Per un’analisi logica della relazione del governatore all’assemblea della Banca d’Italia
Mario Draghi, in virtù del suo temibile curriculum vitae e del ruolo che occupa, è come circondato da un’aura di papalina infallibilità. Ogni sua esternazione è rispettata con universale riverenza. Ogni suo giudizio accolto come oro colato. Il paragone col Papa non sembri azzardato. Essendo il denaro il vero oggetto di culto del capitalismo iper-finanziarizzato, in quanto banchiere centrale, egli gode della stessa alta considerazione che i druidi avevano tra gli antichi celti, creduti capaci, coi loro riti apotropaici, di esorcizzare i demoni della sventura.
In effetti, in barba alla sua pretesa democraticità, l’attuale sistema capitalistico è una vera e propria ierocrazia, dove la casta sacerdotale è proprio quella dei banchieri globali, tutti fattisi le ossa nelle mishnah anglosassoni dell’alta finanza. Lì hanno imparato come si fa ad ottenere plusvalenze senza necessariamente creare plusvalore, a far sì che il denaro si moltiplichi motu proprio, a truccare i bilanci, a turlupinare azionisti, risparmiatori e pubblica opinione. Ad ammansire i politici dettando loro le scelte da compiere. Lì hanno imparato i rituali liturgici come quello andato in scena l’altro giorno a Palazzo Koch.
Da autentico prestigiatore Draghi è riuscito a compiere il miracolo. Da sommo pastore ha messo tutti d’accordo. Contenti il governo, la Confindustria, le opposizioni, nonché la CGIL. Mai trucco fu più elementare. Gli è bastato mettere in fila tre sostantivi quali rigore, equità e solidarietà, et voilà!, tutti hanno trovato un buon motivo per tessere le lodi del pontefice e del suo discorso. In verità ha svolto un pistolotto senza alcun serio spessore analitico, nemmeno l’ombra delle ragioni vere della crisi sistemica. Niente di più di un consunto e ragionieristico rendiconto sullo stato di salute della ditta. Come se un medico, davanti ad un paziente affetto da una leucemia fulminante, si limitasse a suggerire una cura dimagrante.
La crisi considerata come mera perturbazione momentanea dei “mercati” i quali, con qualche “aggiustamento strutturale” (competitività) e un po’ di restyling della pubblica amministrazione”, torneranno da soli a funzionare come Dio (denaro) comanda, elargendo la manna perpetua e allocandola nella maniera più adeguata.
Il fatto che il Capitale continui a dare credito ai riti propiziatori dell’alto clero della finanza e ad affidarsi alle sue cure, non fa che confermare lo stato di marasma in cui versa.
Anzitutto Draghi ha esordito avvalorando l’alibi del governo Berlusconi-Tremonti, ovvero che l’adozione di misure restrittive della spesa pubblica sarebbero dettate “dall’esplodere della crisi greca e dalle conseguenti turbolenze dei mercati”.
E’ vero? Ma ovviamente no! E’ infatti lapalissiano che i tagli alla spesa in via d’adozione sono necessari proprio perché le casse dello Stato sono esangui, perché esso spende più di quanto incassi (deficit) e perché il debito pubblico italiano è continuato a crescere mediamente del 4% annuo. Ergo: l’Italia avrebbe comunque dovuto adottare, Grecia o non Grecia, una più severa politica di bilancio, facendo dunque crollare come un castello di carte tutta la politica economica ispirata al lassaiz faire berlusconiano.
Fatta questa parziale concessione al governo, Draghi ha poi insistito sulla seconda priorità, la lotta all’evasione fiscale, sbrodolandosi in un’invettiva sintomatica quanto demagogica: «Macelleria sociale è un’espressione rozza ma efficace: io credo che gli evasori fiscali siano i responsabili della macelleria sociale (…) Fra il 2005 e il 2008 sono stati evasi 30 miliardi l’anno di Iva, due punti di Pil. Se l’Iva fosse stata pagata il nostro rapporto fra debito pubblico e Pil sarebbe oggi tra i migliori in rapporto ad altri paesi europei».
