Quella di ieri, in Palestina, è stata la «Giornata della rabbia». Nei giorni scorsi Hamas aveva chiamato alla mobilitazione, invitando «tutto il popolo palestinese a celebrare un giorno della rabbia contro l’occupazione a Gerusalemme e nei confronti della moschea al-Aqsa».
La giornata ha visto una notevole partecipazione alle proteste, con numerosi scontri, soprattutto a Gerusalemme e nelle aree circostanti, in particolare nei campi profughi di Shufat, Eisaweyah, Ras al-Amud e Wadi al-Juz.

Al termine della giornata si sono contati 60 arresti e 150 feriti tra i palestinesi, mentre pare che vi siano stati alcuni feriti anche tra i poliziotti israeliani. Anche questa mattina sono giunte notizie di scontri a Nablus e presso Hebron.

Tra i palestinesi feriti ieri, 50 sono stati colpiti da colpi di arma da fuoco, pare con proiettili rivestiti di plastica, mentre gli altri 100 sono stati intossicati dai lacrimogeni.
La repressione israeliana è stata dunque, come al solito, durissima. Ma per la prima volta da diverso tempo, migliaia di persone sono tornate a manifestare contro l’occupazione in Cisgiordania. E questo è il vero fatto politico. Negli ultimi anni, infatti, la Cisgiordania ha subito il controllo poliziesco congiunto degli occupanti e dei collaborazionisti dell’Anp. Un controllo che ha reso difficile anche la solidarietà con Gaza assediata.

Ieri, invece, il popolo palestinese è apparso unito. Alla manifestazione di Gerusalemme ha fatto subito eco quella di Gaza, dove migliaia di persone hanno raggiunto la piazza del Consiglio Legislativo, il cui vicepresidente Ahmad Bahr ha fatto appello alla risposta militare delle forze della Resistenza per reagire alle aggressioni israeliane.
Come noto, il motivo che ha portato alle manifestazioni di ieri è il restauro della sinagoga Hurva, a soli 400 metri dalla moschea al-Aqsa. Una vera provocazione, che mette in luce il disegno di sionistizzazione dell’intera Palestina, un processo che procede in parallelo con la costruzione di nuove colonie.

Ed è proprio la questione dei nuovi insediamenti, accompagnata dalla demolizione delle case palestinesi, quella che può dar fuoco alle polveri. Oltretutto è proprio su questo punto che si è aperto un contenzioso tra il governo Netanyahu e la Casa Bianca.
Sta di fatto che la parola «Intifada» ieri è stata evocata alla Knesset dal parlamentare della minoranza araba, Hanin Zuabi, che ha rilevato come: «Le politiche di Netanyahu equivalgono a una pulizia etnica e rappresentano l’incentivo più forte per una terza intifada».

Che le proteste di questi giorni possano costituire l’inizio di una nuova rivolta è qualcosa di più di una semplice ipotesi.
Il vice presidente dell’ufficio politico di Hamas, Mussa Abu Marzuk, parlando ad al Jazeera, si è rivolto ai palestinesi affinché lancino una terza intifada per «sventare un complotto sionista» volto a «impadronirsi di Gerusalemme» e ad «espellere tutti i musulmani e cristiani». Parole simili sono state usate dal leader di Hamas, Khaled Meshaal, e da altri esponenti della resistenza palestinese.
Da Gaza, il capo del governo Haniyah, dopo aver invitato i leader arabi e le stesse Nazioni Unite a prendere una posizione di condanna nei confronti degli insediamenti, ha chiesto ai palestinesi (citiamo da Infopal) di «esprimere la loro rabbia con ogni mezzo a disposizione per non consentire agli occupanti di proseguire nella giudaizzazione di al-Quds e perciò dominarla modificandone l’identità araba e islamica. Egli ritiene che l’intifada contro l’occupante resti la scelta di base per porre un limite alle provocazioni contro i palestinesi e i loro luoghi santi».

Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni. Di certo la politica del governo israeliano rende più vuota che mai la rituale formula del cosiddetto «processo di pace». Questo «processo» in realtà non è mai esistito, ma oggi non può più neppure funzionare come foglia di fico per coprire la politica coloniale e razzista di Israele.
L’eroica resistenza di Gaza ha certo bisogno del sostegno internazionale, ma prima ancora ha bisogno della ricostruzione di un fronte unitario con la resistenza palestinese in Cisgiordania. Solo questo fronte potrà portare alla liquidazione del vertice collaborazionista dell’Anp, condizione preliminare per ridare slancio alla lotta di liberazione contro il sionismo.
I segnali di rivolta che ci giungono da Gerusalemme, ma non solo, sono una precisa indicazione in questo senso.