Sembra oramai troppo tardi affinché le autorità di Khartoum facciano marcia indietro venendo incontro alla richiesta di rimandare le elezioni. E siccome tutti i commentatori danno quasi per certa la vittoria del partito di al-Bashir, vorremmo sbagliarci ma le opposizioni, pur divise, scateneranno un putiferio, denunciando chissà quali brogli elettorali, proprio allo scopo di delegittimare la rivincita di al-Bashir e del blocco che lo sostiene.
Un altro caso di “rivoluzione colorata” alle porte? Molto probabile, a patto che si tenga conto che in Sudan il colore predominante di un simile tentativo sarebbe il rosso-sangue.

Ad aprile si svolgeranno in Sudan importantissime elezioni. Presidenziali e parlamentari. Le prime dal 1996. Sin da quando, nel 1993, al-Bashir conquistò il potere, la macchina della propaganda occidentale ha teso a presentare il regime sudanese come una “dittatura islamica integralista”.

Una bugia clamorosa che serviva a delegittimare un governo, quello di al-Bashir appunto, “colpevole” di aver assunto posizioni ostili agli Stati Uniti, e di aver sostenuto fattivamente le resistenze antimperialiste, nonché di aver preferito fare affari con le compagnie petrolifere cinesi cacciando le sanguisughe occidentali.

Gli accordi di pace del 2005 con i sudisti

Nel tentativo di rovesciare al-Bashir gli Stati Uniti, spalleggiati dai fantocci europei nonché locali, le hanno provate di tutti i colori. Anzitutto sostenendo la guerriglia sudista guidata dall’Esercito Sudanese Popolare di Liberazione (SPLA-SPLM) di John Garang. Ne nacque una seconda, cruenta guerra civile, che si concluse tuttavia nel 2004, quando il governo di Khartoum e lo SPLA sottoscrissero a Nairobi, nel gennaio 2005, un Accordo di Pace noto come “Comprehensive Peace Agreement”. In base a quegli accordi veniva concessa al Sud, sotto la supervisione dell’ONU,  un’ampia autonomia di sei anni, fino allo svolgimento di un referendum che deciderà sull’eventuale secessione. Questo referendum si svolgerà infatti l’anno prossimo. In base a quegli accordi di pace il SPLM entrò anche a far parte del governo centrale, dal quale tuttavia si ritirò nell’ottobre 2007.

Difficilmente questo sarebbe accaduto se gli Stati Uniti non l’avessero espressamente voluto. Contrariamente a quanto sperato dalla Casa Bianca la pace stava rafforzando e non indebolendo al-Bashir e il suo Partito Nazionale del Congresso, mentre  i sudisti, che in pratica governavano il sud del paese, non solo erano dilaniati da lotte intestine, ma non riuscivano nemmeno a tenere ordine nelle zone da essi controllate, segnate da scontri tra diverse tribù e dalla incursioni dei banditi-guerriglieri ugandesi del LRA.
Del resto l’uscita dal governo del SPLA-SPLM avveniva contestualmente al dilagare di altre tre ribellioni armate. Quella nell’Eastern Front (sul Mar Rosso a nord dell’Eritrea), quella nelle regioni centro-orientali delle Montagne Nuba e del Nilo Azzurro, ed infine del Darfur.

La guerra nel Darfur

Il conflitto nel Darfur è stato ed è quello certamente più importante, non fosse perché ha coinvolto nella guerra anche il Ciad, a sua volta sostenuto da Francia e Stati Uniti. E’ proprio facendo leva sui gruppi ribelli darfuriani che gli Stati Uniti hanno continuato la loro politica di destabilizzazione allo scopo di azzoppare e rovesciare al-Bashir.

Non riuscendo a spuntarla nemmeno in questa occasione gli imperialisti hanno costruito la leggenda del “genocidio in Darfur” accusando l’esercito sudanese e le milizie Janjawid alleate di avere sterminato niente meno che mezzo milione di persone. Cifre notoriamente gonfiate (agenzie indipendenti e diverse Ong parlano di 10mila morti) che però servivano a sottoporre il Sudan ad un duro regime sanzionatorio ed infine spingere il Tribunale Penale Internazionale a spiccare il mandato di cattura per “genocidio” contro il Presidente al-Bashir.

Da un anno e mezzo circa la guerra in Darfur è andata scemando. Il governo ha contrastato i ribelli sostenuti dall’Occidente, infliggendo loro pesanti sconfitte, militari e politiche, la qual cosa ha innescato una serie di scissioni gruppuscolari a catena nei movimenti di guerriglia darfuriani. Due i gruppi ribelli principali, con basi nel Ciad e notoriamente finanziati e armati da USA e Francia: l’Esercito di Liberazione del Sudan (SLA) e il Movimento per la Giustizia e l’Eguaglianza (JEM).  Oggi, a meno di dieci anni dall’inizio della rivolta darfuriana, si contano almeno una ventina di organizzazioni armate, spesso in lotta accanita fra loro, in alcuni casi sigle di comodo per camuffare bande dedite al brigantaggio o vere e proprie filiali militari degli imperialisti.

Il nuovo approccio americano

Dicevamo delle imminenti elezioni d’aprile, parlamentari e presidenziali. Dopo avere fomentato per anni le rivolte armate gli USA di Obama hanno dovuto cambiare registro. Con un documento consegnato nell’ottobre scorso, il Dipartimento di Stato prendeva atto dei fallimenti dei tentativi di rovesciare al-Bashir con la forza, e improvvisamente, compiendo un’apertura di credito a Khartoum, ribadiva la validità degli accordi di pace del  gennaio 2005, e quindi legittimava la decisione di svolgere le elezioni.

