A proposito del libro di Costanzo Preve e Roberto Sidoli
Ho letto con grandissimo interesse e soddisfazione Logica della storia e comunismo novecentesco di Costanzo Preve e Roberto Sidoli (Editore Petite Plaisance, Pistoia; 215 pagg.; 18 euro; sito internet dell’editore: www.petiteplaisance.it/; la prefazione è stata pubblicata anche qui nel sito del Campo il 4 Aprile scorso.
In esso si espone e si argomenta (e si applica) la teoria che gli autori denominano dell’ “effetto di sdoppiamento”, che credo si possa considerare senza dubbio una interessantissima ed ingegnosa variante teorica (un filone di ricerca in atto) nell’ambito del materialismo storico.

Il libro si compone di due distinti interventi degli autori. Nel primo Preve illustra soprattutto i fondamenti filosofici della teoria attraverso una (re-) interpretazione originale del pensiero di Marx a mio parere quantomeno ardita, mentre nel secondo Sidoli si dedica maggiormente alla dimostrazione, mediante l’applicazione ai fatti storici concreti, e quindi alla messa alla prova empirica, della teoria stessa.

Da Preve (sia detto in tutta umiltà e nella piena consapevolezza del vero e proprio abisso esistente fra la sua gigantesca preparazione e cultura filosofica professionale e la mia rudimentalissima e dilettantesca, ma credo immodestamente non del tutto sterile e vana) dissento quasi su tutto: valutazione di Kant, Hegel, Feuerbach, Engels; interpretazione del pensiero di Marx, che personalmente ritengo sostanzialmente integrantesi con quello di Engels e materialistico in filosofia; sono inoltre convinto con il mio maestro Sebastiano Timpanaro che la dialettica nelle loro teorie non sia che un residuo di idealismo antiscientifico non affatto reinterpretabile materialisticamente o comunque recuperabile scientificamente in alcun modo attraverso un preteso “rovesciamento materialistico” (mi attendo veementi strali polemici da Preve, ma non mi è ovviamente possibile negare, celare o men che meno “mimetizzare” quelle che sono e restano delle mie profonde convinzioni, non incrinate ma anzi piuttosto corroborate dalla pur interessantissima e stimolantissima frequentazione almeno decennale delle sue critiche e argomentazioni; credo comunque di non sbagliarmi nel ritenere che gli faccia piacere se qualcuno legge con interesse e con attenzione critica le sue proposte teoriche, pur dissentendone, e pur se essendo completamente estraneo sia al mondo accademico ufficiale sia a quello più ristretto ma molto più intellettualmente vivace e creativo di chi, come lui, coltiva “extramoenia” la filosofia ad un livello comunque per lo meno altrettanto professionalmente cospicuo).

Per finire con l’elencazione delle mie convinzioni discordanti da quelle di Preve accennerò al fatto che per me il materialismo storico è una scienza umana: una scienza in quanto conoscenza oggettiva fondata sull’osservazione empirica e sull’argomentazione razionale (prescindendo totalmente, assolutamente dalle convinzioni etiche e dalle preferenze estetiche dei suoi fondatori e cultori, per quanto forti, vigorose, formidabili esse siano; in questo esattamente come le scienze naturali); umana in quanto si occupa, per lo meno in larga, determinante misura, di enti ed eventi non quantificabili, non misurabili mediante rapporti esprimibili da numeri, non descrivibili nel loro divenire con leggi sintetizzabili in equazioni matematiche (in questo invece del tutto diversamente dalle scienze naturali).

