La crisi politica ad un passaggio decisivo

La rottura tra Berlusconi e Fini si è dunque consumata. Non ancora del tutto sul piano formale, al cento per cento su quello sostanziale. Le “Scene da un matrimonio” andate in onda negli ultimi tempi, ed in particolare alla direzione del Pdl, sono solo la parte pubblica di una separazione a lungo preparata.
Le immagini televisive hanno mostrato quello che già si sapeva: il partito berlusconiano ha un solo capo, che è anche il padrone della ditta, gli altri sono comparse che non esisterebbero senza di lui. Ovvio che in un simile contesto il dibattito sia destinato a diventare rissa.

Ma, indipendentemente da tutto ciò, la rottura vi sarebbe stata ugualmente. Contrariamente a quanto scrivono molti osservatori essa non è dipesa principalmente da questioni personali, umori ed ambizioni. Naturalmente tutte queste cose esistono, hanno il loro peso, ma sono insufficienti a spiegare l’accaduto.

Non siamo neppure d’accordo con l’immagine prevalente fornita dai media, quella cioè di un Fini sconfitto. Certo, a Fini sono rimasti pochi fedelissimi, dato che i “colonnelli” hanno ritenuto più remunerativo accasarsi con il Cavaliere. Ma questa non è una novità. An si era già liquefatta nel brodo berlusconiano da anni, ben prima del fatidico 2008. Se così non fosse stato il Pdl non sarebbe mai nato. Ai “colonnelli” bastava lo “sdoganamento”, tanto più gradito se accompagnato da insperate poltrone ministeriali. Le idee sono in crisi anche a destra, mica solo a sinistra. Ed allora, giusto per dirne una, chissenefrega dell’unità nazionale se questa non piace all’indispensabile Lega…
Non c’è stato dunque nessun tradimento della “ex-An”, per il semplice motivo che la “ex-An” politicamente non è mai esistita, assorbita alla grande dalla creatura berlusconiana.
Qualcuno ha mai creduto seriamente alla storiella dei “cofondatori”? Il Pdl altro non è stato che un allargamento di Forza Italia che, lo segnalammo a suo tempo, non ritenne neppure di celebrare il congresso di scioglimento come si conviene in questi casi.
Tutto ciò non poteva essere ignoto a Fini, che certamente avrà fatto i suoi calcoli prima di compiere il passo. Calcoli non del solo presidente della Camera, sia ben chiaro. Qual è allora il piano che sta dietro alla rottura con il capo del governo?

Questa è la vera questione. Se quella di Fini fosse stata una rottura umorale e senza progetto non si capirebbe la preoccupazione, quasi lo smarrimento, disegnato sul volto di Berlusconi. Ancora meno si capirebbe l’immediata uscita di Bossi che ha subito parlato di alleanza con il Pdl a rischio, di “crollo verticale del governo” ed addirittura di “fine della stagione del federalismo”.
Se Berlusconi è così preoccupato, e Bossi è già alla ridefinizione di una strategia che evoca scenari quanto mai incerti per la stessa alleanza con il Cavaliere, questo significa soltanto una cosa: una fase politica è finita. Piaccia o meno, l’iniziativa di Fini ha dunque lasciato il segno.

Tutto ciò non viene ancora valutato nella sua portata. Del resto questo è il Paese dove la stampa ha chiamato “vittoria” una vistosa debaclé elettorale del principale partito di governo, dove l’emergenza economica sembra venire soltanto dopo le intercettazioni, i talk show e le escort.
Oggi molti si chiedono come sia possibile questo patatrac in un partito che ha “vinto” le elezioni. Farebbero molto meglio a chiedersi se davvero vittoria era stata, quantomeno in termini di consenso (vedi Uno su sei).
E per capire appieno l’operazione finiana meglio sarebbe guardare agli scenari economici che incombono. Sono estranee a quanto accaduto le oligarchie economiche italiane ed europee? La contemporanea uscita dall’incarico in Fiat dello scalpitante Montezemolo è puramente casuale? Non lo pensiamo affatto.
Da tempo avvertiamo i segni di una manovra tendente a sostituire Berlusconi con una sorta di governo d’emergenza a geometria variabile (un mix di emergenzialismo economico e di emergenzialismo istituzionale). Solo sotto questa luce si comprendono le mosse non solo di Fini, ma anche di Rutelli, di Casini e dello stesso Montezemolo.

