Dove va la Turchia?

Dove va la Turchia? Se lo stanno chiedendo in molti, osservando le mosse Erdogan. Quel che è certo è che questo paese è in movimento, un effetto per niente secondario della crisi dell’unipolarismo americano e del suo impantanamento mediorientale. Il posizionamento della Turchia – che dipenderà da molti fattori, non ultimo dall’esito dello scontro interno tra Erdogan e l’oligarchia militare filo-americana – avrà conseguenze geopolitiche di grande portata. Basti pensare, nell’immediato, al possibile ruolo turco nella vicenda iraniana.
Ci siamo già occupati della questione (vedi
La svolta di Erdogan) e torneremo a farlo. Intanto pubblichiamo su questo tema un interessante articolo di Carlo Bertani.

Solimano guarda verso est

di Carlo Bertani

Se proprio dovessimo confessare il sentimento che abbiamo provato leggendo l’accusa, esplicita, lanciata a Parigi dal premier turco Erdogan ad Israele – il genocidio di Gaza – potremmo definirlo meraviglia, ma non stupore.
In altre parole, non c’attendevamo una così esplicita veemenza, ma la sostanza c’era già chiara.
Cos’ha detto, Erdogan?

Israele rappresenta oggi la principale minaccia per la pace regionale…Se un paese fa un uso della forza sproporzionato, in Palestina, a Gaza, utilizza bombe al fosforo, non gli diremo “bravo”. Gli chiediamo come possa agire in questo modo…Goldstone è ebreo e il suo rapporto è chiaro…non c’è dichiarazione alla quale gli israeliani non reagiscano, non si rimettono mai in discussione, non c’è un giorno in cui non ritengano di aver ragione.[1]”

Ma ce n’è anche per i sostenitori di sanzioni od interventi militari nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare:
finora l’AIEA ha parlato di probabilità e non di certezze.”

La dura presa di posizione turca dovrebbe essere soppesata con attenzione sia ad Ovest, sia ad Est: perché?
Poiché, soprattutto dopo “l’era Bush” – ossia dopo i fallimenti della politica USA nello scacchiere del Vicino e Medio Oriente – c’è un grave deficit politico nel mondo musulmano e qualcuno sarà chiamato, presto o tardi, ad assumersi le responsabilità che oggi sono delle fallimentari amministrazioni occidentali o dei loro Quisling.
La situazione “sul campo” è sempre grave, anche se i media occidentali hanno iniziato a “spegnere le telecamere” sull’Afghanistan ma, soprattutto, sull’Iraq: si riportano notizie d’elezioni politiche, ma s’omette di raccontare quante vite continua a stroncare la guerriglia, civili iracheni e militari USA.
Ciò che manca in Europa e negli USA è veramente una “exit strategy”, ossia quella che potrà essere, in definitiva, un andarsene almeno con “l’onore delle armi”. Nemmeno questo è possibile pianificare.
Se l’Afghanistan è tuttora territorio di guerra, quello che vogliono far credere è che l’Iraq sia diventato in qualche modo “normale”: come si può definire “normale” un Paese dove il tempo è ritmato dagli scoppi delle autobombe?

Se le armi occidentali hanno completamente fallito (ammettendo di credere, come allocchi, che questa fosse la loro missione) nell’esportazione della democrazia, oggi non sanno nemmeno come riportare, almeno, la situazione ad un livello “accettabile” per andarsene.

Per capire quanto sia costante, nel tempo, questo fallimento, ci viene in aiuto un giornalista sui generis, sul quale non possiamo assolutamente nutrire dubbi d’incompetenza o di superficialità nel valutare quei luoghi, quelle guerre e quegli scenari: Thomas Edward Lawrence.
Ecco cosa scriveva in una corrispondenza per il Sunday Times, il 2 Agosto del 1920, sull’Iraq:

Il popolo britannico è stato condotto in Mesopotamia in una trappola, dalla quale sarà difficile uscire con dignità ed onore. Sono stati ingannati mediante la costante mistificazione dell’informazione.
Il nostro governo è più carente del vecchio sistema turco. I turchi presidiarono il Paese con 14.000 militari di leva (locali compresi) ed uccisero una media annuale di duecento Arabi per mantenere la pace. Noi, dispieghiamo 90.000 uomini, con aeroplani, autoblindo, battelli armati e treni corazzati. Abbiamo ucciso circa 10.000 Arabi solo durante la recente Estate
.”[2]

Le parole di Lawrence potrebbero, con differenze di dettaglio, essere pubblicate con la data odierna. E qui entra in gioco Erdogan.