Ma ripeto di considerare comunque la teoria dello sdoppiamento un interessante filone di ricerca in questo ambito, a dispetto delle mie divergenze filosofiche ed epistemologiche dai suoi autori.
Inoltre con Preve credo comunque di concordare, almeno in gran parte, circa il rifiuto del determinismo (di un determinismo “stretto o ferreo” ci terrei a precisare da parte mia) a proposito dello svolgimento della storia umana (credo del tutto coerentemente anche con la mia diversa concezione del materialismo storico come scienza umana): negazione di un determinismo “stretto o ferreo” nel senso che personalmente ci terrei ad evidenziare il fatto che la storia umana, per non essere rigorosamente deterministica ed inesorabilmente unilineare, non è comunque aperta indiscriminatamente a qualsiasi strada possa essere immaginata in maniera logicamente coerente, vagheggiata e proposta sulla base di sia pure geniali e acutissime intuizioni speculative; e che non è nemmeno del tutto, assolutamente caotica, imprevedibile e non progettabile in alcun modo, bensì è in limitata ma non trascurabile misura condizionata secondo tendenze di sviluppo relativamente determinate, conoscibili e in qualche limitata misura “applicabili”, ovvero utilizzabili per cercare di conseguire scopi coscienti, purché realistici.

Per parafrasare indecentemente i momenti della dialettica (e spero che Preve mi perdoni!) ritengo che la storia umana sia caratterizzata da una sorta di sintesi fra un determinismo relativo e limitato (tesi) e un indeterminismo – ovvero: imprevedibilità, non “dominabilità” verso direzioni coscientemente finalizzate, casualità – altrettanto relativo e limitato (antitesi): in ogni momento non già ogni e qualsiasi scelta razionalmente ipotizzabile e logicamente coerente è oggettivamente alla portata delle comunità umane, e neppure alcun progetto cosciente ed intenzionale è realizzabile, bensì lo è un “ventaglio limitato” di possibili cammini reciprocamente alternativi (e non tutti equiprobabili: la tendenza ad affermarsi di fatto propria di ciascuno di essi essendo oggettivamente differenziata, pur se in maniera non numericamente misurabile o matematicamente calcolabile -scienza umana! – da quella di ciascun altro).

Mi scuso per il tempo che ho fatto perdere a chi si prenda la briga di leggermi, ma questa sommaria elencazione delle mie personali divergenze da Preve (credo parziali, limitate, ma non di poco conto), pur senza avere tempo e spazio per poterle argomentare in misura minimamente adeguata, risponde a una mia irrinunciabile esigenza di chiarezza (e forse a un certo narcisismo, credo veniale): ho opinioni in materia forse errate, forse, stupide forse financo ridicole, ma forti, sentitamente e credo fondatamente convinte.

Per semplificare selvaggiamente (per ovvie ragioni di spazio; e mi scuso con gli autori), secondo la teoria dello sdoppiamento da circa 11000 anni (dall’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento con conseguente possibilità di realizzare una quota di lavoro eccedente quello necessario al sostentamento e semplice riproduzione umana – pluslavoro – e di accumulare stabilmente beni non immediatamente consumati per questi scopi primari) e fino ad oggi sono sempre esistite fondamentalmente due possibili alternative circa l’organizzazione della convivenza sociale, l’una tendenzialmente collettivistica, l’altra classista (variamente declinate in differenti modi di produzione al mutare delle concrete circostanze storiche e geografiche); e l’imporsi in maggiore o minior misura dell’una o dell’altra è sempre ed ovunque dipeso in ultima istanza da rapporti di forza politici (in senso lato: includenti fattori “militari-coercitivi”, “ideologici-consensuali”, anche in qualche misura economici se ho ben capito).

La mia prima impressione alla lettura di queste tesi (decisamente originali, e quindi necessariamente da meditare con calma prima di darne una valutazione definitiva) è che esse, per come le ho intese, tendano eccessivamente a sottovalutare il peso e la forza di condizionamento esercitata sull’organizzazione sociale dal – (lo sviluppo de-) – le forze produttive (pure ampiamente riconosciute dagli autori come un concetto fondante ed imprescindibile e tutt’ora del tutto valido nel materialismo storico).

