Dal turbo-capitalismo al turbo-disordine

Le due catastrofiche guerre mondiali ebbero come causa le “contraddizioni”, o meglio gli antagonismi “tra i briganti imperialistici”. Posta in palio: “il bottino della rapina ai danni dei popoli coloniali e semicoloniali”. L’esito della seconda guerra stravolse le consolidate dinamiche geo-politiche mondiali.
L’emersione dell’URSS come grande potenza, la quale veniva accompagnata all’avanzata dei movimenti antimperialisti e operai su scala internazionale, costrinse le potenze imperialistiche, vincenti e perdenti, a mettere da parte i dissidi e fare causa comune per non soccombere. Continuare a combattersi era oramai un lusso che i “briganti” non potevano più permettersi. Avrebbero fatto la fine dei polli di Renzo.

Bretton Woods, il Piano Marshall, la fondazione della NATO. Avveniva un mutamento colossale della dialettica imperialistica. Si chiudeva la fase storica segnata dal peso centrale del conflitto interimperialistico, iniziava quella del connubio o sodalizio pan-imperialistico.
Ma la Santa Alleanza non poteva che registrare la nuova gerarchia. Gli Stati Uniti erano il primus inter pares o, per essere categorici, erano la potenza super-imperialistica al cui cospetto gli alleati europei e giapponese agivano, non senza soffrirne, come meri sub-imperialismi.

1989-91. Il crollo dell’URSS e il suo smembramento, lo scioglimento del Comecon e del Patto di Varsavia erano la spettacolare conferma a posteriori della correttezza della “svolta strategica unionista” post-bellica. L’URSS è stata battuta grazie al passaggio dalla discordia inter-imperialistica all’unità pan-imperialistica e che questa unità si fosse consolidata sotto l’indiscussa supremazia americana.
Ma questa storica vittoria sfociò in un parto gemellare che diede vita a due entità destinate ad entrare in rotta di collisione: il delirio di onnipotenza del super-imperialismo da una parte e, dall’altra, l’ambizione delle altre potenze imperialistiche ad emanciparsi dalla loro sudditanza o signoraggio.

Il grande “balzo in avanti” (ma all’insegna del capitalismo) della Cina, le straordinarie difficoltà riscontrate dall’espansionismo americano, ed infine il sopraggiungere della crisi storico-sistemica hanno prodotto serie e profonde fratture nella Santa Alleanza sorta dopo la guerra e riacceso la contesa, che sembrava sopita per sempre, interimperialistica. I fattori di discordia tra i “briganti”, in linea di tendenza, stanno prendendo il sopravvento su quella della concordia frontista.

Il trentennio d’oro del turbo-capitalismo segnato dalla assoluta supremazia del capitalismo-finanziario-casinò rischia di degenerare in un generale turbo-disordine. Privi di una minaccia mortale davanti alla quale fare fronte comune e colpiti dalla crisi economica, i “briganti” hanno iniziato a bisticciare. Lo si può vedere dalle schermaglie crescenti di questi mesi, dalle divergenze sul come fare fronte alla crisi e sul come eventualmente venirne fuori. Nessuna cosiddetta “exit strategy” è neutrale, ognuna implica una scelta geopolitica-economica strategica, una determinata configurazione delle relazioni internazionali, ovvero una differente gerarchia e attribuzione di rango.

Prendiamo ad esempio, notizia di questi giorni, lo scontro in atto sulle regole da introdurre nei mercati finanziari che, come detto, non sono più solo un’epifenomeno metafisico dell’economia “reale”, ma l’universo sistemico nel quale le diverse economie fisiche orbitano come satelliti attorno al sole gassoso della finanza speculativa.

Un solco profondo divide gli europei continentali dagli USA e dalla loro filiale londinese. La UE vorrebbe approntare una direttiva sugli hedge fund, ovvero porre sotto controllo, se non proprio fare piazza pulita, quantomeno dei Credit default swap. L’asse transatlantico è entrato in fibrillazione. Gli inglesi, che per decenni si sono ingrassati grazie alla speculazione finanziaria, non ne vogliono sapere, nemmeno di regolare e porre sotto controllo politico il gioco d’azzardo dei derivati.