Possiamo supporre che l’allegra congrega, che ovviamente arriva al Pd, avesse un piano A ed in via subordinata un piano B. Il piano A (ribaltone) sarebbe scattato se Fini avesse ottenuto un seguito tra i parlamentari sufficiente a formare una nuova maggioranza (ricordate le affermazioni di Casini sui 5 minuti sufficienti a trovare i numeri per formarla?). Il più realistico piano B parte invece dall’impossibilità del ribaltone almeno nell’immediato, ma dalla certezza di avere comunque un numero adeguato di parlamentari per rendere impossibile la vita al governo.
Stranamente nessuno parla dei numeri, ma la situazione per Berlusconi è critica. E’ giusto essere cauti, perché non possiamo sapere se tutti i 50 parlamentari (36 deputati e 14 senatori) che si sono schierati con Fini nei giorni scorsi terranno fino alla rottura, ma è certo che una retromarcia appare ora più difficile.

Ipotizzando che questi siano i numeri reali al momento della prova della verità, come cambierebbe il panorama parlamentare?
Alla Camera l’attuale maggioranza diventerebbe certamente minoranza. Il calcolo esatto è reso difficile dall’elevato numero di deputati iscritti al Gruppo Misto, non tutti chiaramente collocabili, ma ben difficilmente resterebbero a Berlusconi più di 310 voti mentre la maggioranza si raggiunge solo a quota 316. Al Senato il governo si troverebbe probabilmente in bilico attorno alla fatidica quota 162, riportando ai tempi di quando il governo Prodi governava con il voto di qualche senatore a vita, spesso richiamato d’urgenza per consentire al governo unionista di campare un giorno in più.
Ne consegue che il piano A è politicamente impraticabile, o comunque al momento sconsigliabile anche se numericamente non del tutto escluso, mentre il piano B ha un solido punto di partenza da cui potranno scaturire le mosse successive.

Quello che è sicuro è che Berlusconi non ha più i numeri per governare. Certo, può avere i numeri per tirare a campare, ma sulle scelte davvero importanti in materia economica ed istituzionale, come pure sulla giustizia, la maggioranza parlamentare non c’è più.
Ne consegue che la legislatura non potrà più, in alcun caso, arrivare alla fine naturale del 2013, alla faccia di chi immaginava tre anni tranquilli e “gloriosi” per il capo del governo.
Resta da vedere come e quando terminerà e con quali prospettive.
E qui comincia il bello, perché nello scontro tra il blocco reazionario e quello oligarchico, che prosegue ora con confini più incerti ed in via di ridefinizione, decisivo diventerà il Fattore T (tempo).

Una breve digressione. Parlare di blocco reazionario e di blocco oligarchico è certamente una semplificazione che può dar luogo a qualche fraintendimento. Elementi reazionari vi sono in entrambi i blocchi, ma questa connotazione è particolarmente pregnante per il blocco berlusconiano. Ugualmente, anche Berlusconi è un oligarca, ma il grosso dei poteri forti economico-finanziari gli preferisce certamente un governo d’emergenza “antiberlusconiano”.
Usiamo quindi le suddette definizioni con questa avvertenza, ma le usiamo affinché sia chiara la vera natura dello scontro, lasciando invece da parte la lettura “destra-sinistra”, totalmente fuorviante e traditrice. Se usassimo quella chiave di lettura ci ritroveremmo a dover spiegare un Cln evocato da Casini e magari capeggiato da Fini. Lasciamo questo compito agli eroici menopeggisti che certo vi si cimenteranno. Più semplice, perché più corrispondente alla realtà, riferirsi ad un blocco platealmente reazionario e ad un altro vistosamente oligarchico.
Lo stesso passaggio di Fini da un blocco all’altro rende chiaramente l’idea di quanto stiamo dicendo.

Ma che natura avrà lo scontro tra questi due blocchi? Si tratterà certamente di uno scontro per il potere, ma anche per avere in mano le leve del comando nel momento in cui si dovrà decidere su chi scaricare i costi della crisi.
I due blocchi condividono una visione ultra-capitalistica, per niente messa in discussione da due anni di depressione economica; condividono un modello istituzionale autoritario e presidenzialista, mentre si dividono su come realizzarlo. Il blocco berlusconiano è sempre più nordista, quello avverso è più centralista. I primi praticano un forte sovvertimento istituzionale con l’attacco alla magistratura, per i secondi la magistratura è invece parte integrante della loro visione autoritaria. E potremmo continuare.
Ma è sulle misure economiche che si preannunciano che la questione diventa dirimente. Le classi dominanti sanno che Berlusconi non può gestire la partita. Cosa succederebbe se fosse Berlusconi ad annunciare misure draconiane sui salari, le pensioni, il welfare? Succederebbe che all’opposizione antiberlusconiana già presente si sommerebbe quella di natura sociale, un rischio che lorsignori giudicano evidentemente troppo alto.
Meglio, per loro, un governo d’emergenza, ammantato della definizione di “tecnico”, magari presieduto da un Mario Draghi, un governo con molte forbici e nessun padre.
E qui nascono i problemi. Questo modello sarebbe stato relativamente facile da perseguire con il piano A, mentre diventa molto più complicato con il piano B, che richiede comunque ad un certo punto un passaggio elettorale di non semplice gestione.

