Resoconto del seminario teorico del Campo Antimperialista
Si è svolto a Vienna, sabato 12 e domenica 13 giugno, l’annunciato seminario teorico del Campo per quadri e militanti.
Erano presenti compagni tedeschi, austriaci, ungheresi, palestinesi e italiani. Ostacoli di vario genere hanno impedito la partecipazione ad altre delegazioni internazionali.
Due i temi affrontati nel seminario. Il primo l’analisi della crisi economica internazionale, il secondo quello della fuoriuscita socialista dal capitalismo.
Sul primo tema Moreno Pasquinelli, partendo dall’esposizione empirica dei dati macro-economici concernenti la crisi attuale, ha sottolineato quali profonde trasformazioni abbia conosciuto il sistema capitalistico, anzitutto nell’Occidente imperialistico negli ultimi quaranta anni. Solo infatti mettendo a fuoco le peculiarità e le modalità del modello “turbo-capitalista” divenuto dominante (semplicisticamente definito neoliberista) si può infatti capire perché questa crisi sia storico-sistemica, spinga cioè l’Occidente dentro un periodo di fortissime turbolenze sociali e politiche, e con esso il mondo davanti a mutamenti geo-economici e geo-politici di carattere epocale.
Il relatore, respingendo le due tesi polarmente opposte della mera recessione destinata ad essere superata per far posto ad un nuovo ciclo espansivo e a quella apocalittica del crollo del capitalismo, ha avanzato la tesi della “decadenza”, quella di un declino del capitalismo occidentale che starebbe entrando in un periodo di stagnazione di lungo periodo, alla quale si accompagna l’ascesa, come baricentro del capitalismo mondiale, del polo asiatico, in particolare cinese. Nelle conclusioni il relatore ha indicato per sommi capi le conseguenze strategiche possibili che questo spostamento avrà per quanto attiene alla sfera geo-politica del rapporto tra potenze e stati, e quali nuove chances questa riconfigurazione sistemica potrà avere sia sulle resistenze antimperialiste che sulle lotte anticapitaliste nello stesso Occidente.
Tuttavia la prolusione era anzitutto afferente alla sfera economica. Il relatore ha subito esordito affermando che malgrado esistano alcune lacune nell’impianto categoriale marxista, è solo alla luce delle categorie marxiane (a partire dalla legge del valore) che l’attuale crisi può essere decodificata e compresa, districandosi nel mare magmum dei dati empirici descrittivi i quali, da soli, rischiano di non dirci niente. Come tutti i dati essi vanno interpretati e l’interpretazione implica dei criteri d’analisi, un set di categorie, una sofisticata cassetta di attrezzi teorici. Questa crisi è infatti anche crisi dei paradigmi della scuola economica neoclassica, sia keynesiana che liberista.
La tesi centrale sottoposta all’attenzione dei presenti è che il livello di finanziarizzazione conosciuto dal capitalismo occidentale ha cambiato in maniera qualitativa il sistema. Un livello di finanziarizzazione impensabile ai tempi di Marx, processo che Lenin aveva invece messo a fuoco nel suo testo L’Imperialismo, leggendo i suoi caratteri predatori e parassitari come sintomi del fatto che quella imperialistica era la fase suprema o finale del capitalismo, ma sottovalutandone la forza e le capacità vitali e concependo dunque la fine come prossima. Lenin infine, che per primo colse l’importanza della rinascita dell’Asia, convinto com’era che il socialismo fosse un risultato quasi naturale e ineluttabile dell’evoluzione storica, lasciò intendere che la crisi mortale del capitalismo occidentale sarebbe stata, sic et simpliciter, la fine del capitalismo tout court.