Il Segretario al tesoro USA  Timoty Geithner, che solo pochi mesi fa, sull’onda del big change obamiano tuonava fuoco e fiamme contro le grandi banche d’affari e i derivati, che «…non hanno eliminato il rischio. Non hanno posto fine alla tendenza dei mercati a crisi di follia e di panico. Non hanno eliminato la possibilità di fallimento di un qualunque grosso intermediario finanziario. E non hanno isolato il sistema finanziario dagli effetti di tale fallimento» (Vedi: L. Wolfe, «Collapse of carry trade would blow out financial system», Executive Intelligence Review, 10 marzo 2009); oggi, in pieno dietrofront, si erge a difensore degli hedge fund anglosassoni e accusa la UE, francesi in testa, di protezionismo, e di voler danneggiare gli interessi nordamericani.
Questo accade mentre Moody’s fa aleggiare la minaccia di downgrading sul debito, niente di meno, che degli Usa e del Regno Unito.
Altro che governance globale! siamo agli albori di un global clash.

Nel frattempo il Congresso americano sta spingendo Obama a condannare come “manipolatore di valute” Wen Jiabao, il quale ha risposto ovviamente picche alla richiesta di apprezzare il Renminbi, la qual cosa sarebbe effettivamente un harakiri dal punto di vista cinese, mentre la Casa Bianca non fa alcun passo verso la richiesta cinese di mettere ordine nel suo disastrato sistema finanziario e bancario (che fa coppia con quella europea di mettere fine al capitalismo-casinò dei derivati).

La crisi incrina anche l’asse carolingio su cui fa perno l’Unione europea. Lo si vede nelle rimostranze francesi verso i tedeschi, accusati di dopare il loro export a danno degli altri soci europei. Ma le tensioni franco-tedesche in seno all’Eurogruppo si stanno facendo serie sull’idea tedesca della  costituzione di un Fondo Monetario Europeo (FME), temuta da Parigi perché nasconde la possibilità di far uscire dall’euro i meno virtuosi, ciò pur di mantenere l’egemonia del Marco sotto mentite spoglie (Euro).

E qui veniamo al dissenso nell’approccio alla gravissima crisi greca. Dopo mesi di incontri e roboanti proclami, resta che una soluzione europea concordata non viene fuori. Nessuna traccia del “Piano di salvataggio”. Anzi! resta che il soccorso europeo ad Atene se ci sarà, verrà solo se Papandreu venisse bloccato o travolto dalla protesta popolare e non riuscisse a promuovere nuove misure d’austerità (poiché è chiaro che quelle adottate sono solo un antipasto: la Grecia tra rimborsi di titoli di stato in scadenza, interessi sul debito e deficit deve raccogliere circa 55 miliardi di euro pari al 20% del Pil).

Non tutti sono d’accordo con la Merkel, che è disposta a sacrificare la Grecia sull’altare dell’egemonia e degli interessi tedeschi. Curiosa la posizione tedesca. La Germania non è solo il primo paese esportatore in Grecia, è anche il primo detentore dei titoli di Atene, ovvero il primo a perdere in caso di default del paese balcanico. Malgrado questo la Merkel, che sostiene Papandreu come la corda l’impiccato, dice di essere disposta ad aiutare Atene solo a patto che l’eventuale prestito (20 o 50 miliardi?) sia erogato da tutti i 27 Stati membri della Ue o, come minimo, dalla cerchia ristretta dei membri dell’Eurogruppo (e che il tasso d’interesse applicato alla Grecia… sia congruo).

Tra i diversi effetti della sopraggiunta crisi c’è dunque la fine della fase in cui le potenze imperialistiche andavano d’amore e d’accordo sotto l’ombrello della supremazia americana. E la qual cosa non produce una spinta centripeta in Europa ma, ben al contrario, centrifuga.
Dal turbo-capitalismo stiamo entrando nella fase agitata del turbo-disordine.