Il leghismo, la casta e il destino dell’Italia come stato-nazione
Ha suscitato scalpore l’intervista di Enzo Bettiza al Corriere della sera del 26 aprile. Non solo e non tanto perché il prestigioso intellettuale di area liberal-conservatrice ha ammesso di aver votato per la Lega Nord, quanto per le ragioni di questo sostegno. Premesso che Bettiza vede nel leghismo, oramai messi da parte i riti celtici alle sorgenti del Po, un erede della “buona amministrazione asburgica”, ha confessato di non considerare disdicevole il commiato dall’Italia come stato unitario e la rinascita del Lombardo-Veneto come entità geopolitica a sé stante.
Tutto assurdo? Meno di quanto si pensi.
Quantomeno un campanello d’allarme per la casta politica romana (una casta che ha assunto da tempo tutte le caratteristiche della curia cardinalizia vaticana, decisa a conservare il monopolio nella scelta del clero politico, dal Papa fino ai vescovi delle diocesi) perché mostra che i “buzzurri” della Lega stanno facendo proseliti tra le élites culturali e intellettuali.
Che il sopraggiungere della globalizzazione e del turbo-capitalismo abbiano minato alle fondamenta gli stati-nazione, questo lo si sapeva. Decisive prerogative vennero sottratte alla potestà degli stati per essere sequestrate da gruppi oligopolistici transnazionali che poterono infine porre gli stati sotto tutela grazie alla trasformazione delle élites politiche nazionali in loro comitati d’affari. La nascita dell’Unione europea, pur sorta per opporre agli oligopoli un contropotere di pari consistenza, ha tuttavia finito per rafforzare la tendenza sovranazionalista, togliendo agli stati-nazione ulteriori decisive prerogative per affidarle ai (renani) centri nevralgici di Francoforte, Bruxelles e Strasburgo. A questo va aggiunto che l’Italia si è presentata agli appuntamenti con la globalizzazione e l’Unione come stato-nazione-zoppo, visto che uscì dalla seconda guerra, al di là della retorica repubblicana e antifascista, col sigillo di uno stato a sovranità limitata, ovvero sottoposto al rispetto della giurisdizione imperiale nord-americana.
Non è il leghismo quindi che ha determinato la crisi dello stato-nazione italiano ma, al contrario quest’ultima che ha causato il leghismo. Non è forse vero che se l’Europa riuscisse a trasformarsi in una solida costruzione politica gli stati-nazione evaporerebbero? E in questo caso non sorgerebbero forse al loro posto delle macro-regioni proprio come certe frazioni “progressiste” del grande capitale teorizzavano agli inizi degli anni ’90?
C’è quindi una malcelata ipocrisia negli anatemi che la curia romana lancia contro il leghismo e la sua spinta anti-nazionale: si tratta dello stesso centro oligarchico di potere che ha cantato le sorti progressive della globalizzazione e che perorava e tutt’ora apertamente invoca la fondazione di un’Europa come definitiva unione statuale che rimpiazzi l’attuale sgangherata configurazione. Il dissidio tra la Lega Nord e la curia, non consiste dunque che gli uni vorrebbero sbarazzarsi dello stato-nazione mentre gli altri ne sarebbero indefessi paladini. Il dissidio, entrambi essendo interni all’orizzonte strategico europeista ed euro-atlantico, consiste solo in due differenti visioni dell’oltrepassamento.
Per essere più precisi il contrasto dipende da diverse considerazioni riguardo alla distribuzione dei costi e dei ricavi che l’unificazione europea implica (di qui le tensioni sul “federalismo fiscale”). Il capitalismo padano, di cui la Lega è oramai l’interfaccia politico, punta all’integrazione europea, da cui avrebbe teoricamente tutto da guadagnare non avesse la palla al piede del Mezzogiorno. L’orizzonte strategico padano-leghista è quello di agganciarsi alla motrice euro-renana come macro-regione fortemente autonomizzata da Roma. Una prospettiva che la curia romana potrebbe accettare ove ciò non implicasse la sua marginalizzazione, visto che il peso di Roma, privata di Milano, sarebbe prossimo al nulla o, se vogliamo, di poco superiore a quello di Atene o Lisbona.
Non fosse sopraggiunta questa crisi epocale del capitalismo occidentale, non sarebbe stato da escludere un compromesso, un accordo d’interesse tra la borghesia padana e la casta politica sacerdotale romana (di cui Fini si pone ormai come alto cardinale). C’è chi lo ritiene ancora possibile, ovvero ritiene probabile, visto il crepuscolo del berlusconismo, un nuovo salto della quaglia di Bossi e un accordo di reciproca convenienza con la curia. La qual cosa avrebbe una sua plausibilità, poiché non si vede perché la Lega dovrebbe impiccarsi per salvare Berlusconi rinunciando ad un accordo vantaggioso col centro-sinistra, il quale non vedrebbe l’ora di siglarlo.
In effetti, se facessimo finta per un attimo che la crisi economico-sistemica non ci fosse, e quindi la tendenza all’unificazione europea, pur tra alti e bassi, marciasse, la Lega avrebbe solo dei vantaggi a siglare un patto con la curia. La mossa di Fini cosa dimostra a Bossi? Che i cardinali, che non hanno mai digerito Berlusconi, ovvero che gli fosse sottratta la prerogativa di eleggere il Papa, stanno schierando le loro truppe per la battaglia finale per defenestrarlo. La curia, con alle spalle i grandi gruppi economici oligarchici, va infatti conformando un CLN, una Santa alleanza, nella quale appunto spera di agganciare la borghesia padana, quindi la lega.