Apparentemente, le dichiarazioni di Erdogan possono essere interpretate come un attacco ad Israele: in realtà, sono il necessario distacco da posizioni filo-israeliane, quel tanto che basta per accreditare nuovamente la Turchia come un interlocutore attendibile nel mondo arabo e musulmano.
Se non bastano le parole di Lawrence per convincerci dell’inadeguatezza, dell’inconsistenza politica dell’Occidente in quelle aree – dall’accordo segreto di Sykes-Picot del 1916, la dichiarazione di Balfour per aggraziarsi il barone Rothschild (che finanziava lo sforzo bellico britannico), passando per il trattato di Sèvres del 1920 e terminando con le farsesche elezioni irachene ed afgane di questi anni – bisognerà comprendere che nel mondo arabo e musulmano di serie proposte politiche se ne scorgono poche. Anzitutto, per la pochezza degli attori.

L’Arabia Saudita è certamente il regno del denaro e dei petroldollari, ma è anche la nazione che vive – diremmo “istituzionalmente” – un grave deficit di democrazia, intesa come completa assenza di dialogo interno, di dibattito politico: tutto è deciso, pianificato e controllato dalla reggia di Ryad.
Potrebbe essere altrimenti? Il regno saudita è poco popoloso, composto prevalentemente da deserto e con un’economia completamente succube del petrolio: mancano principalmente gli “attori” del vivere sociale. La stessa cosa vale, in dimensioni ridotte, per gli Stati del Golfo.
Anche la Giordania è troppo piccola per essere veramente attrice nello scenario medio-orientale, nonostante gli sforzi di una dinastia mai doma nell’accettare tali angustie.

L’Egitto, da sempre, è nazione-guida per il mondo arabo: l’Istituto di Al-Azhar è probabilmente il maggior centro del pensiero musulmano, il passato ha visto sulla scena egiziana personaggi del calibro di Nasser. E’ il presente il problema.
L’Egitto è “congelato” da troppi anni in una sorta di “mubarakesimo” che ne ha devitalizzato le energie prorompenti. Il “regno” di Hosni Mubarak assomiglia sempre di più a quello ricordato in Russia come l’epoca di “nonno Breznev”: una società bloccata nelle sue dinamiche, sottoposta ad un’asfittica censura di polizia, laddove le energie vitali sembrano perdersi come acqua negli uadi.
Cosa rimane? Il minuscolo e frammentato Libano? La sfinge libica?

La Siria è la nazione che ha mantenuto più d’ogni altra, dopo il crollo dell’URSS, l’antica impostazione nasseriana del socialismo reale, mentre la disputa con Israele per la restituzione delle alture del Golan non ha mai trovato soluzione.
D’altro canto, la Siria non ha certo le potenzialità economiche dei due vicini: all’Est, l’Iran degli ayatollah, ad Ovest la Turchia, l’erede dell’Impero Ottomano.
E, se vogliamo tornare un poco indietro nei secoli, queste sono le due realtà che hanno impregnato il mondo musulmano, più dei califfati di Baghdad – senz’altro più ricchi di cultura, che proveniva, però, in gran parte dall’Est – ma privi di quel pragmatismo che ha consentito ai due Paesi di valicare secoli di storia senza mai essere schiacciati da un colonialismo di nome e di fatto.