Sono d’accordo che in questi 11000 anni certamente in teoria sono state sempre e dovunque aperte davanti all’umanità entrambe queste due possibili linee alternative generali di sviluppo sociale (collettivistica o “rossa” e classista o “nera”). E tuttavia, scendendo al livello dell’effettiva praticabilità concreta, mi sembra di dover concludere che in generale la seconda tenda sempre oggettivamente a favorire un maggiore sviluppo quantitativo delle forze produttive “materiali” rispetto alla prima, con conseguenze di grande portata per gli esiti effettivi del loro scontro. Propensione oggettiva a mio avviso innegabile che dipende evidentemente dal fatto che i rapporti di produzione classisti molto più fortemente di quelli collettivistici tendono a stimolare l’ iniziativa economica individuale e a favorire il miglioramento delle tecniche produttive (e anche in non trascurabile misura il progresso delle conoscenze scientifiche “pure” che vi è inevitabilmente connesso), in quanto impongono una costante (e molto “pesante”! E moralmente assai degna di condanna!) tensione concorrenziale fra i diversi individui e fra gruppi sociali più o meno ristretti nella produzione e nello scambio dei beni.

Questo ovviamente al prezzo (molto “salato”!) di gravissime prepotenze, ingiustizie, inganni, violenze, di infamie spesso anche particolarmente odiose e spregevoli.
Non c’ è niente da fare: tutto è relativo nella realtà naturale e a maggior ragione nella vita umana individuale e sociale; e se da un lato generalmente la via collettivistica (in diversa misura nelle diverse circostanze storiche concrete) presenta il vantaggio di favorire potentemente rapporti interpersonali di qualità elevata, gratificanti, eticamente eccellenti, un autentico godimento dei frutti della natura e del lavoro umano, l’elevazione culturale della mente, ecc., in una parola (anzi due) il “buen vivir”, dall’ altro lato (sempre in diversa misura nelle diverse circostanze storiche concrete) la via classistica ha in generale il vantaggio di favorire maggiormente la produzione di quei beni materiali che in qualche misura sono pure presupposti indispensabili per poter vivere degnamente (pensiamo, per fare solo un esempio, a quanto siano più efficacemente progrediti -pur se non senza aspetti anche decisamente deteriori, e certamente non in misura equa e generalizzata – la farmacologia o le tecniche chirurgiche nelle società classiste rispetto a quelle collettivistiche, con evidenti conseguenze sulla salute e sulla durata media della vita umana; ovviamente in generale, non senza eccezioni – proprio perché nella storia umana nulla v’è di assoluto ma tutto è relativo!- e a prescindere dalla distribuzione dei frutti di questi progressi a vantaggio dei diversi gruppi sociali e dalla effettiva diffusione del loro godimento: l’esempio dell’odierna Cuba socialista non è pertinente!).

Ignorare questo, che a mio parere è un dato di fatto oggettivo, significa cadere nell’illusione utopistica, del tutto irrealistica e falsa della possibile esistenza (o realizzabilità) della perfezione (o più in generale credere all’esistenza reale dell’ assoluto, tanto nel bene quanto nel male) in natura e nell’ umanità (cosa in qualche limitatissima misura accaduta anche a Marx ed Engels, che erano – fra l’ altro – grandissimi, geniali scienziati, non profeti o papi infallibili, né mai hanno preteso di esserlo; per esempio secondo me -credo in accordo con Preve; forse non con Sidoli- a proposito del comunismo pienamente realizzato in cui si affermererebbe il principio “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondi i suoi bisogni” e gli apparati di coercizione statale si estinguerebbero completamente, mentre la divisione sociale del lavoro verrebbe meno).

La giustissima e sacrosanta indignazione per le gravissime iniquità, per le vere e proprie disumane infamie che hanno caratterizzato e caratterizzano la “via classista” non devono manicheisticamente impedirci di riconoscerne i pur limitati aspetti positivi al fine di un pieno sviluppo e realizzazione umana; così come la indubbia superiorità complessiva della “via collettivistica” non ce ne deve fare ignorare i limiti (e in questo credo giochi un qualche ruolo il modo di concepire il materialismo storico: come scienza -sia pure umana- del tutto avalutativa e teoreticamente -e ovviamente non a livello di comportamento pratico personale di chi ne sia convinto!- indipendente da qualsiasi valutazione assiologica, come a mio avviso è corretto fare; oppure come scienza filosofica inestricabilmente connotata e integrata a livello teoretico da scelte etiche e imperativi assiologici, come sostiene Preve,).