Sintomatica perché confessa, riguardo alle misure del governo, che si tratta appunto di “macelleria sociale”, demagogica perché pur di assolvere il sistema, lascia intendere che l’evasione sia la principale colpevole della crisi. E’ di tutta evidenza che si tratta di una fanfaluca. Se l’evasione fiscale fosse a livello zero l’economia italiana avrebbe forse evitato di entrare in recessione? Forse che i paesi con evasione molto più bassa e un debito pubblico “fisiologico” non sono entrati in recessione?
Sarebbe poi da vedere come sono composti questi 30 miliardi. A quanto ammonta il “contributo” della classe dei grandi capitalisti? Certamente moltissimo. Ora, a costo di essere indulgenti verso quello che era il Berlusconi-pensiero riguardo alla tasse, chiediamoci: tutti questi 30 miliardi annui (più le altre imposte evase) sono forse tutti andati a finire nel consumo improduttivo di codesta classe? E’ ovvio che no! Il capitalismo italiano, proprio a causa della sua bassa produttività sistemica, ha potuto competere con i concorrenti, oltre che per i bassi salari, anche grazie all’evasione, che ha consentito di stornare nel ciclo produttivo denaro che altrimenti sarebbe andato a rimpinguare le casse dello Stato, e non sta scritto da nessuna parte che se avesse preso questa direzione avremmo avuto meno crisi e più competitività. Avremmo forse avuto un debito pubblico meno ingente, ma una recessione ancor più grave.
Dal che è facile intuire come le misure restrittive alle porte, se serviranno (forse) a ridurre il deficit pubblico, avranno un impatto indiscutibilmente recessivo sul ciclo economico. A Pil stabile, nonché di fatturati e quote di mercato, spostare una frazione di plusvalore dalle casse delle aziende a quelle dello Stato, oltre che evidentemente a causare una contrazione dei consumi, non può che ridurre i margini per eventuali investimenti rendendo arduo ogni aumento di produttività. Con tutto il rispetto per i sinistri sacerdoti del “rispetto delle regole”: in un paese a evasione fiscale strutturale come l’Italia stroncarla davvero significa aggravare la recessione, causare il fallimento delle aziende meno competitive e quindi generare nuova disoccupazione.
Concetti, questi ultimi, certamente noti non solo al Draghi, ma a tutti i tecnici del dominio, siano essi banchieri, industriali o politici. Perché dunque prendono questa strada? E’ presto detto: per evitare che si giunga al crack del debito pubblico, ovvero al default degli stati. Il debito non è infatti che uno degli aspetti della iper-finanziarizzazione, il segno distintivo del meta-capitalismo occidentale. Essendo che il capitale monetario circolante nel mondo è di svariate volte superiore al Pil globale; che la maggior parte del denaro è svincolato da ogni corrispettivo di valore reale; essendo che la sfera della finanza ha sussunto quella industriale e che la prima non considera la seconda sufficientemente remunerativa, preferendo dunque la pura speculazione per accrescersi di valore; abbiamo che le misure di taglio alla spesa di Tremonti e dei suoi colleghi americani ed europei, non sono volte ad altro che a “tranquillizzare i mercati finanziari”, affinché il valore dei titoli e delle obbligazioni pubblici non scendano, affinché il loro acquisto venga considerato remunerativo dai pescecani della finanza.
Non a finanziare la ripresa e la competitività andranno dunque i risparmi ottenuti dai tagli e dai ricavi della lotta all’evasione, ma ad alimentare la finanza speculativa, di cui il sistema bancario è asse portante.
E non è un caso che il banchiere Draghi, oltre a non aver dedicato una parola al credit crunch, all’inasprimento delle condizioni di offerta di credito alle aziende da parte delle banche, abbia anzi tessuto le lodi dei grandi banchieri (di cui Draghi ha difeso “l’indipendenza” nonché i guadagni stellari) e del sistema bancario medesimo, che prima ancora di assistere il capitale industriale (che in Italia significa in buona parte Pmi) ha anzitutto badato al proprio rafforzamento patrimoniale, a conferma che il settore bancario, da abile strozzino, non si fida di quello industriale e non corre in suo soccorso, e preferisce agire, prima ancora che come capitale a interesse al servizio dell’economia produttiva di plusvalore, speculare sui titoli di stato, sui derivatives o sulla compravendita delle valute.
