La crisi, il ricatto di Marchionne e il capitalismo reale

Il gioco si fa duro, e non riguarda soltanto lo stabilimento di Pomigliano.
La Fiat traccia la linea del futuro industriale italiano, un futuro che potrà esservi solo a patto di accettare la terzomondizzazione della condizione operaia, il pieno dispiegarsi del dispotismo aziendalista, la completa accettazione delle compatibilità imposte dalla globalizzazione.
E’ toccato ad un sindacalista d’accatto come Angeletti, un personaggio quasi irreale nella sua nullità, spiegare il senso dell’accordo già firmato da Cisl, Uil, Fismic e Ugl: «L’accordo su Pomigliano è (uno) spartiacque nel sistema delle relazioni sindacali». «L’era dell’antagonismo è finita. Questo accordo dimostra che, in Italia e in Europa, può ancora vivere un forte apparato industriale: senza un sistema di relazioni sindacali antagoniste la globalizzazione potrà non esser più sinonimo di deindustrializzazione». (AGI, 14 giugno)

Se lasciamo perdere per un attimo l’aspetto ridicolo di questo novello Fukuyama, bisogna riconoscere che questa dichiarazione ha almeno il pregio della chiarezza. Per il segretario della Uil la globalizzazione non  sarà più un problema, purché si abolisca per legge e per sempre ogni forma di conflitto.
Angeletti, ovviamente, è soltanto una comparsa e non delle più importanti. Ma sulla stessa linea troviamo la Cisl, la Confindustria, il governo e il Pd (al di là di sfumature secondarie). E vi troviamo anche, pressoché all’unisono, i principali mezzi di informazione; mentre il problema della Cgil sembra quello di salvare la faccia, non certo i diritti dei lavoratori.  
E’ davanti a questo blocco, che 5200 lavoratori della Fiat di Pomigliano verranno chiamati ad esprimersi con un referendum sull’accordo il prossimo 22 giugno.

Fiom e Slai Cobas giustamente rifiutano di sottoporre a referendum un testo che calpesta diritti costituzionali e di legge, che straccia il contratto nazionale di lavoro, che si svolge sotto il ricatto padronale (“o accettate in toto la linea aziendale, o la fabbrica verrà chiusa”). Un ricatto che investe i 10mila addetti dell’indotto e l’intero tessuto sociale di una zona che già vive una pesantissima situazione occupazionale.
Ma la posta in gioco del ricatto di Marchionne, il manager “illuminato” che tanto piace al Pd (e che in passato piacque non poco allo stesso Bertinotti), va ben al di là dello stabilimento napoletano.
L’obiettivo, ben più ambizioso, è quello di dettare i termini del dominio di classe nella lunga fase di stagnazione che si prospetta per il nostro paese come per il resto d’Europa.
“Più lavoro, meno salario”, questa è la linea proposta dai vertici del capitalismo italiano, con la benedizione del governo e (al di là di qualche debole mal di pancia) della finta opposizione.

Bella novità, dirà qualcuno! Ed invece la novità c’è. Certo, è da un quarto di secolo che la condizione dei lavoratori è sotto attacco, ma guai a non vedere il salto di qualità che si annuncia.
Qui non siamo semplicemente di fronte ad una delle periodiche incursioni contro il lavoro salariato, qui vediamo messa in pratica l’unica risposta di cui sono capaci le classi dominanti di fronte alla crisi. Un fatto che segnala la loro indubbia rapacità, ma ancor più la gravità di una crisi dalla quale non sanno come uscire.

La seconda puntata della politica dei sacrifici

Il diktat di Pomigliano è la seconda puntata della politica dei sacrifici, dopo la manovra economica varata dal governo. Il plauso dei berluscones è stato corale, con un Tremonti più spudorato del solito che è arrivato a dire che: «l’accordo su Pomigliano è la rivincita dei riformisti su tutti gli altri».
Ma se la vittoria è dei “riformisti”, un termine che nella neo-lingua orwelliana designa proprio i fautori delle più sconce controriforme, in tanti possono gioire. Non stupiscono dunque le grida di gioia che si levano sia nel campo della politica che in quello del sindacato, nell’area governativa ed in quella della cosiddetta opposizione.
Il trasversalissimo partito dei (contro)riformatori è tanto numeroso quanto succube agli imperativi delle oligarchie finanziarie. Per costoro, se in gioco è la salvezza del sistema, i sacrifici debbono essere imposti con ogni mezzo, mentre ogni diritto può essere cancellato all’istante se rappresenta un intralcio al dominio dell’impresa.

Ma vediamo cosa prevede il diktat della Fiat, malamente travestito da accordo sindacale per quanto “separato”. In primo luogo contiene una parte strutturale che riguarda la turnazione su sei giorni lavorativi (dunque con il sabato incluso), il ricorso massiccio allo straordinario (200 ore annue) alla faccia del lavoro per i giovani, la riduzione del 25% delle pause, la flessibilità totale in materia di mansioni, postazioni di lavoro, eccetera. In secondo luogo, l’accordo-capestro, come lo definisce giustamente lo Slai Cobas, pretende di cancellare fondamentali diritti costituzionali (diritto di sciopero) e di legge (la tutela della malattia). In terzo luogo il testo esige la totale sottomissione dei lavoratori alle necessità dell’azienda, un obiettivo non soltanto di ordine pratico, ma anche smaccatamente ideologico: ai lavoratori non si domanda soltanto di piegarsi oggi alle necessità della competizione, ad essi si chiede un atto di sottomissione per l’oggi, per il domani, per sempre.

