Tre scommesse, più una, sulle elezioni del 28 marzo

Le elezioni regionali si terranno tra due settimane, ma due dati appaiono già certi: saranno le elezioni con più ricorsi e con meno elettori della storia repubblicana. Se il primo dato è già una certezza, che la dice lunga sull’interminabile processo degenerativo della politica italiana, sul secondo siamo disponibili ad accettare scommesse. L’importante è che si comprenda il legame tra questi due fenomeni. Il primo ci parla della prepotenza assoluta del governo, del servilismo indecente del presidente della Repubblica (vedi Compagni di merende), dell’impazzimento delle regole, dell’imbarbarimento castale delle leggi elettorali. Il secondo è l’espressione – certo, politicamente eterogenea – della frattura che si sta allargando tra una politica bipartiticamente asservita alle oligarchie e vasti settori popolari che se non altro si rifiutano di partecipare ad un gioco truccato, ad una democrazia fasulla  ed ingannatrice.

I fili della crisi

Di fronte allo sfacelo attuale, guai a perdersi nei dettagli. Meglio, molto meglio, cercare di inquadrare il contesto generale, i fili che legano la crisi politica a quella economica, la situazione italiana a quella internazionale (ed europea in particolare), le vicende attuali al percorso storico che si è dipanato nell’ultimo ventennio, non a caso dopo il decisivo biennio 1989-1991.
Il disastro italiano rimanda a tutti questi aspetti. Cosa è stata la seconda Repubblica – lasciamo qui perdere se, a parere di molti, ancora «incompiuta» – se non un lungo percorso di svuotamento progressivo della stessa democrazia rappresentativa? Maggioritario, presidenzialismo, rafforzamento degli esecutivi, trasformazione dei partiti in mere macchine elettorali, personalizzazione all’americana, tutte cose promosse tanto da destra che da sinistra, cosa mai avrebbero potuto produrre se non l’attuale buffonesco teatrino?
Dopo 20 anni un bilancio sarebbe davvero necessario, ma inutile chiederlo all’attuale ceto politico. Quello di destra è ancora abbarbicato ad un leader in evidente declino quanto privo di alternative; quello di centrosinistra vive solo di luce riflessa. Prendiamo la stessa vicenda del decreto «salvaliste», dove si è arrivati al paradosso di un Pd che da un lato lo ha giudicato (giustamente) incostituzionale, ma dall’altro ha difeso Napolitano perché «non poteva non firmarlo», formalizzando così allegramente la figura del garante che sfascia quella Costituzione che dovrebbe garantire.

La crisi morde, il Palazzo svicola

Le odierne forze politiche, tutte scaturite da questa costante discesa verso un completo degrado finalizzato al pieno asservimento alle oligarchie, si sono fatte trovare del tutto impreparate di fronte alla crisi economica scoppiata nel 2008.
Chiaramente, non si tratta di un fenomeno solo italiano. Ma in Italia abbiamo un governo che sa solo dire che bisogna essere «ottimisti», ed una «opposizione» che vede solo l’inazione dell’esecutivo, ma che non può proprio vedere la portata storica e sistemica dell’attuale crisi del capitalismo. Maggioranza e «opposizione» condividono in toto non solo l’adesione al sistema, ma fanno a gara a chi è più liberista, mercatista, «europeo», confindustriale, eccetera. E in questa gara spesso il centrosinistra prevale effettivamente sui sempre più sgangherati avversari.
Ora, si da il caso che, a dispetto delle speranze degli uni e degli altri, la crisi economica sia solo all’inizio. E di questo fatterello cominciano a prendere coscienza sempre più persone, altro non fosse che per l’aumento statistico di coloro che ne sono toccati direttamente. La crisi morde sempre di più, la famosa uscita dal tunnel non si vede, ed ai proclami sull’ottimismo od ai giuramenti sulle virtù del mercato ormai non crede più nessuno.
Da qui, anche da qui, l’attuale impulso al rifiuto della farsa elettorale come rifiuto di una casta separata ed indifferente alle questioni sociali. Una casta unicamente intenta ai propri giochi di potere, ai propri traffici affaristici, tutta tesa ad ingraziarsi questo o quel potere economico nazionale ed internazionale.
Si parla forse della crisi, dei suoi effetti sociali, nella campagna elettorale in corso? Assolutamente no, meglio la vuota gazzarra polemica priva di veri contenuti. Meglio il teatrino della politica, un po’ per tenersi le mani libere, ma soprattutto perché i suoi attori non saprebbero proprio cosa dire.

Tre scommesse, più una, sulle elezioni regionali

In questo quadro irreale si ha il coraggio di chiedere il consenso al popolo elettore. Vedremo con quale successo tra quindici giorni. Intanto azzardiamo tre scommesse più una (quella più importante) sulle elezioni regionali. Scommesse che saranno utili per cercare di prefigurare gli scenari più probabili del prossimo futuro.