Attenti dunque alla fronda finiana: la lotta per spezzare l’asse Belusconi-Bossi, condotta apparentemente in nome di un italianismo anti-padano, è in realtà una lotta per far fuori il cavaliere e costringere la Lega ad un compromesso. Chi ritiene che non ci siano margini di accordo per un modello federale condiviso tra il blocco oligarchico e curiale di centro-sinistra e la borghesia padana si sbaglia di grosso. Il collegio cardinalizio, da Fini a D’Alema, conosce infatti molto bene i suoi “polli capitalisti padani” e sa che questi non rinuncerebbero ad un accordo vantaggioso e Bossi, che li conosce meglio di tutti, non avrebbe altra scelta che adeguarsi, cantando vittoria come gli si addice, magari pagando lo scotto di qualche fibrillazione interna.
Alla domanda di Maurizio Tropeano: “Presidente cosa vorrebbe mettere in risalto del dossier 150esimo?» Il Neoletto presidente della regione Piemonte Cota risponde: «Il federalismo che avevano in testa Cavour e Minghetti e che non è mai stato realizzato da allora. Mi piacerebbe mettere in evidenza quella parte del pensiero di Cavour, su cui solo oggi si stanno alzando i veli di un’interpretazione a senso unico, che parla di una gestione della macchina burocratica basata sul decentramento visto come strumento per eliminare le differenze. (…) La repubblica partigiana dell’Ossola è un messaggio più che attuale perché solo il federalismo può tenere unito questo stato». (LA STAMPA del 25 aprile)
Chi ha orecchie per intendere intenda. Non più secessionismo, e nemmeno il federalismo di Cattaneo, bensì quello… di Cavour. Con queste premesse anche gli ultimi seguaci del neoguelfismo cattolico (fatta salva l’eliminazione di Berlusconi) potrebbero trovare un accordo, ovvero un modello federativo che veda Roma, alleata di Milano, ben salda come capitale di uno Stato formalmente unitario. Bossi si riallaccia non a caso ad Alberto da Giussano, che fu, a difesa della supremazia milanese sul resto della Lombardia, combattente guelfo e filo-papalino. Si potrebbe risalire alla “Pataria” del secolo precedente e che ebbe Milano come epicentro. Movimento popolare ribelle che prese sì di mira la “canina stercora” dell’alto clero locale, i suoi privilegi, la sua corruzione ma, cattolico quant’altri mai, invocò e ottenne l’appoggio del Papa e di Roma, per poi diventare carburante prezioso alla grande riforma restauratrice e centralista gregoriana.
Ma… c’è un ma. La sopraggiunta crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale, e anzitutto di quello europeo. Una crisi che mette in forse sia l’unificazione europea che la “dolce morte” degli stati nazione tutti. E’ sotto gli occhi di tutti che le forze centrifughe, a causa di questa crisi globale, sono oggi decisamente più forti di quelle centripete. Lo sconquasso finanziario e monetario mondiale, il molto probabile scoppio del bubbone greco e l’eventualità che con i “Piigs” tutta l’Eurozona venga travolta, ingarbugliano terribilmente le cose a tutti i protagonisti della scena italiana, Bossi compreso. Checché ne dica Tremonti-Pinocchio, il debito pubblico italiano continua a crescere e la possibilità che l’Italia venga da un giorno all’altro declassata da qualche agenzia di rating per essere poi aggredita dal capitalismo predatorio internazionale, diventa altamente probabile. E ove davvero la barca economica nazionale rischiasse di affondare, salterebbero non solo i disegni della curia romana, ma verrebbe interdetta alla Lega la possibilità di ottenere un accordo vantaggioso con un nuovo salto della quaglia a sinistra. Salterebbero perché a quel punto le forze sociali che stanno dietro alla Lega, precisamente il blocco corporativo che vede uniti padroni, operai e bottegai padani, sarebbe davvero tentato di compiere lo strappo, ovvero abbandonare la barca italiana in affondamento per salire sul vascello carolingio franco-tedesco (ammesso che questo resista al terremoto tenendo fermo l’Euro come moneta forte).
Nell’eventualità di una catastrofe nazionale lo scenario che evoca Bettiza, del risorgere di un’entità lombardo-veneta sarebbe tutt’altro che peregrina. Ma a quel punto nulla sarebbe indolore, un simile esito implicherebbe passare attraverso la porta stretta dello scontro civile, o di un conflitto che deciderebbe in modo cruento le sorti dell’Italia come stato unitario. Non diversamente, appunto, della Jugoslavia, dove certo i fattori di attrito tra le diverse nazionalità covavano da tempo, ma dove l’innesco della disgregazione fu rappresentato dalla profondissima crisi economica e dal peso di un debito estero e pubblico stellare che ogni repubblica cercava di scaricare sulle spalle degli altri. La Jugoslavia è stata cancellata e al suo posto abbiamo sì una serie di staterelli, ma con la Slovenia nell’Unione europea e la Croazia in procinto di entrarci, mentre le altre repubbliche sono sprofondate nel pantano balcanico.
Si spiega così perché il tatticista Bossi non abbia ancora mollato Berlusconi. Egli se lo tiene ancora stretto poiché gli è funzionale in entrambi i casi. E’ un’arma di ricatto per strappare il massimo risultato (federalismo fiscale) al tavolo negoziale con la curia. Ma potrebbe essere un alleato indispensabile ove la crisi, conoscendo una precipitazione, facesse saltare il tavolo della trattativa e spingesse il paese verso il redde rationem.