Sacrifici, per chi e per che cosa?

Nel breve volgere di qualche settimana siamo passati dalla negazione della crisi, al massimo derubricata come fatto “psicologico”, all’annuncio di un periodo di “lacrime e sangue”.
E in men che non si dica si è passati dall’annuncio di una mini-manovra di 2,5 miliardi ad una di 25 miliardi. Evidentemente la condizione “psicologica” del paese è peggiorata di brutto…
Eravamo stati tra i primi a segnalare il preannunciarsi dell’emergenza del debito pubblico in tutto l’occidente, non solo in Italia. Mentre altri si baloccavano con gli ingannevoli grafici dei corsi azionari, era evidente che la trasformazione di enormi masse di debito privato in debito pubblico – avviata in primo luogo dal governo degli Stati Uniti – altro non faceva che dislocare in un altro luogo il centro della crisi.

Ora ci siamo, e neppure i cultori di un improbabile neo-keynesismo in salsa turbo-capitalista possono far finta di niente. Perfino Tremonti e Trichet parlano di “crisi sistemica”. Certo, lo fanno anche per sentirsi un po’ meno responsabili del disastro in corso, ma quel che conta è che siano costretti ad usare un linguaggio che smentisce da solo la granitica certezza del dogma capitalista che ha segnato l’ultimo trentennio.
Il passaggio dall’overdose finanziaria al massacro sociale è stato ben più rapido di quanto si potesse pensare. Nello stesso tempo, il mito della crescita infinita è stato rimpiazzato dall’infinita incertezza sul futuro che caratterizza i nostri giorni.
Il modello del centro capitalistico (occidentale) è a fine corsa: questa è la verità che si vuole occultare. Naturalmente, non c’è bisogno di dirlo, le oligarchie dominanti non si rassegneranno a questo declino. Cercheranno di rallentarlo, in primo luogo scaricando la crisi sulle classi popolari con la politica dei sacrifici. Cercheranno di arrestarlo con ogni mezzo, in uno scontro che non sarà solo di classe ma anche geopolitico.

Questa è la cornice comune delle manovre economiche decise (Grecia), annunciate (Spagna, Portogallo, Romania) od in via di definizione (Italia). Nella certezza che altri paesi seguiranno…
Della Grecia abbiamo scritto in abbondanza. Ma i pesanti sacrifici imposti a quel popolo probabilmente non serviranno neppure ad impedire la ristrutturazione del debito, come ha dichiarato il direttore della Deutsche Bank, Josef Ackerman.
In Spagna, Zapatero ha annunciato tra l’altro un consistente taglio dei salari, mentre in Portogallo ai tagli si accompagna (in linea con il modello greco) un aumento dell’IVA e dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.
In Romania, paese di cui si parla pochissimo, FMI ed UE hanno imposto una riduzione dei salari del 25%, delle pensioni del 15%, dell’indennità di disoccupazione sempre nella misura del 15%.
Nuovi scioperi e mobilitazioni si annunciano in Grecia, Spagna (2 giugno) e Romania (19 maggio).

E in Italia? Ad oggi siamo ancora nella fase preliminare, quella che serve al governo a tastare il terreno. Tuttavia i titoli dei vari capitoli della manovra sembrano già scritti: nuovo attacco alle pensioni (aumento dell’età pensionabile per le donne del settore privato, allungamento delle finestre per le pensioni di anzianità), blocco dei salari nel pubblico impiego con una moratoria triennale dei contratti, ulteriori tagli con il rinvio del pagamento delle liquidazioni, blocco del turnover nel settore pubblico fino al 2012, eliminazione della detassazione dei premi di produttività (di fatto una quota non trascurabile di salario).
Se queste sono le voci per quanto riguarda i tagli, sul fronte delle entrate si annuncia una sorta di sanatoria catastale ed un aumento del prelievo fiscale nelle regioni in deficit sanitario.
Quel che è certo è che quello annunciato è solo un modestissimo antipasto. La somma degli introiti ricavabili dalle misure di cui si parla è ben al di sotto dell’obiettivo indicato. E, non meno importante, l’eventuale raggiungimento di quell’obiettivo sarebbe comunque sufficiente a stabilizzare il debito? Difficile crederlo, anche perché tutto dipenderà dalla tenuta dei tassi di interesse, anch’essa del tutto improbabile.

Siamo dunque soltanto all’inizio di una nuova stagione di sacrifici, una stagione ben più pesante di quelle precedenti. E se le misure verranno spalmate nel tempo, questo sarà solo perché le classi dominanti ed il governo hanno il timore di accentuare oltremodo la recessione con provvedimenti troppo drastici, inevitabilmente destinati a contrarre i consumi di buona parte della popolazione.