Il processo di finanziarizzazione consiste essenzialmente nel fatto che il capitale, giunto al suo massimo punto di espansione nel periodo keynesiano, con l’ausilio determinante del potere politico imperiale nordamericano da Nixon in poi, per diverse cause (tra cui l’avanzata delle lotte operaie e dei popoli oppressi, la concorrenza forsennata tra monopoli, il declino dei tassi di plusvalore) è stato spinto ad orientarsi verso la speculazione (denaro che riconsegna più denaro) senza passare per un ciclo produttivo di plusvalore che implica investimenti produttivi, accumulazione di capitale e quindi sviluppo delle forze produttive materiali. In termini marxiani, inceppatasi la “riproduzione allargata”, il capitale, che per sua natura cerca anzitutto profitto, ha finito per scegliere le modalità speculativo-finanziarie per ottenerlo. Abbiamo che in Occidente il capitale monetario fa fatica a convertirsi in capitale produttivo, che l’eccedenza ottenuta nel processo di produzione, invece di essere riconvertita in plusvalore, preferisce ottenere plusvalenza monetaria nei mercati finanziari, del debito e delle valute. Siccome capitale produttivo è solo quel capitale che crea sì profitto ma solo in quanto crea plusvalore su scala sempre più ampia, abbiamo che il capitale è diventato appunto anzitutto speculativo e improduttivo. I settori produttivi che resistono sono quelli in cui il ciclo di valorizzazione è sempre più breve (a danno di investimenti che hanno periodi lunghi di remunerazione) e quelli rivolti al mercato dei beni di consumo (che infatti hanno generalmente tempi brevi).
Ciò ha indotto profonde trasformazioni sia per quanto attiene alla composizione delle due classi fondamentali e alle loro relazioni reciproche, che alla composizione della società tutta. Alla crescita abnorme del capitale improduttivo (e dei settori rentier della borghesia) ha corrisposto necessariamente l’aumento del lavoro improduttivo. Ha infine causato la definitiva sussunzione dello Stato e della sfera del politico, nella forma della loro privatizzazione da parte degli organismi e dei consorzi speculativi transnazionali (sotto le mentite e ingannevoli spoglie dell’osservanza delle “regole del mercato”, nel frattempo brutalmente manipolate dai pescecani della speculazione).
Un simile modello sistemico è per sua natura parassitario, instabile e destinato a passare, nel contesto della fine della crescita e dell’opulenza, da un crack all’altro, senza la possibilità (salvo un redde rationem bellico) di potere invertire il corso decadente, producendo nuove e inedite tensioni sociali all’interno stesso delle roccaforti imperialistiche, e dunque il ritorno al centro della scena della necessità di una rottura rivoluzionaria e della fuoriuscita dal capitalismo.
Su questa premessa si è innestata la seconda e non meno impegnativa prolusione di Gernot Bodner sulla tematica dell’alternativa.
Il relatore ha esordito che non c’è una terza via tra capitalismo e socialismo, per quanto entrambi possano assumere caratteristiche anche molto diverse tra loro. Data la ingloriosa fine dei cosiddetti “socialismi reali”, la quale ha contribuito a causare il declino dell’ideale socialista, non è oggi plausibile pensare ad un risorgimento del socialismo che non sia preceduto da una sua rifondazione teorica e programmatica.
Questa rifondazione è solo agli inizi.
Bodner ha anzitutto insistito come occorra rifuggire dalla credenza fatalista per cui il socialismo sarebbe un parto inevitabile del progresso storico, un frutto naturale dello sviluppo capitalistico. La fuoriuscita dal capitalismo e il socialismo non avverranno se grandi movimenti di massa non lo vogliono.
Fatta questa doverosa premessa il relatore ha focalizzato la sua prolusione su due aspetti, che il vecchio marxismo avrebbe schematizzato il primo come strutturale il secondo come sovrastrutturale, ovvero l’economico e il politico. E’ certo che nessun socialismo può darsi senza produzione generale di beni per la soddisfazione dei bisogni, ciò che implica lavoro e forza produttiva. Tuttavia gran parte delle forze produttive che il capitalismo ci lascia in eredità non sono “buone” ma “cattive”. Il socialismo non sarà quindi, dal punto di vista economico, un “naturale” sviluppo del capitalismo. E’ piuttosto e primariamente una rottura col lato economico del capitalismo: con le sue leggi di mercato, i suoi rapporti di produzione, il suo modello di consumismo compulsivo, la sua divisione del lavoro.