Questo è il futuro disegnato per i lavoratori italiani, non certo solo quelli di Pomigliano, dall’impressionante stuolo dei “riformisti” di professione, tra i quali spiccano ovviamente autorevoli dirigenti del Pd.
«Non mi pento degli apprezzamenti che gli ho rivolto (a Marchionne – ndr). Anzi, non capisco come il sindacato non possa cogliere l’occasione che viene offerta: credo che nel referendum il sì all’accordo vincerà e quindi penso che la Fiom dovrà ripensarci». Questo è il pensiero del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, apparso sul Corriere della Sera di oggi.
Ma sentiamo un altro “democratico” torinese, Piero Fassino: «Sta passando l’ultimo treno per salvare Pomigliano e il sindacato deve rendersene conto».

Ma la pressione sulla Fiom non viene soltanto dal Pd. L’organizzazione dei metalmeccanici della Cgil, mentre si oppone ai punti che cancellerebbero ogni funzione sindacale, è di fatto disponibile sulla parte strutturale delle richieste della Fiat. Ne risulta dunque una linea già indebolita, ma quel che può colpire a morte la Fiom è la posizione assunta oggi dal segretario della Cgil.
Epifani, dopo una serie di frasi apparentemente cerchiobottiste, è sceso pesantemente in campo dichiarando che: «A occhio e croce direi che i lavoratori andranno a votare, e a occhio e croce voteranno sì. Per quello che mi riguarda sarà un sì all’occupazione, al lavoro, agli investimenti».
Poteva esserci un segnale più forte per indicare da quale parte sta la Cgil? Poteva esserci un modo più efficace per isolare la Fiom?

Lotta di classe e lotta politica

L’odierna uscita di Epifani chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio l’importanza della partita di Pomigliano. Vedremo come reagirà la Fiom. Se si limiterà ad una battaglia di bandiera, la sconfitta sarà certa.
Sul piano sindacale, il no alla consultazione-truffa del 22 giugno avrebbe come unico sbocco logico e conseguente la richiesta di un referendum tra tutti i lavoratori a livello nazionale. E’ naturale che Marchionne e la Confindustria vogliano ottenere una vittoria nazionale attraverso un risultato simbolico da conseguire tra i lavoratori ricattati di Pomigliano. Altrettanto logico sarebbe che chi si oppone al diktat della Fiat promuovesse la mobilitazione su scala nazionale, visto che l’attacco va ben oltre Pomigliano.
Questo vorrebbe la logica politica, ma abbiamo visto quali siluri siano arrivati proprio dal vertice della Cgil…

In ogni caso non è possibile immaginare una lotta vincente che si sviluppi esclusivamente sul piano sindacale.
La lotta di classe percorre tante vie, a seconda delle concrete condizioni politiche e sociali in cui si svolge. Oggi non si può prescindere dal contesto della crisi storico-sistemica del capitalismo. Ne consegue che il piano sindacale ha sì la sua importanza, ma decisivo è il livello politico.
Innanzitutto, due elementi di consapevolezza debbono essere portati tra i lavoratori: il primo è quello sulla natura e sulla portata della crisi, affinché sia chiaro che la stessa difesa degli interessi più elementari non può essere disgiunta oggi da una nuova prospettiva anti-sistemica; il secondo è che i diktat di Marchionne, così come i tagli di Tremonti, non sono accidenti caduti dal cielo, bensì il volto più verace del capitalismo reale contemporaneo.

Il gioco si sta facendo veramente duro. Assurdo pensare che possa decidersi davvero sul terreno sindacale. Occorrono invece obiettivi politici, inseriti in una strategia di ampio respiro.
I diktat della globalizzazione, che è poi l’ambito fisico, materiale ed ideologico in cui si è sviluppato il turbo-capitalismo che ha portato al disastro attuale, vanno respinti. Al loro posto vanno affermati i diritti sociali fondamentali.
Non si chieda al capitalismo di essere diverso da quel che è. Si abbandoni questa cattiva utopia e ci si occupi di ricostruire l’unica via d’uscita davvero realistica, la fuoriuscita dal capitalismo.
D’altronde, se Pomigliano ci parla del capitalismo realmente esistente, è a quel livello che andranno costruite le risposte.

Il che non significa certo l’abbandono delle battaglie immediate, a partire da quella contro il referendum-truffa del 22 giugno che ci auguriamo fallisca. L’armata Marchionne, Bonanni, Angeletti e (possiamo dirlo) Epifani, potrà cantare vittoria solo se riuscirà a portare ai seggi una forte maggioranza dei lavoratori. Un obiettivo che interessa a tal punto la Fiat da fargli riaprire allo scopo la fabbrica, che quel giorno doveva essere chiusa con i lavoratori in cassa integrazione…
Una preoccupazione che attesta come anche lorsignori non siano poi così tanto sicuri degli scenari che ci attendono.