E qui entra pesantemente in gioco il Fattore T.
Abbiamo detto che Berlusconi non ha certo tutto quel consenso che si vorrebbe far credere, tuttavia se potesse andare alle elezioni anticipate prima dell’estate avrebbe buone possibilità di tornare a Palazzo Chigi. Come potrebbe l’eterogeneo fronte avverso organizzarsi credibilmente in così poco tempo? Anche con una consistente perdita di voti il premio di maggioranza andrebbe quasi sicuramente al duo Pdl-Lega a fronte di un blocco avversario disunito od unito in maniera troppo abborracciata.
Ecco perché Berlusconi avrebbe preferito l’uscita immediata di Fini. In quel modo avrebbe potuto chiedere elezioni altrettanto immediate. Può chiederle comunque, ma formalmente ha ancora la maggioranza e Napolitano gli si metterebbe di traverso.
Del resto i tempi stringono. Votare entro giugno vorrebbe dire avviare la crisi di governo entro aprile. Fini non ha certo scelto a caso i tempi della rottura.
Il piano B prevede un certo logoramento, non la precipitazione immediata. Più il tempo passerà e più Berlusconi apparirà impotente, una prospettiva per lui assolutamente inaccettabile.
I tempi dunque non potranno essere lunghissimi, difficile che il redde rationem possa essere rinviato al 2011. E se in questo quadro irromperà l’emergenza economica tutto subirà un’ulteriore accelerazione.

Come si svilupperà il piano B?
Attualmente sono tutti prudenti. Il Pd sembra fingere di essere un’associazione bocciofila in tutt’altre faccende affaccendata, così pure la stampa a sostegno. Devono recitare questa parte per non scoprire subito il gioco. Ma tra breve possiamo ragionevolmente prevedere una triplice accelerazione per rendere, nei limiti del possibile, il blocco antiberlusconiano credibile e competitivo. Lo schieramento elettorale non potrà essere né di tipo prodiano (l’ammucchiata unionista) né veltroniano (l’illusione bipartitista). Sarà dunque necessaria una razionalizzazione a destra (Udc, finiani, Rutelli, Montezemolo) e una a sinistra (tutti uniti purché senza falce e martello).
L’elemento decisivo sarà però il candidato premier (terza accelerazione), prevedibilmente da pescare al di fuori dei partiti. Abbiamo già detto dell’ipotesi Mario Draghi, ma non è l’unica possibile.
Avremmo così una strana creatura. Un aggregato elettorale giustificato dall’emergenza, ma sottoposto al voto e dunque legittimato politicamente in caso di vittoria.

E’ plausibile questo scenario?
Innanzitutto un piano è soltanto un progetto, la cui realizzazione dipende da tanti fattori. Decisivo ora è il Fattore T, la capacità di guadagnare tempo, ma anche quella di procedere rapidamente alle tre accelerazioni di cui sopra è tutta da verificarsi. Inoltre Berlusconi non toglierà di certo il disturbo senza combattere.
Leggendo queste righe qualcuno penserà senz’altro che si tratti di fantapolitica. Ma dobbiamo forse credere che dietro ai movimenti di questi giorni non vi sia una razionalità? Non lo pensiamo proprio.

Nessuno ha la sfera di cristallo, e lo sviluppo degli avvenimenti potrebbe contraddire almeno in parte le ipotesi che abbiamo avanzato. Ma è sempre meglio orientarsi sulla base di tendenze generali comunque individuabili, che sulla chiacchiera politica quotidiana, quasi sempre vacua ed impressionistica.
Commetteremo meno errori, come dimostra l’analisi che da tempo andiamo conducendo sulle dinamiche politiche nazionali e, non ultimo, la lettura dei risultati delle elezioni regionali. A proposito, dove sono le migliaia di replicanti che meno di un mese fa descrivevano un Berlusconi all’apice della sua forza? 

La crisi politica italiana è ad passaggio decisivo. Cercare di capirne le dinamiche, la posta in gioco, i pericoli, le possibili evoluzioni, è senz’altro utile per chi vuole costruire un’alternativa. Ed è proprio la gravità della situazione, caratterizzata dalla contestuale precipitazione del quadro economico, a richiedere un salto di qualità. Il gioco si fa duro, guai a restarne fuori.