Non ci saranno colpi di scena. Con o senza frodi elettorali la sgangherata coalizione elettorale guidata dal primo ministro Nuri al-Maliki e imperniata sul partito shiita al-Dawa, risulterà la prima arrivata rispetto alle altre due più importanti. Essa, del resto, vinse già le elezioni provinciali del gennaio 2009.

Il blocco al-Maliki, il cui nome viene comunemente tradotto in “Alleanza per lo Stato di Diritto”, più esattamente sarebbe “Coalizione per  lo Stato della legge”. Abbiamo già scritto sulle origini di questa coalizione. Di essa fanno parte, accanto ad una maggioranza di gruppi shiiti, anche notabili sunniti (tra cui anche certi sceicchi  rinnegati che al tempo erano dalla parte della resistenza), curdi e  cristiani. Non si pensi che la coalizione di al-Maliki abbia un solido collante politico, o che ci siano affinità ideologiche tra i suoi protagonisti.

 

Ben al contrario è, tra le tre coalizioni principali, quella che nemmeno prova a nascondere di fondarsi sulla comunanza di interessi. Finita la guerra civile il governo è anzitutto occupato a siglare accordi con le grandi compagnie petrolifere, ad amministrare e distribuire ingenti somme di denaro e, con tecniche nepotistiche, a consolidare la sua capillare rete clientelare.

Ma per farlo al-Maliki ha dovuto scegliere una posizione “di centro”, e “di centro” in Iraq vuol dire una posizione di equidistanza tra le due potenze principali che si contendono l’egemonia: gli Usa e l’Iran. Una posizione di equilibrio che deve infine tener conto degli altri attori regionali arabi, anzitutto Arabia Saudita e Siria. Senza dimenticare la Turchia.
Fino ad ora al-Maliki è riuscito a destreggiarsi, a tenersi in equilibrio, essendo evidente che il suo ruolo di ago della bilancia dipende non solo dal mantenimento della pace armata interna, ma pure da quella regionale e internazionale. Una perturbazione seria che venga dall’interno o dall’esterno potrebbe farlo saltare in un battibaleno.

Per questo, anche in caso di ampia vittoria, al-Maliki dovrà comporre un governo di coalizione. Con il blocco curdo, molto probabilmente, visto che quello con le altre due coalizioni risulta difficile. Stiamo parlando della Alleanza Nazionale Irachena e di Iraqiya.
L’Alleanza Nazionale Irachena (ANI), quasi al cento per cento shiita, com’è noto, è il blocco più vicino all’Iran. Di essa fanno parte infatti non solo l’ex Consiglio Supremo Iracheno della Rivoluzione Islamica (SCIRI) ma pure i vari spezzoni di shiismo radicale di Moqtada al-Sadr. Il dissidio tra l’ANI e al-Maliki si può spiegare solo alla luce di quello tra USA e Iran per il controllo del paese.
La terza coalizione, che pare infatti sia terza anche dal primo spoglio dei risultati è Iraqiya, guidata da Iyad Allawi. Allawi è noto per essere stato messo in sella come primo ministro dagli occupanti americani. Egli ubbidisce infatti a Washington e proprio in virtù di questo suo posizionamento ha raggruppato attorno a se numerosi notabili sunniti, tra cui molti di quelli che fondarono i Consigli del Risveglio, ovvero che passarono dalla parte degli americani col motivo di combattere al-Qaida.

Se i risultati finali delle elezioni arriveranno molto tardi, di sicuro non nascerà presto il nuovo governo. L’alleanza di al-Maliki col blocco curdo, se si presenta agevole sulla carta, pone infatti un problema spinosissimo. Quanta autonomia dare alla minoranza curda? E a quanto dovrà ammontare la quota di ricchezza petrolifera ad essa spettante? Uno dei capisaldi della campagna elettorale di al-Maliki è stato infatti il rifiuto di fare dell’Iraq uno paese-spezzatino e quindi, non senza retorici richiami al patriottismo iracheno, l’idea di uno stato fortemente centralizzato.

D’altra parte non sarà facile portare al governo, né l’alleanza shiita filo-iraniana né quella sunnita filo-americana di Allawi. In un caso e nell’altro sarebbe uno sbilanciamento non gradito, vuoi alla comunità sunnita o a quella shiita, vuoi a Tehran o alla Casa Bianca.

Ogni scelta di questo tipo destabilizzerebbe il paese, mettendo in forse non solo il ritiro delle truppe americane, ma la fragile pace interna. L’ipotesi più probabile è dunque che queste elezioni, che hanno visto quasi il 50% degli iracheni astenersi dal voto, non solo non porranno fine alla crisi politica, ma la renderanno ancor più acuta e complicata.