Cosa sta accadendo, oggi?
L’Iran sta procedendo a marce forzate verso l’industrializzazione e la modernità, con un tentativo unico nel suo genere d’interpretare l’Islam senza violentarlo ma senza, sull’altro versante, farsi imbrigliare come i Paesi del Golfo.
Se, però, guardiamo più alla Storia Moderna, solo la Turchia possiede un “know-how” imperiale nel mondo musulmano: l’Impero Ottomano, caduto meno di un secolo fa, è uno dei grandi “animali addormentati” della Storia, che poco è valutato e che tanto, ancora oggi, determina negli eventi.
Basti riflettere che la Bosnia è ancora oggi una “piccola Turchia”, che Paesi come l’Albania nacquero proprio dal collasso del grande impero morente, colpito dalle armi europee ovunque perché vastissimo, dal Bosforo all’Iraq, dalla Libia al deserto arabico. Proprio i luoghi dove oggi manca qualsiasi proposta politica convincente, il vuoto pneumatico della proposta.

Qualche commentatore un po’ superficiale ha giustificato la veemente “uscita” di Erdogan con la questione armena, “elevata” dal Congresso USA a livello di genocidio. Fra un po’ sarà un secolo che si parla del genocidio armeno, eppure la Turchia non aveva mai meditato di rompere l’alleanza con Israele – e, di fatto, d’incrinare quelle con gli USA e con l’Unione Europea, giungendo a mandare all’aria un’importante esercitazione NATO – soltanto per la vicenda armena.
E’ ovvio che un simile approccio non favorirà l’integrazione della Turchia in Europa: allora, perché? Questioni interne?

Se così fosse, Erdogan si sarebbe limitato ad infiammare qualche piazza fra il Bosforo ed Erzurum, come aveva già fatto in passato: lanciare da Parigi – prima di un colloquio con Sarkozy – una simile freccia, significa non temere le conseguenze internazionali. Anzi, quasi cercarle.
Se s’osserva con più attenzione la Geografia di quei luoghi, si noterà che la lunghissima frontiera turca dell’Est corre dalla Siria all’Iran per centinaia di chilometri. Comunità turche sono stanziate nel nord dell’Iraq (a Kirkuk, ad esempio) fino in Cina, lungo l’antica Via della Seta.

E’ senz’altro presto per definire quali potranno essere gli sviluppi nell’area, ma di certo la forza NATO in Afghanistan è sulla via del logoramento: locale, causato dalla guerriglia e dall’instabilità del governo Karzai, e generale, dovuto alla sempre maggior scarsità di mezzi economici degli USA e dell’Europa. Come riecheggiano le parole di Lawrence!
La frattura ad Occidente sarà compensata – ci sono già stati ampi segnali in merito – con un rinsaldarsi dei legami con la Siria e con l’Iran, ma questo è ancora poco per giustificare il passo di Erdogan.

La Turchia si sta proponendo per il “dopo” NATO ed USA in Afghanistan ed in Iraq, quando quei Paesi saranno abbandonati a loro stessi. La partita vede già in campo l’Iran – il 60% della popolazione irachena è sciita, e lo stesso Bush padre evitò di salire fino a Baghdad, nel 1991, per non “regalare l’Iraq all’Iran” (e contestò la successiva scelta del figlio) – mentre, ad Est, un sempre più claudicante Pakistan non riesce a garantire più nulla, nemmeno il controllo interno del territorio.
L’attacco di Erdogan ad Israele – più che una presa di posizione nei confronti di Tel Aviv – significa una presa di distanza necessaria, quasi una “credenziale” da “spendere” – domani – in una futura strategia pan-islamica nella regione. Dove, per ora, l’unica alternativa per le Nazioni che politicamente contano – ossia Turchia, Siria ed Iran – è l’alleanza.

La porta che si sta schiudendo ad Est – la lunga via che conduce fino alle “locomotive” cinese ed indiana – sembra oggi più allettante dell’asfittica Unione Europea, degli USA con le pezze al sedere, dell’orgoglio israeliano che sconta un isolamento oramai totale nell’area: c’è da chiedersi cosa succederà in Egitto con il “dopo Mubarak”.
Non fraintendiamo: non sarà certo una Sublime Porta ma, quelle centinaia di miglia di monti e deserti ad Est di Erzurum, sono per Ankara – oggi – più importanti della Padania e della Ruhr. Al punto di schiaffeggiare pubblicamente Israele.

[1] Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201004articoli/53899girata.asp
[2] Fonte: http://www.antiwar.com/orig/lawrence.php

tratto da http://carlobertani.blogspot.com/