A questo si aggiunga il fatto non meno importante che le società classistiche sono tendenzialmente “predatorie”, e dunque anche molto aggressive verso l’esterno, mentre quelle collettivistiche tendono ad essere moto più pacifiche, e dunque ad avere oggettivamente serie difficoltà a resistere alle aggressioni operate ai loro danni da parte delle società classistiche; le quali tendono ad essere in generale più materialmente ricche (e dunque più dotate in fatto di armamenti e mezzi logistici) e pure più arrogantemente sopraffattrici e predatrici (questo senza ovviamente sminuire l’importanza, anche strettamente militare, della convinzione e determinazione da sempre proprie in generale delle resistenze antimperialistiche ed i numerosi, fulgidi esempi – autentici: sia detto senza retorica! – di eroismo collettivo e individuale che hanno costellato e costellano la storia millenaria delle loro lotte).

Mi pare che in base a queste considerazioni risulti del tutto ovvio quello che, malgrado le documentatissime argomentazioni di Sidoli, ho la netta impressione sia stato nella realtà dei fatti il soverchiante prevalere in questi ultimi 11000 anni delle tendenze classiste (la “linea nera”), mentre quelle collettivistiche (la “linea rossa”) hanno a mio avviso sempre avuto una vita molto più precaria e stentata, si sono affermate relativamente di rado e soltanto in circostanze di tempo e di luogo assai più limitate. Questo per lo meno per quanto riguarda la “corrente principale” dello sviluppo storico che, salvo casi relativamente marginali e atipici, ha in sostanza seguito finora a mio parere il filone classico dei quattro stadi “canonici” del comunismo primitivo, schiavismo (con variante asiatica), feudalesimo e capitalismo; ma non – se non alquanto limitatamente, precariamente e parzialmente, fra gravi difficoltà intrinseche e durissime ostilità ed aggressioni dall’ esterno – il quinto, quello comunista moderno.

Nella prima parte del suo contributo al volume Sidoli sostiene vigorosamente, attraverso una disamina puntigliosa e documentata di molteplici esperienze dello sviluppo preistorico e storico dell’umanità, le ragioni della teoria dello sdoppiamento, e in particolare la tesi per la quale il passaggio fra le realizzazioni concrete dalla tendenza privatistica o classistica a quelle collettivistiche e viceversa è sempre oggettivamente possibile dal fatidico 9000 a.C.. Tuttavia, forse anche – lo ammetto – per una sorta di inerzia o pigrizia mentale da parte mia, non superabile di primo acchito dalla lettura di argomentazioni pur serie e consistenti, non mi ha sostanzialmente convinto (malgrado – mi sembra doveroso ripetere –  il notevole interesse e anche dell’innegabile validità di molte sue affermazioni su fatti preistorici e storici concreti).

Resto con la netta impressione che quella che viene interpretata da Sidoli come la persistenza “in buona salute” accanto alla “linea nera” anche della “linea rossa” nel periodo neolitico-calcolitico (con contributi perfino maggiori di quella alternativa che essa avrebbe apportato, almeno in alcuni casi, allo sviluppo delle forze produttive), possa essere meglio interpretata come un passaggio lungo e graduale, non lineare e in parte contraddittorio (come tutto, in qualche misura, nella storia umana) dalla società aclassista primitiva alle prime formazioni schiavistiche, in un processo di transizione lungo, durato vari millenni e forse inquadrabile nell’engelsiano “stadio medio della barbarie”: il periodo neolitico-calcolitico, dal 9000 al 3900 a. C. circa come lunga fase di coesistenza conflittuale quasi paritaria (almeno inizialmente) delle “due linee” opposte, nel quale si ebbe un lento, incostante, non lineare, contraddittorio ma in tempi lunghi inesorabile prevalere della “linea nera” classista, in ultima analisi in virtù del suo tendenzialmente maggiore favorire lo sviluppo delle forze produttive rispetto alla “linea rossa”.