1. Berlusconi perde le elezioni. Questa previsione si basa su diversi fattori: la crisi di credibilità del Pdl e del suo capo indiscusso, le guerre interne a quel partito, il contraccolpo di immagine del pasticciaccio delle liste, gli effetti della cosiddetta «Tangentopoli 2», ma soprattutto l’inevitabile riflesso di un crescente malcontento popolare di fronte alla crisi. Tra tutti questi elementi l’ultimo è decisamente quello più importante.
Naturalmente bisogna accordarsi su che cosa si intende per sconfitta. Il capo del governo ed i suoi fidi hanno già cominciato a prepararsi ad un pessimo risultato. Qualche mese fa parlavano della conquista della grande maggioranza delle regioni, obiettivo che sembrava veramente possibile, oggi dicono che canterebbero vittoria se vincessero in 4 regioni su 13 od addirittura (dichiarazione di Berlusconi del 12 marzo) se ne strappassero almeno una rispetto al 2005, arrivando così a quota 3.
Questa precipitosa marcia indietro nelle aspettative la dice lunga sul clima che si respira dalle parti del Pdl, pur di fronte ad avversari spenti, altrettanto malconci, privi di vere idee, guidati da personaggi grigi quando non impresentabili.
Ed è proprio in considerazione della pochezza del centrosinistra che un eventuale realizzarsi di questi scenari rappresenterebbe una secca sconfitta per Berlusconi. Una sconfitta molto più grave di quella del 2005, non fosse altro perché oggi, a differenza di allora, aprirebbe le porte alla resa dei conti nel Pdl, innescando quel redde rationem che nel caso non potrebbe essere ulteriormente rimandato.

2. I due poli si avvicinano. Sarà questo un elemento decisivo nel valutare la reale portata della sconfitta di Berlusconi. Giustamente viene fatto notare che le regioni non sono tutte uguali, e che dunque si dovrà considerare la somma dei voti dei due raggruppamenti in cui ancora si struttura un bipolarismo che per ora regge a dispetto delle sue crisi. La somma dei voti di ognuno di questi due poli indicherà gli attuali rapporti di forza interni al sistema bipolare, mentre solo il valore assoluto dei voti raccolti darà la misura del consenso effettivo. Una misura che sarà dunque determinata dalla percentuale che verrà raggiunta dall’astensione, ma su questo torneremo più avanti.
La previsione di un avvicinamento dei due poli, all’interno di un generale arretramento del consenso, si basa da un lato sugli stessi fattori di crisi del Pdl indicati al punto precedente, ma anche su una minore debolezza dei candidati del centrosinistra (dire maggiore forza sarebbe davvero eccessivo) e, soprattutto, sul fatto che il centrosinistra sta sostanzialmente tornando ad un’alleanza piuttosto ampia, abbastanza simile all’Unione.
E’ questa la registrazione di un fatto politico prima ancora che elettorale, ma che non possiamo non valutare, così come non possiamo non considerare la collocazione dell’Udc. Quale forno sceglierà alla fine la mini-Dc casiniana? Attualmente Casini si è presentato con un 4 – 6 – 3. In quattro regioni sta con il centrosinistra, in tre col centrodestra, in 6 si presenta da solo. Ma presto questa tattica delle «mani libere» dovrà portare a scelte più precise. Ed è prevedibile che la rotta sia quella verso un accordo di potere con il Pd bersaniano, un accordo forse non ancora rifinito nei particolari ma ormai in avanzata fase di gestazione.

3. La sinistra in arretramento. Abbiamo già accennato alla sostanziale ricomposizione del centrosinistra, quasi in termini unionisti. In questo schieramento, a sinistra del Pd si presentano due piccoli «arcobaleni», quello dichiarato di marca vendoliana, quello non dichiarato ma esibito in un simbolo a cerchi concentrici multipli, necessari a contenere i nomi di Rifondazione, Comunisti italiani, Socialismo 2000, Lavoro e Solidarietà.
Sinistra Ecologia e Libertà (Sel) è alleata con il Pd in 12 regioni su 13 (unica eccezione le Marche), mentre la Federazione della sinistra ha mancato l’accordo anche in Lombardia – dove semplicemente non è stata voluta dal candidato governatore, Penati – ed in Campania. Queste eccezioni sono del tutto secondarie rispetto alla netta prevalenza degli accordi, che hanno portato la Federazione a ripararsi sotto le ali del Partito Democratico in 10 regioni su 13.
La subalternità di queste forze verso il Pd ha in questa occasione una conferma inconfutabile. Questo asservimento consentirà di salvare qualche scranno di consigliere regionale, qualche assessorato, ma risulterà semplicemente disastroso sul piano elettorale.
Probabilmente Sel andrà bene al sud. Avendo accettato in pieno l’americanizzazione della politica i più arcobalenici degli ex Arcobaleno hanno deciso di giocarsi tutto sulla personalizzazione, inserendo nel simbolo un «con Vendola», che ricorda tanto i marchi berlusconiani e dipietristi. I sondaggi prevedono oggi una riconferma di Vendola in Puglia, e questo da ai sinistrolibertari un vantaggio di immagine non indifferente. In un centrosinistra privo di personaggi di spessore, Vendola porta sempre con sé il kit del «piccolo Bertinotti» per sparacchiare qualche modesto inoffensivo petardo: nell’immediato può funzionare, in quanto alla prospettiva la parabola del Pavone spennato ci parla abbondantemente del futuro dei suoi epigoni.
Ma se – contrariamente a quel che potevamo prevedere qualche tempo fa – i vendoliani potranno probabilmente vantare un successo in Puglia, sia pure all’interno di un dato nazionale comunque modesto, per i sinistro-federati si prepara un risultato piuttosto disastroso.
Con la caduta di Bertinotti, avevano avuto l’occasione per ridarsi un profilo di opposizione. L’hanno mancata clamorosamente, confermando ancora una volta che l’opportunismo è una malattia dalla quale non si guarisce facilmente. Una malattia che a questo punto potrebbe risultare semplicemente fatale. Imprigionati nel «menopeggismo», tanto subalterni da farsi spesso scavalcare perfino da un Di Pietro, andranno assai peggio che alle europee che certo non furono un successo.

