Vantaggio insufficiente per governare del tory Cameron. Il lib-dem Clegg pronto a coalizioni variabili. Scontata la sconfitta laburista.

Londra – Non è ancora “The Waste Land”, la terra desolata di T.S. Eliot, ma poco ci manca e anche se ogni paragone con Berlusconia sarebbe assurdo se non osceno qualche analogia tra il degrado delle istituzioni della classe politica del Regno Unito e quello del Bel Paese è proponibile.
Questo degrado è stato evidenziato dalle ultime battute della campagna elettorale che con l’adozione del modello statunitense dei dibattiti televisivi hanno trasformato lo slogan sessantottino dell’immaginazione al potere in finzione nella gara per il potere, un concorso a tre di bellezza retorica, vuoto di contenuti, ricco di altisonanti, quanto irrealizzabili promesse e infarcito come in Italia di populismo e trasformismo di bassa lega.

Sul terreno del populismo il primo dei tre dibattiti ha visto emergere per la prima volta in più di cento anni la terza forza del partito liberal-democratico grazie all’esibizione “cuore in mano” di Nick Glegg, un giovanotto fotogenico e di belle speranze che all’insegna dell’anti-politica ha assestato un duro colpo al sistema bipartitico britannico condizionando pesantemente la formazione del prossimo governo e facendo chiaramente capire di essere pronto a partecipare a qualsiasi coalizione sia che vincano maggioranze relative i conservatori o i laburisti, a patto che gli uni o gli altri si impegnino a sostituire con il proporzionale puro il vigente sistema dei collegi elettorali che per un secolo ha tenuto lontano il suo partito da qualsiasi poltrona.

In quanto a trasformismo il conservatore David Cameron batte di molte misure gli avversari: ha riverniciato di progressivismo e di grande sensibilità sociale il partito Tory di Margaret Tatcher, ma non disdegna, soprattutto per quanto riguarda l’Unione Europea, le posizioni del più reazionario, parafascista partito minoritario britannico. Il vignettista politico Bell lo raffigura con un palloncino sgonfio al posto della testa, ma è un “piacione” che riscuote le simpatie delle “grannies”, delle nonne e cioè dell’elettorato femminile più anziano.

E’ dato favorito dagli ultimi sondaggi con un previsto numero di parlamentari di poco inferiore alla maggioranza minima di 326 seggi necessari a formare un governo. I sondaggi su un esito da “filo di lana”, dove risulterà decisivo un centinaio di collegi “marginali”, contano poco, ma sono concordi nel dare per certa la sconfitta dei laburisti di Gordon Brown, uno dei personaggi più tristi ed anti-telegenici della scena politica del Regno Unito: vittima di un destino avverso che porta il nome da tutti esecrato di Tony Blair, vanta sugli avversari grande esperienza economica per avere occupato per un decennio il posto di cancelliere dello scacchiere, un’esperienza che gli ha permesso di salvare dalla catastrofe il sistema bancario nazionale. Privo del minimo sense of humor appare cupo e rassegnato anche quando cerca di sorridere succhiandosi il labbro inferiore. Fa capire, ma non lo dice, di non essere il “poodle”, il cagnolino, degli Stati Uniti d’America, come il suo predecessore, ma continua a sacrificare decine e decine di vite di soldati britannici (e migliaia di quelle di civili afgani) nella guerra più dissennata ed impopolare mai combattuta nel dopoguerra dal Regno Unito. Ha contro quasi tutta la stampa britannica: l’ultima defezione è stata quella del quotidiano progressista “The Guardian” che pochi giorni fa con una sorprendente capriola ha sostituito il suo appoggio critico al leader laburista con un “sostegno entusiastico” al lib-dem Clegg.

Dei tre candidati, unanimi nel presentarsi come uomini del popolo, l’unico a meritarsi in parte la qualifica è Gordon Brown, figlio di un pastore presbiteriano scozzese; Nick Clegg è nipote di una gran duchessa russa che riuscì a mettere in salvo le sue ricchezze in Francia dopo l’avvento al potere dei bolscevichi (il leader liberal-democratico è tuttora proprietario di uno chateau con dieci camere da letto nei pressi di Parigi).

David Cameron è nato – come si dice in gergo anglosassone – “con un cucchiaio d’argento in bocca”: è di famiglia non agiata, ma ricca, molto ricca; ha studiato naturalmente ad Eaton, la scuola che ha formato da due secoli la classe dirigente più conservatrice del Regno Unito. Come se non bastasse la sua campagna elettorale è stata finanziata da un milionario che per evadere il fisco ha scelto da anni una residenza all’estero.

Come in Berlusconia anche in Gran Bretagna si è parlato in questa campagna elettorale di riforma dei pletorici istituti parlamentari: 700 “pari” non eletti nella Camera dei Lords tra i quali venti vescovi e seicentocinquanta deputati eletti ai Comuni, un numero di rappresentanti inferiore solo a quello della Repubblica Popolare Cinese. Un decennio fa il governo laburista estromise centinaia di Lords ereditari ma non riuscì a portare a termine la riforma della vetusta istituzione. Sui Comuni grava l’ignominiosa accusa di corruzione diffusa, perché i deputati che non si erano mai aumentati gli stipendi hanno fatto la cresta su indennità e conti spese. Ora hanno restituito il mal tolto ed adottato un più severo codice etico interno, ma checché ne dica Nick Clegg, non ne vogliono sapere di riduzione del loro numero o di sistema proporzionale puro.

Pressoché inesistente invece nel dibattito elettorale l’incubo che incombe sulla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, la crisi economico-finanziaria più grave del dopoguerra, un disavanzo annuale che ha superato i 163 miliardi di sterline e per chiunque vinca l’inevitabile necessità di tagliare i servizi sociali, di aumentare le tasse e di prolungare sine die la recessione. Diffuso il timore in Gran Bretagna che dopo aver rubato alla Grecia i marmi di Elgin un futuro Governo rubi anche il suo modello di affamare il popolo per sanare i bilanci.
Il Tory David Cameron si è limitato a dire che in caso di vittoria affronterà il problema dei tagli alla spesa non prima di novembre.


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