di quel fronte. L’America e l’Iran stanno trasformando l’intero Medio Oriente e il suo centro nevralgico arabo in un campo di battaglia per un sanguinoso gioco di reciproche ritorsioni, con l’Iraq quale premio finale.
Il conflitto USA-Iran in Medio Oriente, considerato in un’ottica più ampia, ha come obiettivo l’Iraq, non l’Iran. Il fattore palestinese e quello israeliano fanno soltanto parte di una marginale azione di distrazione e di una tattica propagandistica per entrambi i protagonisti, a servizio della loro guerra psicologica per conquistare gli animi e le menti degli arabi indifesi, dei palestinesi in particolare, che vengono schiacciati senza pietà fra i loro ingranaggi di guerra, e lasciati con la loro cultura religiosa quale unica via d’uscita in cui cercare rifugio e salvezza, mentre i paesi arabi sono costretti a scegliere il male minore.
Quindi, come ci si aspettava, la Clinton non ha avuto quasi nulla di importante da dire sull’Iraq durante la sua conferenza stampa congiunta di lunedì 22 febbraio con il principe Saud al-Faisal, la sua controparte saudita, che invece non ha potuto ignorare la questione irachena, per ragioni di geopolitica; “speriamo che le prossime elezioni realizzeranno le speranze di sicurezza, stabilità e integrità territoriale del popolo iracheno, quelle di consolidare l’unità nazionale attraverso l’uguaglianza fra tutti gli iracheni, a prescindere dalle loro diverse convinzioni e fazioni, e di proteggere il loro paese da qualsiasi intervento straniero nelle loro questioni”, ha detto il principe ai giornalisti.
Ma un “intervento straniero” o più precisamente l’occupazione da parte delle forze armate americane e delle forze paramilitari iraniane, è esattamente ciò che potrebbe rovinare le speranze del principe.
L’editoriale del Washington Post del 20 gennaio, intitolato “l’amministrazione Obama deve intervenire nella crisi elettorale irachena”, era in realtà fuorviante perché l’ingerenza degli Stati Uniti nell’Iraq “sovrano” non si è mai conclusa, né militarmente, né politicamente. Allo stesso modo l’Iran si è imposto come arbitro nelle questioni politiche irachene. Uomini come Ahmed Chalabi e il primo ministro Nuri al-Maliki stanno portando avanti un processo di debaathificazione che originariamente era il marchio di fabbrica di Paul Bremer, il primo governatore civile dell’Iraq dopo l’invasione americana del 2003. La debaathificazione adesso è sostenuta da forze settarie filo-iraniane soltanto come un pretesto per mettere fuori gioco chiunque si opponga all’Iran o alla sua agenda di ispirazione settaria in Iraq. Si sta formando un regime settario filo-iraniano che si accinge a consolidare un centro di potere iraniano in Iraq che, prima o poi, propagherà le faziosità settarie in tutta la regione, invece di far diventare il paese una base da cui diffondere la democrazia in Medio Oriente, come promesso sette anni fa dai neoconservatori americani per giustificare l’invasione del paese.
L’“orribile prezzo” connesso all’invasione dell’Iraq, a cui ha fatto riferimento Biden il 15 febbraio, durante il programma televisivo “Meet the Press”, deve ancora essere pagato. Chalabi, al-Maliki e i loro simili ora hanno intenzione di lanciare una sfida alla strategia americana. Al-Maliki ha affermato pubblicamente: “Non permetteremo all’ambasciatore americano Christopher Hill di spingersi al di là del suo mandato diplomatico”. I suoi collaboratori hanno richiesto l’espulsione di Hill. Si tratta di politici professionisti. Quali sono le loro risorse per sconfiggere gli Stati Uniti, da quali soldati sono protetti, e dai soldi di quali contribuenti sono finanziati, al di là delle loro credenziali filo-iraniane?
“Malgrado la presenza di oltre 100.000 soldati statunitensi, l’influenza americana in Iraq sta rapidamente svanendo, e quella iraniana sta crescendo”, ha affermato con preoccupazione Robert Dreyfuss su “The Nation” l’8 febbraio, aggiungendo: “Nel momento in cui George W. Bush ha preso la fatidica decisione di spazzar via il governo iracheno per installare degli esuli filo-iraniani a Baghdad, il dado è stato tratto. Il presidente Obama non ha altra scelta che quella di fare i bagagli e andarsene.”
*Nicola Nasser è un giornalista arabo residente a Bir Zeit, in Cisgiordania
Articolo tratto da: http://www.medarabnews.com/2010/03/03/scontro-usa-iran-in-iraq/
Pubblicato originariamente dal quotidiano al-Ahram il 25 febbraio