4. L’avanzata dell’astensionismo. Tutto fa intravedere una forte avanzata dell’astensionismo, che potrebbe arrivare, tra non voto, schede bianche e annullate, vicino al 40% dell’elettorato, stabilendo il nuovo record della storia repubblicana.
Di tutte queste «scommesse», questa è certamente quella più importante, perché solo un consistente aumento dell’astensionismo potrà dare il segnale di una frattura che si va allargando, non solo nei confronti dell’attuale governo, ma anche della futura maggioranza in gestazione. 
Solo un’ottica inguaribilmente minoritaria può mettere in secondo piano ciò che è principale. Ed il principale flusso oppositivo va – aggiungiamo: del tutto logicamente – verso l’astensione. Che forse c’è oggi qualcuno in lizza che si è conquistato una credibilità di oppositore? Non ci pare proprio.

L’astensione. Per una forte delegittimazione di massa del sistema politico

Vedremo tra 15 giorni se la sostanza di queste previsioni verrà confermata o smentita. Se verrà confermata, le regionali saranno uno snodo assai importante della crisi politica in corso (crisi, lo ripetiamo, strettamente legata a quella economica).
I tanti progetti agitati in questi mesi dovranno infine dischiudersi, il governo traballerà, le classi dominanti cercheranno di gestire il passaggio ad un futuro esecutivo ancor più ancorato alle oligarchie economiche. L’attuale configurazione del sistema politico promette una palude ancor più infida di quella attuale.
Ogni speranza di poterla combattere seriamente è legata al rafforzamento di una sorta di «fronte del rifiuto», certo difficile da rappresentare politicamente, ma base indispensabile di ogni progetto antisistemico.
Le difficoltà di questa strada sono evidenti, ma che nessuno venga a riproporci le ricette irrimediabilmente sconfitte in questi ultimi anni. Accettare questa sfida è anzi l’unico modo per evitare la certezza di nuove e più pesanti sconfitte. L’astensionismo è l’arma che abbiamo a disposizione: usiamola. Solo la delegittimazione di massa di un sistema politico sempre più antidemocratico, potrà favorire la costruzione di una nuova prospettiva anticapitalista.
Uscire dalla crisi del capitalismo, od uscire dal capitalismo in crisi? Prima o poi questa domanda si porrà come dirimente. Possiamo immaginare un prevalere della seconda ipotesi, quella rivoluzionaria, senza una precedente rottura di massa con un sistema politico integralmente operante per il mantenimento dell’ordine costituito?
La risposta è talmente ovvia da non lasciare scampo ai menopeggisti di varia osservanza. Quando il gioco si fa duro gli opportunismi diventano insostenibili. Bene allora l’astensionismo, uno sbocco ancora insufficiente al malcontento popolare, ma sempre mille volte meglio del suo incanalamento istituzionale attraverso i tanti tentacoli del sistema oligarchico.
Del resto, ogni serio progetto di cambiamento non nasce mai dai sottili distinguo, ma solo da una profonda frattura con l’esistente. Un simile progetto non può che essere preceduto dal rifiuto. Ed ora è il momento del rifiuto, pratichiamolo con l’astensione.

Infine, una noterella conclusiva. Ieri, a Roma, non solo i «viola», ma anche i cosiddetti «rossi» sono scesi in piazza in una manifestazione, peraltro assai modesta, egemonizzata da Pd ed Idv. Una manifestazione talmente sterilizzata nei contenuti da aver imposto il silenzio omertoso sulle malefatte del Capo dello Stato.
Insomma, siamo alle solite: nei momenti decisivi i Vendola, i Ferrero, i Diliberto stanno sempre con la stessa ditta, quella del disastroso governo Prodi. C’è bisogno di aggiungere altro per descrivere la loro inutilità politica e sociale?