In secondo luogo esso non può nemmeno prendere come buoni i suoi “meccanismi democratici”. E’ certo che non può esservi socialismo senza democrazia, ma questa può essere di carattere socialista soltanto a condizione che si fondi sull’attiva partecipazione alle decisioni politiche da parte dei cittadini. Quindi nulla a che vedere con la democrazia borghese, che si fonda invece sulla netta separazione tra dirigenti e diretti, tra rappresentati e rappresentanti. Da questo punto di vista (oltre che quello di concepire lo sviluppo economico in termini non dissimili da quelli capitalistici – critica del “produttivismo”) il “socialismo reale” ha fatto fiasco. A parte i momenti di slancio rivoluzionario iniziale, a partire dall’URSS, tutti i diversi sistemi “socialisti” hanno finito per cristallizzare la divisione tra masse e dirigenti. Per il relatore questo è dipeso dal fatto che lungi dal superare la capitalistica e tradizionale divisione del lavoro, nel “socialismo reale” questa divisione, pur in forme diverse è rimasta intatta.
Prendendo più spesso spunto dall’esperimento venezuelano, e spesso riferendosi al contributo gramsciano sull’egemonia, Bodner, ha sottolineato quest’aspetto della costruzione del socialismo come uno dei più controversi e difficili. Come evitare che la “quotidianità” prenda il sopravvento sulla spinte partecipative iniziali che abbiamo visto all’opera in ogni processo rivoluzionario? Il relatore ha dunque affermato, non senza mettere in guardia da uno sterile utopismo messianico (il comunismo come una specie di finale paradiso terrestre), che occorre comunque ripartire, sul piano teorico, dal Marx degli scritti su La Comune e dal Lenin di Stato e Rivoluzione.
Citiamo dalla sua prolusione:
«L´idea di Marx dell´associazione di comuni offre invece molteplici spunti per la concezione di una società autodeterminata:
– La democrazia diretta (democrazia assembleare) richiede piccole unità ed è maggiormente immaginabile in comuni territoriali.
– La democrazia assembleare comunale permette una società civile organizzata che agisce permanentemente come sovrano sociale, senza trasferire ad una burocrazia un fisso (costituito) potere politico.
– Il sostegno/incoraggiamento della riproduzione economica comunale (utilizzo delle risorse regionali e catena di creazione di valore) può sia migliorare l’utilizzo sociale del potenziale produttivo, sia permettere una sensata estensione di autonomia comunale. La soppressione/diminuzione della disuguaglianza della divisione del lavoro regionale e internazionale può sviluppare i rapporti di concorrenza in rapporti di cooperazione tra unità con pari diritti. La soppressione di dipendenze economiche rende possibile la costituzione di società basate in gran parte sull’associazione volontaria.
– La coordinazione dei bisogni di consumo, ordini di produzione e decisioni d’investimento all’interno di una società che ha superato sia strutturalmente (soppressione/eliminazione delle differenze di classe) che politicamente ed eticamente le disuguaglianze sociali dovrebbe diventare da un problema sociale e politico sempre più un problema puramente tecnico.
– L´associazione di comuni faciliterebbe e renderebbe democratica l’armonizzazione sociale dei piani di sviluppo, mentre può utilizzare per la riproduzione regionale e locale meccanismi di mercato e di pianificazione flessibili».
Il dibattito seguito alla due lezioni ha fornito ulteriori spunti, non senza segnare alcune differenze di vedute, in specie sulla questione del socialismo e della transizione, il tutto a conferma che lo studio e l’analisi proseguiranno nei prossimi anni, a tutto Campo, di pari passo con l’impegno attivo nelle battaglie sociali e antimperialiste. Il prossimo seminario è previsto per la primavera dell’anno prossimo.