Ma a cosa dovrebbero mai servire questi sacrifici? A differenza del passato, oggi non si parla più neppure di “politica dei due tempi”: prima il rigore, poi lo sviluppo. Oggi allo “sviluppo”, neppure in termini meramente capitalistici, nessuno ormai crede.
I sacrifici dunque non sono più, neanche nella propaganda, la premessa di una “ripresa”, ma solo la condizione per mantenere a galla il sistema, per salvaguardare i centri finanziari che hanno prodotto la crisi, per conservare gli incredibili privilegi e le enormi ricchezze accumulate da oligarchie ristrettissime quanto potenti.
I sacrifici, dei quali – giova ripeterlo – vediamo oggi solo una modestissima anteprima, hanno il solo scopo di conservare una struttura sociale ed una modalità di funzionamento del sistema che ha prodotto le più grandi diseguaglianze che la storia ricordi.
La politica dei sacrifici non va dunque respinta solo perché iniqua, essa va rigettata anzitutto perché criminale, perché mira alla conservazione di un sistema che sta semplicemente distruggendo le condizioni del vivere sociale. Di un sistema in crisi, che pur di non mettersi in discussione è pronto ad una pesantissima svolta autoritaria che cova, in forme diverse, sulle due sponde dell’Atlantico.

Se questa è la natura della politica dei sacrifici, inutile pensare ad un’opposizione di tipo sindacale. L’alternativa non è tra misure inique ed altre un po’ più eque. La vera alternativa è tra l’accettazione dell’imperativo del salvataggio del sistema e l’emersione di un progetto alternativo e rivoluzionario.
Occorre essere chiari: se si vuole salvare il sistema tanto vale accodarsi a Tremonti e compagnia, in caso contrario occorre cominciare ad enucleare gli elementi di un nuovo progetto di società.
La scelta, e la battaglia che ne consegue, è dunque eminentemente politica.

Ha scritto Eugenio Scalfari (la Repubblica del 9 maggio) che “la speculazione è un sinonimo del mercato“. Siamo d’accordo, ma ne traiamo conclusioni opposte a quelle di Scalfari. Per il fondatore di Repubblica “la speculazione non è formata da un gruppo di operatori che si consultano tra loro e mobilitano i loro capitali per influenzare i mercati e trarre profitto dalle loro oscillazioni“. Al contrario: “La speculazione è il mercato. Il mercato è il luogo dove si registrano – attraverso la domanda e l’offerta – le aspettative di un’immensa massa di risparmiatori. La speculazione dunque non è altro che l’aspettativa che si forma liberamente, sulla base di libere valutazioni delle forze in campo“.
Il liberale Scalfari inneggia al mercato in maniera davvero un po’ patetica, ma per poterlo fare deve negare la realtà del “mercato” e delle ristrettissime forze che lo governano, per arrivare addirittura all’esaltazione dello speculatore.
E’ impressionante come l’ideologia liberale di quest’uomo gli impedisca di porsi la più banale delle domande: è accettabile che la vita di miliardi di uomini sia determinata dalle scelte di ristrette cupole finanziarie?
Scalfari ci dice però una cosa: il capitalismo reale è questo. Se lo si vuole conservare bisogna farlo con annessi e connessi, inclusi ovviamente gli speculatori di ogni tipo. Se invece si vuol farla finita con il dominio dei centri finanziari, è il sistema nel suo complesso che va messo radicalmente in discussione.
L’alternativa, dunque, o sarà rivoluzionaria, o semplicemente non sarà.

Chi scrive non ha mai apprezzato troppo l’espressione “Socialismo o barbarie”. Troppo determinista, di fronte ad un capitalismo capace di rigenerazione e rinnovamento continuo.
Ma oggi, di fronte al circolo vizioso di un sistema incapace di disintossicarsi, sembra proprio questa l’alternativa secca che si presenta davanti all’umanità intera. Non perché siano in campo adeguate forze di orientamento socialista, tutt’altro, ma perché è questa la vera questione in gioco.
Un capitalismo sempre più barbaro cercherà di stare a galla con tutti i mezzi, tra i quali la coercizione e la guerra. Chi non vorrà subire questo pesante imbarbarimento dovrà porsi prima o poi le questioni del progetto, del programma e del potere.
Quali saranno i tempi di questa ricostruzione non possiamo saperlo, ma non potranno essere troppo lunghi, pena il precipitare nel gorgo di un degrado sociale e politico inarrestabile.