Infatti Draghi ha subito sottolineato che “la correzione dei conti pubblici” (per quanto dura verso i dipendenti pubblici) e la lotta all’evasione fiscale non sono sufficienti, visto che il vero problema è il terzo: “la perdita di competitività” dell’azienda Italia. Questo è dunque il prius, il primo comandamento: “aumentare la competitività altrimenti non ci sarà il rilancio della crescita”. In gergo questo significa che la correzione dei conti pubblici proposta da Tremonti-Pinocchio (passato in quattro e quattr’otto dal “colbertismo” al monetarismo), in quanto a terapia, avrà la stessa efficacia di un pannicello caldo.
Ma cosa deve intendersi per “competitività”? E come la si può ottenere fatti salvi l’improbabile risanamento delle finanze pubbliche e la sempre evocata lotta all’evasione e all’elusione fiscali?
Occorre aumentare la forza-lavoro impiegata nei processi produttivi, poi bisogna che questa forza-lavoro accresciuta lavori di più e meglio e, quel che più conta ma non si dice, con più bassi salari. In termini marxiani è necessario, affinché il capitalismo italiano non soccomba alla concorrenza internazionale, affinché la recessione non si trasformi un una depressione senza uscita, aumentare non solo il plusvalore (sia assoluto che relativo) ma pure il profitto, visto che quest’ultimo e solo quest’ultimo è il vero scopo del Capitale.
Draghi si “limita” a suggerire che occorre intervenire sul mercato del lavoro dai due lati, quello dell’allungamento dell’età pensionabile e quello di un corposo aumento del tasso di occupazione giovanile. In pratica egli sta dicendo che dalla crisi si esce solo se l’Italia sarà in grado, rispetto all’attuale livello di forza-lavoro occupata, di arruolare milioni di proletari e di spremerli quanto più è possibile.
Ma come fare? Il gatto si morde la coda: il tasso d’occupazione non aumenterà senza una crescita complessiva, ma questa viene a dipendere dalla produttività, la quale deriva tra l’altro dalla massa di forza-lavoro occupata. Per accrescere la forza-lavoro occupata occorrono ingenti investimenti, che com’è noto calano con la recessione dato che questi ultimi, in regime capitalistico, dipendono non solo dal tasso di accumulazione ma dalle aspettative di remunerazione futura del capitale investito. Nessuna azienda è disposta ad investire se non ritiene possibile ottenere un conveniente saggio di profitto. Infine, a maggior ragione quando è alle prese con un ciclo recessivo, il capitale industriale chiede, proprio per sostenere adeguati investimenti, di poter fare affidamento sul credito. Mentre le grandi possono ricorrere alla borsa, le medie e piccole aziende non hanno altra possibilità che fare appello alle banche. Tuttavia, siccome le banche agiscono esse per prime come investitori il cui unico obbiettivo è il profitto, esse stringono i cordoni. Il conflitto tra capitale industriale e quello monetario non è mai stato lampante come adesso, nel punto culminante del capitalismo iper-finanziarizzato.
Siamo dunque daccapo a quindici. Per uscire dalla crisi occorrerebbe accrescere la quota di capitale destinato a nuovi investimenti, ma questa quota è destinata a scendere visto che la recessione fa scendere il valore del Capitale complessivo, addirittura causando un processo a catena di svalorizzazione dei capitali.
Insomma la relazione di Draghi all’assemblea della Banca d’Italia non è stato altro che un pedissequo rendiconto sulla stato della ditta, dal quale il Capitale non caverà un ragno dal buco. Niente di più che un predicozzo da markettaro, nel doppio significato di chi si è esibito in una sconcia prestazione a comando, e in quello di colui che non ha fatto altro che rivolgere una preghiera alla scissa trinità del mercato, del capitale e del denaro, affinché ritrovino l’anelata armonia. La qual cosa copre di ridicolo tutti coloro che da destra a sinistra hanno intonato i loro peana. Se la sua relazione è la base dell’accordo per il dopo Berlusconi, si tratta di un pateracchio dal fiato corto, che lascia facilmente presagire non l’uscita dalla crisi economica, politica e istituzionale, quanto invece il suo ineluttabile incancrenimento.