La sterzata compiuta dagli USA spingeva i gruppi darfuriani a firmare il cessate il fuoco e ad accettare la sfida elettorale. Il tentativo di Washington è evidente: far fuori al-Bashir infliggendogli una pesante sconfitta elettorale. Obbiettivo ritenuto realistico a condizione di unire tutte le opposizioni sudanesi, non solo le quattro guerriglie regionali, ma pure alcuni partiti politici con sede a Khartoum, tra cui i musulmani di al-Turabi, i comunisti, ed altri notabili tribali. Tutto fa brodo! Ovviamente, in quest’operazione, gli americani non si sono fatti scrupoli, e si può supporre che nel tentativo di isolare al-Bashir e la cosiddetta “ala dura” del regime, abbiano anche tentato di corrompere esponenti del governo e del Partito Nazionale del Congresso.

Ma al-Bashir non è stato a guardare. Ha tentato di dividere il fronte avversario e di costruire attorno alla sua leadership una coalizione la più ampia. In quest’ottica si comprendono i negoziati recentissimi, svoltisi a Doha, tra le autorità di Khartoum e alcuni gruppi ribeli darfuriani, tra cui il Jem. Al-Bashir  ha accettato che essi partecipassero alle imminenti elezioni, da mesi in frenetica preparazione e che, a meno di spettacolari colpi di scena, si svolgeranno ormai sicuramente. Superate sembrano, almeno coi sudisti, le diverse dispute venute fuori gli ultimi mesi, riguardanti le liste elettorali, le procedure e la composizione degli organismi di controllo ai seggi e sullo spoglio delle urne.

Darfuriani divisi

Solo un gruppo darfuriano (per altro fortemente indebolito da diverse spaccature) lo SLA, più precisamente la frazione guidata da Abdel Wahid al Nur, ha recisamente rifiutato ogni negoziato col governo centrale (di qui gli scontri armati di febbraio nella fertile pianura del Jebel Marra, nel cuore del Darfur). Non si pensi a chissà quale posizione di coerenza politica da parte dello SLA. Secondo commentatori sudanesi indipendenti Abdel Wahid al Nur tiene duro solo allo scopo di guadagnare spazio alle spese del JEM e dei gruppi che hanno accettato il negoziato di pace, nonché per accreditarsi agli occhi degli americani come guida in vista della  ripresa del conflitto nel caso di vittoria elettorale di al-Bashir.

Non un gruppetto qualsiasi ma proprio il JEM aveva accettato, un mese fa, di recarsi a  Doha per negoziare un accordo col governo. Il JEM si era detto disponbile a prendere parte alle elezioni, ma poneva una condizione: che le elezioni fossero posticipate. Richiesta respinta dalla delegazione governativa. Ciò che ha portato al congelamento dei negoziati tra il JEM e il governo.

Ma l’offensiva politica di Khartoum verso i ribelli dafuriani non per questo si arrestava. E’ notizia di ieri la firma di un accordo di pace tra il governo e uno dei tanti gruppi darfuriani, il Movimento per la Liberazione e la Giustizia (LJM), guidato dall’ex governatore del Darfur El-Tijani el-Sissi. Secondo Tijani el-Sissi, il LJM è frutto della recente unificazione di almeno dieci gruppi armati e non.

La firma di quest’accordo ha mandato su tutte le furie il JEM, che sperava di essere accreditato come rappresentante unico e legittimo della guerriglia darfuriana. Il JEM ha minacciato di ritirarsi dal tavolo negoziale di Doha, poi ha dovuto fare un passo indietro. Alla mossa politica di Khartoum ha risposto con una contro-mossa politica. Proprio mentre ieri veniva siglato l’accordo tra il LJM e il governo sudanese, sempre a Doha, il JEM rendeva noto di avere costruito un coordinamento unitario con altri cinque gruppi ribelli darfuriani, tra cui il Movimento di Liberazione del Sudan – Comando Unitario ( (SLM-Unity), lo SLM Juba-Unità, il Fronte Unito delle Forze Rivoluzionarie (URFF) e il Movimento Democratico Giustizia ed Eguaglianza (DJEM).

Questa alleanza si spiega proprio per dare forza alla richiesta del JEM di rimandare le previste elezioni di aprile. Tant’è che la prima richiesta è stata quella di rifare daccapo il censimento dei cittadini aventi diritto di voto. Ognuno può immaginare cosa questo implichi: un rimandare le elezioni sine die, mentre alle porte c’è già il referendum del 2011 sulla indipendenza del sud.

Sembra oramai troppo tardi affinché le autorità di Khartoum facciano marcia indietro venendo incontro alla richiesta di rimandare le elezioni. E siccome tutti i commentatori danno quasi per certa la vittoria del partito di al-Bashir, vorremmo sbagliarci ma le opposizioni, pur divise, scateneranno un putiferio, denunciando chissà quali brogli elettorali, proprio allo scopo di delegittimare la rivincita di al-Bashir e del blocco che lo sostiene.
Un altro caso di “rivoluzione colorata” alle porte? Molto probabile, a patto che si tenga conto che in Sudan il colore predominante di un simile tentativo sarebbe il rosso-sangue.