Mi è fra l’altro difficile credere che “i molto più numerosi” fossero disposti a tollerare l’ instaurarsi del dominio e dei privilegi dei “molto meno numerosi”, malgrado la “malizia dei preti” (o “proto-preti”: stregoni, sciamani, scribi, ecc.), senza che questo comportasse un maggiore sviluppo delle forze produttive con per lo meno una qualche limitata ricaduta positiva anche per i “molto più numerosi” stessi; a meno di incursioni belliche dall’ esterno (peraltro considerate determinanti, almeno in certi casi concreti, dallo stesso Sidoli), le quali però, per essere vincenti, dovevano a mio avviso comportare comunque un sostanziale maggiore sviluppo delle forze produttive degli aggressori classisti.

Mi viene più immediatamente (e forse “pigramente”) da pensare che molte esperienze storiche da lui interpretate come aclassiste possano invece essere considerate “protoclassiste” (differenziazioni sociali ancora poco cospicue e soprattutto poco “rappresentate simbolicamente”, poco soggettivamente percepite e ostentate, nel corso di un lungo processo di loro crescente espansione e manifestazione), mentre quelle da lui generalmente considerate “protoclassiste” possano invece essere considerate già francamente classiste (ma gli argomenti di Sidoli meritano certamente di essere meditatati a lungo; e così cercherò di fare).
D’altra parte nelle epoche successive al periodo calcolitico (e fino alle esperienze novecentesche del “socialismo reale” sulle quali il discorso é molto più complesso), tutti i casi di sopravvivenza delle potenzialità collettivistiche nell’ambito dell’effetto di sdoppiamento citati dall’autore sono stati, per sua stessa ammissione, nettamente subalterni, salvo gloriosi ma storicamente effimeri episodi isolati, alle alternative potenzialità privatistiche (variamente declinate in diversi rapporti di produzione), attuatesi di fatto in maniera nettamente predominante, credo sempre in ultima analisi in funzione del loro maggiore “sviluppismo quantitativo materiale”.

E infatti questa “regola generale” oggettiva (non senza eccezioni, ovviamente, trattandosi di scienza umana) mi sembra palesemente confermata anche dalle recenti esperienze del “s.r.” (sulle quali sono perfettamente d’ accordo con gran parte delle sobrie e pacate considerazioni di Sidoli, in forte, coraggiosa controtendenza rispetto ai pregiudizi largamente correnti in proposito anche “a sinistra”; in particolare con la sua documentata e convincentissima demolizione della tesi – quasi canonica, soprattutto “a sinistra” – della pretesa natura capitalistica di stato dell’URSS).
Sono infatti profondamente convinto che nella nefasta sconfitta del “s.r.”  della fine degli anni ottanta del secolo scorso, pur senza ignorare i gravissimi errori pratici, i notevolissimi limiti teorici, le scelte politiche talora disastrose compiute dai gruppi dirigenti che si imposero nella storia del comunismo storico novecentesco e anche dalle masse popolari che ne furono parimenti protagoniste, il fattore in ultima analisi decisivo sia stata la sua in qualche misura oggettivamente insuperabile tendenziale minor capacità di sviluppare le forze produttive ed innanzitutto il progresso scientifico e tecnico rispetto al coesistente – ma in rapporti irriducibilmente conflittuali – capitalismo dei centri più prosperi ed avanzati del sistema imperialistico mondiale (sia pur compensata – ma in misura non sufficiente a consentirgli la “vittoria finale”, anche e soprattutto per i suddetti limiti ed errori soggettivi dei suoi gruppi dirigenti – dai non pochi e non affatto trascurabili aspetti postivi, di innegabile, netta superiorità rispetto al capitalismo reale che malgrado tutto quelle esperienze storiche presentavano in fatto di autentica promozione umana. E pur tenendo conto del fatto che il “s.r.” consentì uno sviluppo delle forze produttive comunque incomparabilmente maggiore rispetto a quello dei ben più numerosi “anelli deboli” del sistema imperialistico mondiale, ma inferiore comunque a quello dei suoi relativamente scarsi “punti forti”, a conferma dell’ovvio carattere fortemente ineguale, a favore di pochi e a scapito di molti, che è proprio delle società classiste).

Il discorso sul “s.r.” sarebbe comunque lungo e complesso (è una questione sulla quale concordo pienamente con Sidoli che sia necessario riflettere e studiare moltissimo). Se si confrontano quei paesi – in maniera a mio avviso corretta – con alternative capitalistiche (altrettanto) reali (-stiche), cioè non con i “centri” dominanti del sistema imperialistico mondiale (un capitalismo del tutto “irreale” o puramente immaginario in Russia, Romania o anche in Polonia!) bensì con le “periferie” dominate del sistema, o anche del tutto ovviamente e “imparzialmente” con il capitalismo reale che in quegli stessi paesi gli è succeduto dopo la controrivoluzione gorbyano-eltsiniana, allora appare chiaro che anche relativamente a molti e importanti aspetti “quantitativi” e “materiali” in essi lo sviluppo delle forze produttive non fu affatto inferiore, malgrado difficoltà oggettive ed errori soggettivi notevolissimi.

Se ne potrebbe forse concludere che per lo meno in una fase storica di sviluppo molto avanzato, dopo le rivoluzioni industriali capitalistiche, il differenziale di (ulteriore) sviluppo tendenziale delle forze produttive fra società classistiche e società collettivistiche o fra “linea nera” e “linea rossa” (del quale sono personalmente convinto, in disaccordo con Preve e Sidoli) propenda fortemente a ridursi (i classici del materialismo storico erano addirittura convinti che il capitalismo “maturo” avrebbe ostacolato mentre il socialismo avrebbe ulteriormente accelerato lo sviluppo delle forze produttive! E’ comunque evidente che lo sviluppo tendenziale delle forze produttive é generalmente molto più equo e generalizzato nelle società collettivistiche che in quelle classistiche in generale, e a maggior ragione in particolare nella fase imperialistica del capitalismo, la quale penalizza fortemente le realtà “periferiche” del suo sistema “mondializzato”).
Tuttavia nell’ ambito della sua connaturata “disegualità di sviluppo” il capitalismo di fatto ha prodotto nei suoi “centri” privilegiati e imperialisticamente dominanti una disponibilità di massa (sia pure iniquamente distribuita) di beni di consumo materiali (e anche “virtuali”; anche decisamente fittizi e variamente criticabili) nettamente maggiore che non il “s.r.”, e questo ha avuto un peso importante nelle sconfitte di quest’ ultimo, come rilevato anche da Sidoli (che impiega, a mio parere del tutto giustamente, questo concetto di “sconfitta”, spesso accompagnato dall’ aggettivo “nefasta”, in alternativa ai largamente correnti “crollo” o addirittura “fallimento”).

Ed anche il fatto che lo straordinario sviluppo della Cina postmaoista sia dipeso e dipenda in misura non indifferente da forti concessioni alla “linea nera” classista, che per molti aspetti ricordano la NEP (e che comportano inevitabilmente anche importanti e pericolosi elementi di squilibrio e di iniquità) mi sembra confermare che, almeno per certi importanti aspetti, i rapporti di produzione classistici in generale, ed anche il capitalismo in particolare, tendano oggettivamente a stimolare lo sviluppo delle forze produttive più fortemente di quelli collettivistici in generale, e probabilmente anche, seppure probabilmente in minor misura, del socialismo moderno in particolare.
Mi sembra pertanto che questa “regola generale” dell’oggettivo tendenziale maggiore sviluppo quantitativo – ripeto ancora una volta: per quanto fortemente ineguale, squilibrato e contraddittorio- delle forze produttive materiali nelle società classiste rispetto a quelle collettivistiche (contrariamente a quella che era una importantissima e fortissima convinzione dei classici del materialismo storico, che anche in questo sarebbero stati in errore), potrebbe forse essere estesa (anche se in misura ancor più squilibrata che nelle precedenti fasi storiche), financo al confronto fra capitalismo e comunismo moderno (forse addirittura pure nella sua fase “superiore, quale si sviluppa sulla sua propria base”, e non solo alla sua “prima fase, quale sorge sulla base del preesistente capitalismo”, la quale ultima non fu mai ovviamente superata e forse nemmeno compiutamente realizzata dal “s.r.”).

E tuttavia questa oggettiva tendenza più “materialmente sviluppista” delle società classiste, che ha sempre costituito per esse un decisivo fattore di forza e di supremazia nei confronti delle alternative comunistiche (e in particolare e soprattutto l’aspetto “sfrenatamente produttivistico” che essa viene ad assumere nella sua fase capitalistica, caratterizzata dalla inevitabile forsennata, “miope” concorrenza fra unità produttive private nella ricerca del massimo profitto a qualunque costo e a breve termine) viene sempre più irrimediabilmente a cozzare contro l’ineluttabile, oggettiva limitatezza delle risorse naturali e delle possibilità della natura di “metabolizzare” gli effetti negativi, ai fini della nostra sopravvivenza come specie, delle produzioni e consumi umani (che Marx ed Engels non potevano di fatto, realisticamente conoscere ma che è ormai del tutto evidente, per lo meno dalla metà del XX° secolo): fintanto che l’entità delle produzioni e dei consumi umani è stata ben lontana dai limiti delle risorse naturali effettivamente (e non: fantascientificamente!) disponibili lo sviluppo ininterrotto e crescente delle forze produttive favorito dalle tendenze classiste (ed a sua volta favorente le tendenze classiste, in una sorta di “feed-back positivo”, o di “circolo virtuoso” o “vizioso” a seconda dei punti di vista) non poneva alcun problema. Ma da quando a questi ineluttabili limiti oggettivi l’umanità si è sempre più pericolosamente avvicinata é accaduto nella sua storia un altro mutamento colossale, di portata per lo meno paragonabile a quello di 11000 anni fa: giunto a questo punto l’uomo si trova davanti a un ulteriore bivio (senza alcuna “garanzia deterministica” che prenderà la strada migliore!): o continuerà a prevalere la vecchia via classista (nella fattispecie esasperatissima del capitalismo monopolistico transnazionale) che in relativamente breve tempo la porterà inesorabilmente all’“estinzione prematura e di sua propria mano” (Sebastiano Timpanaro); oppure, di fronte a questa prospettiva letteralmente e non affatto iperbolicamente apocalittica, prevarranno finalmente in maniera “conclusiva” (per quanto di conclusivo possa darsi nella storia umana) le tendenze collettivistiche e l’umanità potrà continuare a progredire (qualitativamente) in quanto di più nobile ed elevato la caratterizza: la cultura, l’amicizia, la convivialità, l’arte, le conoscenze, la creatività, il “buen vivir”: hic Rhodus, hic salta!

In conclusione, il libro di Preve e Sidoli è una lettura che mi permetto di consigliare vivamente a tutti i compagni; fra l’ altro – credo di aver mostrato chiaramente – molto stimolante la riflessione e la discussione su questioni certamente in larga misura non condivise da molti di noi, come gli elementi di affinità fra la NEP leniniana e il corso “denghista” in Cina, il concetto di “sconfitta” piuttosto che “crollo” del “s.r.”, e in generale la questione della natura sociale dell’ URSS, ecc.).